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CANE CHE MORDE NEGLI SPAZI COMUNI CONDOMINIALI: RESPONSABILITÀ DEL PROPRIETARIO

  • Redazione
  • 17 marzo 2016

In un contesto quale quello condominiale – chiuso all’esterno e caratterizzato dalla presenza di spazi interni comuni dove, in ipotesi, un cane può essere lasciato libero – è evidente che l’obbligo di custodia dell’animale non può che avere come contenuto quel minimo di regole prudenziali che evitino rischi per l’incolumità degli altri legittimi frequentatori del sito, pur non definibili come estranei. È quanto evidenziato dalla Corte di Cassazione con la sentenza 10720 del 19 febbraio 2016, di cui si riporta un estratto.

—————-

CORTE DI CASSAZIONE

Sez. IV pen., sent. n. 10720,

ud. 19.2.2016

—————

RITENUTO IN FATTO 

P.P. ricorre avverso la sentenza di cui in epigrafe che, riformando in melius quella di primo grado quanto al trattamento sanzionatorio [pur non essendogli state riconosciute le attenuanti generiche la pena è stata ridotta], ne ha confermato peraltro il giudizio di responsabilità relativamente al reato di lesioni colpose correlate all’omessa custodia di un cane, che aveva morso B.S., all’interno della proprietà comune. 

Con il ricorso si censura il ricostruito addebito di colpa, sostenendosi che sarebbe stato custodito con le cautele del caso, perché l’episodio del morso era avvenuto all’interno di un cortile privato recintato e non aveva riguardato un “estraneo” bensì persona che aveva titolo per entrare e che ben sapeva della presenza dell’animale e delle modalità con cui questo era custodito. 

A supporto si cita giurisprudenza di questa Corte secondo cui al fine di escludere l’elemento di colpa, di cui all’articolo 672, comma 1, c.p., rappresentato dalla mancata adozione delle debite cautele nella custodia di un cane da guardia, non basta che l’animale pericoloso si trovi in luogo privato o recintato, ma è necessario che in tale luogo non possano introdursi estranei [cfr. in proposito Sezione IV, 1° marzo 1988]. 

Ci si duole del diniego delle generiche, motivato in ragione del precedente coinvolgimento del cane in altra aggressione. 

Proprio la non estraneità dell’offeso, quindi, consentiva di ritenere soddisfatto l’obbligo cautelare. 

CONSIDERATO IN DIRITTO 

Il ricorso è manifestamente infondato, a fronte di una decisione che, con ricostruzione del fatto neppure contestata, ha fatto corretta applicazione dei principi operanti in materia. 

In realtà, vale ricordare che, in tema di custodia di animali, l’obbligo di custodirlo in modo adeguato idoneo ad evitare danni a terzi sorge ogni volta che sussista una relazione di possesso o di semplice detenzione tra l’animale e una data persona, posto che l’articolo 672 c.p. relaziona l’obbligo di non lasciare libero l’animale o di custodirlo con le debite cautele al possesso dell’animale e tale obbligo cautelare si correla appunto all’esigenza di evitare rischi a terzi che possano entrare in contatto con l’animale. 

Sotto questo profilo, nel ricorso si fa erroneo richiamo a quell’orientamento giurisprudenziale che ha affrontato specificamente il tema della custodia di un animale in ambiente recintato dove terzi estranei, non titolari del diritto di entrare e/o frequentare quel luogo, abbiano fatto accesso e siano venuti in contatto con l’animale. 

Tale orientamento si giustifica con riferimento a situazioni in cui terzi entrino nella proprietà altrui, dove sono liberi ed incustoditi animali, e mira a disciplinare il comportamento cautelare imposto al titolare dell’animale. 

Diversa è la questione della custodia di animali lasciati liberi in spazi recintati ma di uso comune [l’ipotesi tipica è quella del condominio chiuso all’esterno e caratterizzato dalla presenza di spazi interni comuni dove, in ipotesi, l’animale può essere lasciato libero]. 

Rispetto a tali situazioni è evidente che l’obbligo di custodia non può che avere come contenuto quel minimo di regole prudenziali che evitino rischi per l’incolumità degli altri legittimi frequentatori del sito, pur non definibili come estranei nei termini di cui si è detto. 

È su questo tema che si è soffermata la decisione gravata, in una fattispecie in cui l’atteggiamento colposo è stato apprezzato come sussistente in concreto avendo riguardo al precedente incidente in cui il cane era rimasto coinvolto, avendo aggredito altra persona. 

Proprio tale comportamento dell’animale avrebbe dovuto indurre una particolare cautela, risultata mancante. 

Corretto e incensurabile è il diniego delle generiche. 

Il giudice, in linea con i parametri di cui all’articolo 133 c.p., ha motivato valorizzando negativamente il precedente coinvolgimento del cane in episodio analogo. 

Basta in proposito ricordare che, nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo tutti gli altri disattesi o superati da tale valutazione (Sezione III, 4 dicembre 2014). 

Così come calzante è l’altro principio secondo cui, in tema di circostanze attenuanti generiche, posto che la ragion d’essere della relativa previsione normativa è quella di consentire al giudice un adeguamento, in senso più favorevole all’imputato, della sanzione prevista dalla legge, in considerazione di peculiari e non codificabili connotazioni tanto del fatto quanto del soggetto che di esso si è reso responsabile, ne deriva che la meritevolezza di detto adeguamento non può mai essere data per scontata o per presunta, sì da dar luogo all’obbligo, per il giudice, ove questi ritenga di escluderla, di giustificarne sotto ogni possibile profilo, l’affermata insussistenza. Al contrario, è la suindicata meritevolezza che necessita, essa stessa, quando se ne affermi l’esistenza, di apposita motivazione dalla quale emergano, in positivo, gli elementi che sono stati ritenuti atti a giustificare la mitigazione del trattamento sanzionatorio; trattamento la cui esclusione risulta, per converso, adeguatamente motivata alla sola condizione che il giudice, a fronte di specifica richiesta dell’imputato volta all’ottenimento delle attenuanti in questione, indichi delle plausibili ragioni a sostegno del rigetto di detta richiesta, senza che ciò comporti tuttavia la stretta necessità della contestazione o della invalidazione degli elementi sui quali la richiesta stessa si fonda. In questa prospettiva, anche uno solo degli elementi indicati nell’articolo 133 c.p., attinente alla personalità del colpevole o alla entità del reato ed alle modalità di esecuzione di esso, può essere sufficiente per negare o concedere le attenuanti generiche, derivandone così che, esemplificando, queste ben possono essere negate anche soltanto in base ai precedenti penali dell’imputato (Sezione 

IV, 28 maggio 2013). 

Segue, a norma dell’articolo 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro mille a titolo di sanzione pecuniaria a favore della Cassa delle Ammende, non emergendo ragioni di esonero nonché alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile costituita in questo giudizio, liquidate come in dispositivo. 

P. Q. M. 

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1000 in favore della cassa delle ammende, nonché alla rifusione delle spese in favore della parte civile che liquida in complessivi euro 2.000, oltre accessori come per legge. 

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