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INTOSSICAZIONE DA CALDAIA: RESPONSABILI LOCATRICE, TECNICO E CONDOMINIO

  • Redazione
  • 4 novembre 2016

La conduttrice di un alloggio resta intossicata dalle emissioni della caldaia dell’appartamento che aveva preso in affitto. Sia la locatrice, sia il condominio, sia il tecnico della caldaia sono condannati in solido a risarcire la donna, e la sentenza di primo e secondo grado è confermata dalla Cassazione. Vediamo perché.

——————–

CORTE DI CASSAZIONE

Sez. III civ., sent. 25.10.2016, 

n. 21466

——————–

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Con sentenza del 4 ottobre 2011 il Tribunale di Milano ha condannato solidalmente D.L., quale locatrice, A.B., quale tecnico per caldaie, e il condominio di via … a risarcire A.S. nella misura di euro 577.554, oltre accessori, per danni non patrimoniali e patrimoniali da lei subìti a causa di una intossicazione da monossido di carbonio avvenuta il 6 dicembre 1999 nell’appartamento che aveva assunto in locazione dalla D.L. – detratto l’acconto di euro 2500 versato dal A.B. -, nonché a risarcire la di lei madre G.B. per danno morale nella misura di euro 5000.

Avendo la D.L. proposto appello principale e il A.B. appello incidentale, la Corte d’appello di Milano (omissis) ha dichiarato inammissibili entrambi gli appelli.

2. Ha presentato ricorso D.L. sulla base di cinque motivi, da cui si difendono con controricorso A.S. e G.S. (anche quali eredi di G.B., nelle more deceduta), nonché si difende con controricorso Generali Italia S.p.A., compagnia assicurativa del condominio, non condannata.

MOTIVI DELLA DECISIONE

3. Il ricorso è infondato.

3.1. Il primo motivo denuncia violazione e/o falsa applicazione degli articoli 2043 c.c. e 3 UNI/CIG 7129/1992 pubblicata con d.m. 21 aprile 1993 in ordine alla mancata sussistenza e/o mancanza di prova del nesso causale tra la condotta della ricorrente e l’evento.

Non sussisterebbe prova di mal funzionamento della caldaia: non lo avrebbero affermato né il c.t.u. né i testi S., D. e P., e non lo avrebbero dimostrato neppure gli accertamenti della Asl 6 di Milano. La mancanza del foro di ventilazione nella caldaia, prescritto dall’articolo 3 UNI/CIG 7129/1992, non avrebbe inciso, perché tutto sarebbe derivato dall’ostruzione della canna fumaria. Non sarebbe stato quindi accertato il nesso causale né secondo la teoria della condicio sine qua non né secondo la teoria della causalità adeguata.

La sintesi appena tracciata del contenuto del motivo è sufficiente per dimostrarne l’inammissibilità: per quanto tenti di occultarlo mediante argomentazioni, in realtà non rilevanti, sulle teorie del nesso causale, la ricorrente persegue un terzo grado di merito, chiedendo in sostanza al giudice di legittimità di operare una revisione degli esiti probatori e dunque oltrepassando i limiti della sua giurisdizione.

3.2. Il secondo motivo denuncia violazione e/o falsa applicazione degli articoli 116 c.p.c. e 444 c.p.p. per avere il Tribunale ritenuto che la sentenza penale di patteggiamento valga come prova nel giudizio civile.

Il motivo richiama due linee giurisprudenziali sul valore in sede civile della sentenza penale di applicazione della pena su richiesta – c.d. sentenza di patteggiamento -, adducendo che il Tribunale avrebbe dovuto disattenderne il contenuto anche seguendo l’orientamento che maggiormente la valorizza; in effetti, secondo il ricorrente, la controparte avrebbe omesso l’adempimento del suo onere probatorio e, dovendo il giudice tener conto anche delle risultanze civili, non si era infatti rinvenuta prova del mal funzionamento della caldaia.

Anche questo motivo patisce, seppure in parte, una impostazione fattuale, sfociando nella richiesta di un apprezzamento degli esiti probatori complessivi da parte del giudice di legittimità. Per quel che riguarda, poi, il valore probatorio in sede civile della sentenza penale ex articolo 444 c.p.p. è d’altronde già sufficiente osservare che, nella sua effettiva struttura motivazionale, la sentenza del Tribunale le fa riferimento (pagine 12-13) perché tutti i convenuti avevano addotto che “la sentenza di patteggiamento non avrebbe potuto costituire titolo per l’affermazione della responsabilità degli imputati”, per smentire tale asserto difensivo rimarcando che, pur essendo ben vero che tale sentenza non è ontologicamente di condanna e non ha quindi l’efficacia e in un giudizio civile, poiché comunque presuppone un accertamento negativo della applicabilità dell’articolo 129 c.p.p., “costituisce un elemento di prova per il giudice civile”. Ma poi è sulla base di altri elementi che in concreto si forma la ricostruzione della vicenda da parte del giudice di prime cure (motivazione, pagine 13-15).

Peraltro, la giurisprudenza più recente di questa Suprema Corte (omissis) ormai concorda nel senso che la sentenza di patteggiamento non è priva di incidenza nell’accertamento civile, ciò riflettendosi sulla sua considerazione nell’ambito motivazionale.

Il motivo, pertanto, non merita accoglimento.

3.3. Il terzo motivo denuncia violazione e/o falsa applicazione degli articoli 2043 e 2055 c.c. sul concorso di responsabilità tra le condotte dei convenuti e sulla mancata graduazione della responsabilità solidale dei convenuti. Si ribadisce che mancherebbe la prova della responsabilità della ricorrente, richiamando la c.t.u. e la testimonianza di S.; pertanto il Tribunale avrebbe dovuto escludere il suo concorso. Se poi il concorso sussistesse, avrebbe dovuto essere ritenuta prevalente la responsabilità del condominio e del tecnico, e quindi sarebbe stato violato l’articolo 2055, terzo comma, c.c. per cui in mancanza di prova contraria le singole colpe si presumono uguali.

Anche in questa censura, a ben guardare, nonostante il tentativo di schermarne l’effettiva natura mediante il riferimento a disposizioni normative, la ricorrente mira ad inammissibilmente ottenere dal giudice di legittimità una revisione dell’accertamento di merito operato nella impugnata sentenza, negando infatti la ricorrente di avere concorso nella responsabilità, viste quelle che a suo avviso sono le risultanze probatorie. E il giudice di prime cure, si rileva ad abundantiam, dichiara che la corresponsabilità “viene stimata paritaria”, ma ciò costituisce il risultato di una ricostruzione complessiva, nel cui ambito tale netta frase deve essere contestualizzata.

(omissis)

In conclusione, il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna della ricorrente alla rifusione a ciascuno dei controricorrenti delle spese processuali, liquidate come da dispositivo. 

(omissis)

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a rifondere a ciascun controricorrente le spese processuali, liquidate in un totale di euro 8200, oltre euro 200 per esborsi e agli accessori di legge.

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