Amministrare oggi significa occuparsi non solo di muri, numeri e scadenze, ma di persone, di diritti e di equilibri.
La proprietà non è un fatto privato: è un valore collettivo che attraversa le vite di chi abita lo stesso spazio, che si manifesta nelle relazioni, nelle regole, nel rispetto reciproco.
Eppure, troppo spesso, questo principio sfugge.
Per lungo tempo, la proprietà è stata vista come un potere assoluto.
Il Codice civile del 1942, all’articolo 832, la definisce come “il diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo”.
Una formula che, per l’epoca, rappresentava una conquista, ma che oggi mostra tutti i suoi limiti.
In un mondo dove ogni gesto si riflette sugli altri, non esistono più confini netti.
Ciò che si trascura in un appartamento — un’infiltrazione, una manutenzione rimandata, una decisione evitata — diventa, presto o tardi, un problema comune.
La Costituzione del 1948 ha corretto quella visione con un atto di maturità civile.
L’articolo 42 riconosce la proprietà privata, ma impone che essa sia esercitata nel rispetto della sua funzione sociale.
Poche parole che hanno spostato l’asse del diritto: possedere non significa più disporre senza limiti, ma gestire con responsabilità.
La proprietà, da diritto individuale, diventa un impegno verso la collettività.
Nel condominio questo principio trova la sua prova più concreta.
Ogni abitazione è un diritto esclusivo, ma respira all’interno di un insieme fatto di regole, persone e sensibilità diverse.
La qualità della gestione non si misura solo nei conti in ordine, ma nella serenità che si respira tra i condomini.
Quando le assemblee diventano luoghi di confronto civile e non di scontro, quando le decisioni nascono dal rispetto reciproco, allora si può dire che la proprietà ha trovato il suo equilibrio.
Amministrare significa spesso mediare tra esigenze contrapposte, ma anche educare al rispetto e alla consapevolezza.
Le difficoltà più grandi non vengono dalle norme, ma dall’ignoranza, dalla prevaricazione, dalla mancanza di senso civico.
Eppure è proprio in quei momenti che l’amministratore deve far valere la sua funzione più importante: quella di garante del bene comune.
Un amministratore non difende solo interessi economici, ma la giustizia nelle relazioni, la tutela della proprietà, la dignità delle persone.
Le regole, in questo contesto, non sono un vincolo: sono la struttura che permette di decidere e di proteggere.
Senza regole non c’è convivenza, non c’è sicurezza, non c’è valore.
La buona amministrazione è quella che porta le decisioni a soluzioni equilibrate, che tiene conto del bene collettivo prima dell’interesse individuale.
Avere rispetto del bene comune significa preoccuparsi anche del prossimo, al di là del proprio vantaggio.
Significa capire che tutelare una proprietà non è solo difendere un confine, ma contribuire alla stabilità di un sistema. Una scala pulita, un cortile curato, un’assemblea ordinata sono il segno visibile di una cultura che mette al centro la responsabilità.
Per questo, oggi, la proprietà va letta al di là del proprietario.
Il valore di un bene non si misura solo in ciò che produce, ma anche in ciò che preserva.
Amministrare davvero significa custodire: la giustizia, la sicurezza, la dignità delle persone e dei luoghi in cui vivono.
La proprietà, nella sua forma più matura, non è un diritto da rivendicare, ma un patto di equilibrio: tra ciò che è individuale e ciò che appartiene a tutti, tra la libertà e il dovere, tra la legge e il buon senso.
È lì che la professione dell’amministratore trova il suo significato più alto: nel tenere insieme ciò che le persone, da sole, tenderebbero a dividere.
Ed è lì che si compie il vero valore di ogni possesso: quando diventa cura, responsabilità e rispetto, misura di una società civile e segno concreto di un edificio ben amministrato, abitato con consapevolezza e dignità.
A cura di Sabrina Schemani
Amministratore di condominio – Studio Schemani (Torino – Bardonecchia)