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Superbonus addio, costi pubblici enormi per benefici minimi

  • Redazione
  • 9 gennaio 2025

Gli immobili che dal luglio 2020 hanno beneficiato del Superbonus sono stati poco meno di 500mila. Considerando che in Italia gli edifici residenziali sono circa 12,2 milioni, la misura ha interessato solo il 4 per cento del totale degli immobili ad uso abitativo presenti nel Paese.

A fare i conti è la CGIA di Mestre, che ha espresso una valutazione fortemente critica del Superbonus, ritenendo che gli enormi costi non sono giustificati dai benefici ottenuti. La misura non solo ha fallito nel raggiungere una fetta significativa del patrimonio immobiliare italiano, ma ha anche mancato un’opportunità unica per migliorare il benessere delle famiglie più vulnerabili.

Grazie alle misure restrittive imposte per legge in questi ultimi due anni, l’effetto negativo del Super Ecobonus 110% sui nostri conti pubblici si è quasi esaurito.

In linea generale, secondo l’Ufficio Studi dell’Associazione Artigiani e Piccole Imprese Mestre, con il cosiddetto 110 per cento lo Stato ha speso una cifra spaventosa, migliorando l’efficienza energetica di una quota infinitesima di edifici presenti nel Paese.

Inoltre, stando alle prime indiscrezioni, sembrerebbe aver favorito maggiormente i proprietari di immobili con una buona, quando non addirittura elevata, capacità di reddito, anziché rivolgersi in via prioritaria alle famiglie meno abbienti che, in linea di massima, presentano una probabilità maggiore di risiedere in abitazioni in cattivo stato di conservazione e con un livello di efficienza energetica molto basso.

Non tutti, inoltre, concordano nel ritenere che il Super Ecobonus 110% contribuirà in misura importante ad abbattere le emissioni di inquinanti. Ancorché non ci siano valutazioni scientifiche rigorose sotto il profilo ambientale, l’abbattimento di Co2 sarebbe molto contenuto.

Secondo la Banca d’Italia, le prime evidenze dimostrerebbero che nello scenario migliore i benefici ambientali del Superbonus compenserebbero i costi finanziari sostenuti in quasi 40 anni. Non solo. Alcuni esperti internazionali sostengono che la riduzione delle emissioni ottenuta con l’applicazione del Superbonus poteva essere maggiore se si fosse incentivata l’elettrificazione dei sistemi di riscaldamento degli ambienti, la cottura di cibi e la produzione di acqua sanitaria. Insomma, in alternativa al gas-metano, sarebbe consigliabile utilizzare vettori elettrici (come le pompe di calore e le piastre a induzione), che sono significativamente più efficienti delle tecnologie che impiegano fonti fossili.

Chi ha voluto questo provvedimento continua comunque a difenderlo, sostenendo che non si debba guardare solo alla spesa di cui lo Stato si è fatto carico fino ad ora, ma anche agli effetti economici positivi che esso ha generato.
Vale a dire più gettito (Irpef, Ires, Iva, etc.), più occupazione, più Pil, più risparmio energetico e meno emissioni di inquinanti. È un’obiezione legittima che, tuttavia, è facilmente confutabile dalla tesi che se invece di ricorrere al Superbonus per incentivare quasi esclusivamente gli interventi di edilizia privata ci fossimo avvalsi di questa misura per demolire e ricostruire solo gli edifici residenziali pubblici, le conseguenze appena richiamate dai “sostenitori” del 110 per cento sarebbero state praticamente le stesse. Con 123 miliardi di euro avremmo teoricamente potuto costruire 1,2 milioni di alloggi pubblici, 400mila in più di quanti sono presenti nel Paese. Con una differenza sostanziale: nel secondo caso avremmo compiuto un’azione di giustizia sociale che la misura attualmente in vigore ha paurosamente disatteso.

Al 31 agosto scorso, gli interventi di ristrutturazione ed efficientamento edilizio realizzati per mezzo del Superbonus sfiorano le 500mila unità (precisamente 496.315). Nonostante gli oneri a carico dello Stato siano pari a 123 miliardi di euro, solo il 4,1 per cento del totale degli edifici residenziali presenti nel Paese è stato interessato dall’agevolazione fiscale.

A livello regionale, è il Veneto ad aver registrato il ricorso più numeroso al 110 per cento. Con 59.652 asseverazioni depositate, l’incidenza percentuale di queste ultime sul numero degli edifici residenziali esistenti è stata pari al 5,6 per cento. Seguono l’Emilia-Romagna con 44.438 asseverazioni e un’incidenza del 5,4 per cento, il Trentino-Alto Adige con 11.342 interventi e sempre con un tasso del 5,4 per cento, la Lombardia con 78.125 asseverazioni e un’incidenza del 5,2 e il Lazio con 38.532 operazioni e anch’essa con una incidenza del 5,2 per cento. In Piemonte sono state registrate 36.042 asseverazioni, pari a un’incidenza del 3,8 per cento. Per contro, a “snobbare” l’incentivo sono state le regioni del Mezzogiorno: Molise e Puglia, ad esempio, hanno interessato solo il 2,9 per cento dei propri edifici residenziali, la Calabria il 2,6 per cento e la Sicilia solo il 2,2 per cento.

Ogni intervento è costato mediamente 247.800 euro. Sempre a livello nazionale, l’onere medio per edificio residenziale a carico dello Stato è stato di 247.819 euro. Il picco massimo lo ha raggiunto la Valle d’Aosta con 401.040 euro per immobile. Seguono la Basilicata con 299.963 euro, la Liguria con 298.314 euro, la Lombardia con 296.107 euro e la Campania con 294.679 euro. Il Piemonte si trova a metà classifica con 252.342 euro. Chiudono la graduatoria il Veneto con un costo medio per intervento di 194.913 euro per edificio, la Sardegna con 187.440 e, infine, la Toscana con 182.919 euro.

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