Con l’approvazione della Legge di Bilancio 2024 sono state introdotte importanti novità anche nell’ambito delle locazioni a breve termine.
In Italia sono molti i proprietari che gestiscono immobili affittati a breve termine e date le novità apportate dalla Legge di Bilancio 2024, l’Agenzia delle Entrate ha fornito chiarimenti già con la Circolare n. 10/E del 10 maggio, ma è tornata sulla questione pubblicando una versione aggiornata della guida “Locazioni brevi: la disciplina fiscale e le regole per gli intermediari” in cui vengono approfonditi e chiariti i vari aspetti inerenti alla materia.
Innanzitutto è bene ricordare che rientrano nell’ambito delle locazioni brevi tutte le locazioni di immobili a uso abitativo di durata non superiore a 30 giorni. Tale durata viene determinata non solo attraverso la somma dei giorni consecutivi di godimento del bene da parte del conduttore, ma anche attraverso il computo di tutti i singoli rapporti di locazione, pur temporalmente distanziati, intercorsi tra le medesime parti lungo l’anno solare considerato.
È possibile affittare a breve termine gli immobili appartenenti alle categorie catastali da A1 a A11 (esclusa la categoria A10) e le relative pertinenze, come ad esempio box, cantine, garage etc.
Per quanto concerne la parte contrattuale, è importante evidenziare che per i contratti di locazione di durata non superiore ai 30 giorni non vi è l’obbligo di registrazione e il contratto potrà essere stipulato direttamente oppure tramite intermediari immobiliari o intermediari che gestiscono specifici portali dedicati al turismo.
A tal proposito, con riferimento ai contratti di locazione tramite intermediari, vi è un obbligo di comunicazione dei dati relativi ai contratti conclusi entro il 30 giugno dell’anno successivo a quello a cui fanno riferimento i dati delle locazioni concluse.
Tra le novità introdotte con la Legge di Bilancio 2024, la prima riguarda la cedolare secca. Difatti, dal 1° gennaio 2024, la cedolare secca sugli affitti brevi vede un’aliquota pari al 26%, a partire dal secondo immobile. Questa aliquota è ridotta al 21% per i redditi riferiti ai contratti di locazione breve stipulati per una sola unità immobiliare.
A tal proposito, l’Agenzia spiega che: “Con l’entrata in vigore della legge di bilancio 2024 (legge n. 213/2023), dal 1° gennaio 2024, in caso di opzione per l’imposta sostitutiva nella forma della cedolare secca, si applica l’aliquota del 26%. Questa aliquota è ridotta al 21% per i redditi riferiti ai contratti di locazione breve stipulati per una sola unità immobiliare per ciascun periodo d’imposta, a scelta del contribuente.
L’individuazione di tale unità immobiliare deve avvenire nella dichiarazione dei redditi relativa al periodo d’imposta interessato”.
Un’altra novità riguarda l’ambito inerente agli intermediari immobiliari. Sostanzialmente, al fine di evitare ulteriori adempimenti a carico degli intermediari che gestiscono la locazione, incassano o intervengono nel pagamento dei canoni relativi ai contratti di locazione breve, la Legge di Bilancio 2024 ha previsto che la ritenuta da applicare sia mantenuta al 21% e operata sempre a titolo di acconto, indipendentemente dal regime fiscale del proprietario.
Il contribuente, quindi, è tenuto a dover determinare l’imposta effettivamente dovuta e a versare l’eventuale saldo entro i termini ordinari di pagamento delle imposte sui redditi. Nello specifico, per quanto concerne gli intermediari non residenti in Italia, le regole da seguire sono:
• i soggetti non residenti (residenti Ue ed extra Ue), che hanno una stabile organizzazione in Italia, devono adempiere agli stessi obblighi di quelli residenti, attraverso tale stabile organizzazione;
• i soggetti residenti in uno Stato membro dell’Unione europea, riconosciuti privi di una stabile organizzazione in Italia, possono adempiere direttamente agli obblighi o nominare, quale responsabile d’imposta, un rappresentante fiscale in Italia;
• i soggetti residenti al di fuori dell’Unione europea, con una stabile organizzazione in uno Stato membro dell’Unione, assolvono agli adempimenti previsti tramite detta stabile organizzazione; in mancanza del riconoscimento di una stabile organizzazione nell’Unione europea, tali soggetti, in qualità di responsabili d’imposta, assolvono agli adempimenti nominando un rappresentante fiscale (individuandolo tra i soggetti indicati nell’articolo 23 del Dpr n. 600/1973).
Per i soggetti residenti al di fuori dell’Unione europea, riconosciuti privi di una stabile organizzazione nell’Unione europea, qualora non ottemperino alla nomina del rappresentante fiscale, opera la disposizione che prevede una responsabilità solidale dei soggetti residenti nel territorio dello Stato che appartengono al loro stesso gruppo (disposizione contenuta nel terzo periodo del comma 5-bis dell’articolo 4 del decreto legge n. 50/2017).
Infine, dal 3 giugno 2024 è possibile richiedere, attraverso il portale BDSR (Banca Dati Strutture Recettive) il CIN per la pubblicazione di annunci di strutture recettive destinate a locazioni brevi o turistiche.
Si tratta di un codice alfanumerico che identifica in modo univoco ogni immobile e ogni struttura recettiva destinato a locazione breve, così da garantire trasparenza e regolamentazione del settore. A questa fase sperimentale hanno preso parte le regioni Abruzzo, Calabria, Liguria, Lombardia, Marche, Molise, Puglia, Sardegna, Sicilia e Veneto.
Dato che le disposizioni inerenti alla piattaforma BDSR e l’obbligo di adeguarsi al CIN saranno applicabili a partire dal 60° giorno successivo alla pubblicazione in Gazzetta ufficiale dell’avviso di entrata in funzione della BDSR a livello nazionale, prevista entro il 1° settembre 2024, in questa prima fase sperimentale non si incorrerà in sanzioni.
A cura di Deborah Maria Foti – Ufficio Stampa ANAPI
Pensate che il condominio sia un’invenzione recente? Pensate che questo modo di costruire, sfruttando al massimo l’altezza soprattutto in città sia prerogativa del ventesimo secolo? Ritenete che soltanto in epoca contemporanea siano state sviluppate le competenze tecniche per edificare stabili estesi in verticale?
Ebbene, nulla è più falso. Già gli antichi romani edificavano fabbricati di svariati piani, fino a costringere l’imperatore Augusto a proibire di costruire palazzi più alti di 70 piedi (circa 21 metri), abbassati da Traiano a 60 piedi (circa 18 metri), in cui erano presenti innumerevoli abitazioni, poiché spesso molto piccole e formate da poche stanze, come dimostrano le testimonianze scritte e i reperti archeologici, soprattutto quelli rinvenuti ad Ostia, tuttora visitabili.
Molti autori citano infatti episodi che indirettamente ci descrivono i condomini romani. Cicerone per esempio descrive la sua città come sospesa nel cielo, Giovenale stigmatizza le costruzioni in altezza non supportate da adeguate fondamenta. Tertulliano invece, parlando dell’insula Felicles, un palazzo celeberrimo per la sua altezza, irride i romani per la loro volontà di arrivare al cielo con le loro costruzioni.
Il motivo per cui gli antichi romani hanno sentito il bisogno di sviluppare edifici in altezza è che Roma, delimitata da una parte dal mare e dall’altra dagli Appennini, era circoscritta sui sette colli e quindi aveva poca estensione territoriale. Il bisogno di abitazioni fece inoltre aumentare la richiesta di appartamenti in città da parte della moltitudine di persone trasferitesi nell’Urbe, per la maggior parte in cerca di fortuna. Moltissimi erano schiavi, ma molti erano anche esponenti di ceti nobili delle province, che si spostavano a Roma per essere vicino al centro del potere, per stringere alleanze, o semplicemente per poter usufruire di precettori preparati.
Lo stesso Vitruvio ci racconta che l’Urbe difficilmente avrebbe potuto contenere tutti coloro che dalle province remote dell’Impero si riversavano in città, se le domus fossero state costruite secondo lo stile tradizionale.
Questo fece sì che gli architetti aguzzassero l’ingegno in merito al miglior modo di costruire in altezza.
Si stima che la Roma imperiale giunse ad avere 1.200.000 residenti, praticamente una vera e propria metropoli, se si pensa che Milano ad oggi ne ha 1.300.000, Dublino arriva ad appena 530.000 abitanti, Amsterdam ne ha 826.000.
La varietà di estrazione sociale di coloro che giungevano nella caput mundi fece sì che si sviluppassero nello stesso palazzo tipologie di appartamenti molto dissimili tra loro, un po’ come ai giorni nostri. In genere al primo piano o al pianterreno, se questo non era destinato a taverne o negozi, vivevano le famiglie agiate. L’affitto di locali così ampi era infatti appannaggio dei ceti medio-alti, poiché solo loro avevano a disposizione fondi sufficienti per poter pagare i costosissimi affitti.
Salendo su per il palazzo troviamo sempre più gente umile. Il minor costo dell’affitto ai piani superiori, oltre all’evidente scomodità delle scale, era dovuto all’impossibilità di ripararsi adeguatamente dalla pioggia e dal freddo, visto che i materiali edili usati erano sempre più leggeri man mano che si saliva. Inoltre in caso di crolli o incendi era assai più difficile scampare alla morte. La frana o la propagazione di fiamme libere erano infatti tutt’altro che rare, poiché le strutture erano costruite con materiale a basso costo, come legno e mattoni, e il bisogno primario di scaldarsi, sovente con focolari di fortuna, rendeva più che probabili i roghi.
Ricordate la leggenda che narra di un Nerone piromane, che appicca fuoco all’intera Roma per poter avere a disposizione lo spazio sufficiente per costruire la propria superba dimora? Naturalmente la storia non è così, poiché gli incendi nella Roma imperiale erano frequenti e frutto di incidenti, tanto che fu necessario creare il corpo dei pompieri, istituzionalizzati dall’imperatore Ottaviano Augusto. Come sappiamo, ogni leggenda nasconde un fondo di verità e, nello specifico, l’incendio di Roma da parte di Nerone dimostra come fosse usuale il divampare delle fiamme nell’Urbe.
Il condominio di Roma antica: l’Insula
Il condominio romano, nel periodo del regno ed in seguito della repubblica, era chiamato insula perché in origine gli edifici erano staccati gli uni dagli altri e si ergevano all’orizzonte come vere e proprie isole, circondate dalla fiumana delle strade romane, sempre piene di persone.
Con la crescita dell’Impero e l’aumento consequenziale di persone che volevano trasferirsi nella caput mundi, venne meno la caratteristica di costruire edifici circondati ai quattro lati da strade ma, anzi, si iniziarono a costruire palazzi sempre più interconnessi. Tanto che per arginare il fenomeno dei crolli degli stabili, proprio Nerone dovette approvare una legge con la quale si stabiliva che ogni condominio dovesse avere propri muri perimetrali e non potesse condividere la stessa struttura con altri edifici.
La poca stabilità dei condomini nell’antica Roma è facilmente imputabile ai palazzinari dell’epoca, che votati al maggior guadagno possibile, costruivano edifici a basso costo per aumentare il loro profitto. Si narra che proprio Crasso, uno degli esponenti del primo triunvirato, insieme a Cesare e Pompeo, avesse fatto fortuna comprando, subito dopo il crollo, intere aree dove fino a poco tempo prima sorgevano alti condomini, offrendo pochi sesterzi agli sfortunati proprietari.
Sembra proprio che dalla Roma antica poco sia cambiato. Le esigenze abitative ed i comportamenti umani paiono simili, oggi come allora.
Le insulae (da dove viene il termine italiano “isolato”) rappresentavano l’abitazione tipica del popolo di Roma a partire dal IV sec. a.C., a fianco delle domus (l’abitazione del ceto più abbiente).
Si potrebbero paragonare, come già detto, ai nostri condomìni, in quanto più famiglie vi risiedevano e poiché erano sviluppate in altezza, fino a sei piani. I differenti piani denotavano la divisione sociale: la famiglia più benestante occupava il piano più basso e, man mano che si saliva in altezza, si apparteneva ad una classe meno agiata. Questo per più motivi: essendo costruite con materiali spesso scadenti, i crolli erano all’ordine del giorno, e ai piani più alti non arrivavano né la fognatura né l’acqua.
Naturalmente gli imprenditori edili cercavano di elevare in altezza questi stabili, per poter vendere di più e trarre un profitto maggiore. Augusto, come già detto, fu quindi costretto a porre il limite in altezza a 60 piedi, ovvero 20 metri. Limite non sempre rispettato: nel II sec. d.C. famosa è l’insula Felicles (citata anche dall’apologeta Tertulliano), di cui abbiamo già parlato, che era un vero e proprio grattacielo, che attirava l’attenzione di tutti, per la sua maestosità, a fianco del Pantheon e della Colonna Aurelia.
Spesso sovraffollate, in quanto il proprietario di un appartamento subaffittava singole stanze a più famiglie, un’insula poteva arrivare ad ospitare anche 200 persone!
Tutti i rifiuti venivano gettati di notte dalle finestre oppure messi in apposite cisterne, svuotate periodicamente dagli scoparii, gli spazzini di allora.
Si conta che a Roma, nel II sec. d.C., ci fossero circa 46.000 insulae contro 1.800 domus.
Insulae ravvicinate e fatiscenti, affollamento, sporcizia, crolli, rumori, malattie, risse, incendi: tanti erano i problemi in un’insula.
Di seguito, due testi, uno di Giovenale e uno di Marziale, possono chiarire bene le condizioni di vita in un’insula.
“Nos urbem colimus tenui tibicine fultam magna parte sui; nam sic labentibus obstat vilicus et, veteris rimae cum texit hiatum, securos pendente iubet dormire ruina. […] tabulata tibi iam tertia fumant: tu nescis; nam si gradibus trepidatur ab imis, ultimus ardebit quem tegula sola tuetur a pluvia, molles ubi reddunt ova columbae”.
“Ma noi viviamo a Roma, una città che in gran parte si regge su puntelli fatiscenti; così infatti l’amministratore rimedia ai guasti e, tappata la fenditura di una vecchia crepa, invita tutti a dormire tranquilli sotto la minaccia di un crollo. […] Sotto di te il terzo piano è in fiamme e tu l’ignori; se giù in basso il terrore dilaga, chi non ha che le tegole per ripararsi dalla pioggia, lassù dove le languide colombe depongono le uova, brucerà se pure per ultimo”.
(GIOVENALE, III, 190 sgg.)
“Vicinus meus est manuque tangi De nostris Novius potest fenestris. Quis non invideat mihi putetque Horis omnibus esse me beatum, Iuncto cui liceat frui sodale?”.
“Novio è il mio vicino e dalle mie finestre, con la mano si può toccare. Chi non mi invidia e non ritiene ch’io sia beato ad ogni istante, potendo godere d’un tanto intimo compagno?”.
(MARZIALE, I, 86)
Ma veniamo, a questo punto, ad occuparci della storia giuridica
Il diritto romano conosceva una proprietà privata ereditata dal genitore e rimasta indivisa tra i fratelli (consortium). In età classica, invece, si svilupparono i concetti di proprietà comune e di divisione pro quota con ripartizione proporzionale dei diritti e degli obblighi con forme di tutela analoghe al diritto moderno (rei vindicatio partiaria).
Nel diritto romano, come detto, il consortium è stato il primo tipo di comproprietà che si costituiva automaticamente alla morte del pater familias tra i più heredes sui, per il fatto stesso che il patrimonio ereditario restasse in comune tra di essi (consortium ercto non cito). Ogni consorte poteva infatti da solo non soltanto compiere atti di godimento e di gestione di cose comuni ma poteva anche disporne per l’intero. Ovviamente a ciascuno era fatta la possibilità di interporre veto. A porre fine a questo stato di indivisione interveniva l’actio familiae erciscundae.
“Libertas omnibus rebus favorabilior est”, “La libertà è fra tutte le cose la più degna di favore”, (Gaio, 120-180 d.C).
Antichissimo istituto del diritto quiritario, di cui conosciamo le caratteristiche grazie al giurista Gaio (120-180 d.C circa), il consortium rappresentava la più antica forma di contitolarità di situazioni giuridiche soggettive.
L’espressione indicava, infatti, come detto, la situazione di comproprietà in cui venivano a trovarsi più fratelli alla morte del comune pater familias; il patrimonio familiare ereditato non veniva diviso, ma gestito in comune da filii, “attuando una sorta di società universale” (consortium fràtrum suòrum).
In tal caso il diritto di ciascuno dei consòrtes non si considerava come rispondente ad una frazione ideale dei beni paterni, bensì come una contitolarità solidale sul patrimonio; tutti erano proprietari del tutto.
Il consortium, attraverso una speciale legis actio, poteva essere anche posto in essere convenzionalmente tra coloro che avessero voluto porre in comune un complesso patrimoniale: in tal caso si parlava di consortium ad exemplum fratrum suorum.
Decaduto in età repubblicana, il consortium fu sostituito da un nuovo istituto, detto comunione o condominio.
In età successiva, precisamente in età classica, pertanto, si parlò di communio che poteva essere volontaria (in vista ad esempio di un contratto consensuale di società che tra più persone si costituiva, esse compravano in comune certi beni oppure ne mettevano in comune altri già in proprietà esclusiva dell’uno o dell’altro dei soci).
Più spesso poteva essere incidentale, determinandosi essa indipendentemente dalla volontà dei contitolari: nei casi di legato per vindicationem in favore di più legatari.
In questa communio, sorta, come detto, in età classica, ciascuno non era più titolare dell’intero, ma soltanto di una quota ideale che poteva alienare, sulla quale poteva costituire usufrutto e pegno, partecipare alle spese nella misura corrispondente alla propria quota e nella stessa misura faceva suoi i frutti.
Pro quota rispondeva dei danni che la cosa comune avesse recato a terzi.
Se si volevano apportare modifiche spettava a ciascuno dei contitolari lo ius prohibendi.
Se un socius abbandonava la sua quota questa veniva acquistata da altri, da ciascuno in proporzione della quota spettantegli.
La manomissione dello schiavo in comproprietà comportava che il servo avrebbe conseguito la libertà solamente quando ognuno avesse compiuto l’atto di affrancazione. Il comproprietario esercitava pro parte la rei vindicatio.
Allo scioglimento della comunione di proprietà era possibile giungere tramite l’actio communi dividundo, nella quale i ruoli delle parti non erano differenziati.
Con una formula con adiudicatio, il giudice aggiudicava costitutivamente a talune parti o a tutte quante la proprietà esclusiva di cose comuni o di proporzioni di determinate cose comuni.
Quando le cose erano indivisibili (nel caso di servitù, ad esempio) era necessario stabilire conguagli in denaro.
Communio, pertanto, era un termine indicante, in età classica, la contitolarità di diritti reali di godimento.
Tale istituto, che, come detto, affondava le sue origini nell’antico consòrtium èrcto non cìto, se ne differenziava per la rilevanza del concetto di quota, elaborato dai giuristi dell’età repubblicana: essa era intesa come frazione ideale del tutto, su cui gravava, nella proporzione fissata, il diritto di ciascuno dei condomini.
Tale concetto di quota rilevava, oltre che in sede di divisione, anche per la distribuzione dei frutti, per il riparto delle spese e per il pagamento degli eventuali danni, nonché per gli atti di disposizione: ciascuno dei condomini poteva trasmettere la propria quota di proprietà.
Il singolo condomino poteva agire in giudizio per difendere la sua quota dagli attacchi dei terzi, con una rei vindicatio partiaria che aveva ad oggetto unicamente la quota del tutto appartenente al condomino che agiva.
Viceversa, per agli atti di disposizione della cosa nella sua totalità occorreva la volontà di tutti i condomini.
Ciascun condomino poteva apportare le innovazioni sulla cosa comune, salva l’opposizione degli altri, attraverso l’esercizio dello ius prohibendi.
Con lo ius prohibendi questi ponevano il veto all’innovazione, per ottenere o l’interruzione dell’opera o la distruzione di quanto già fatto.
Solo in diritto giustinianeo si affermò esplicitamente la regola del consenso preventivo, con la conseguente scomparsa dello ius prohibendi.
Residuo dell’antico consortium ercto non cito fu l’istituto dello ius adcrescendi in base al quale in caso di rinuncia o di derelictio di uno dei condomini, la sua quota non diveniva res nullius ma accresceva di diritto le quote degli altri comunisti.
Quanto ai rapporti interni tra i condomini, il diritto classico accordava le seguenti azioni al consorte che avesse avuto pretese nei confronti degli altri:
• l’actio pro socio;
• l’actio negotiorum gestorum;
• l’actio communi dividundo.
Ciascuno dei condomini poteva chiedere in qualsiasi momento la divisione della cosa comune; questa poteva aver luogo o d’accordo tra le parti (c.d. divisione volontaria) oppure giudizialmente, con la suddetta actio communi dividundo.
In diritto giustinianeo, la disciplina delineatasi in età classica subì alcune modifiche:
• il principio di prevalenza della maggioranza sulla minoranza, in origine ignorato, fu affermato da alcune costituzioni imperiali in relazione ad ipotesi di grave conflitto tra i condomini;
• in attuazione del principio del favor libertatis, si stabilì che la manomissione operata da un solo condomino fosse valida, salvo l’obbligo di risarcire gli altri condomini per il danno derivante dalla perdita del loro diritto sullo schiavo.
La comunione e il condominio nel Medioevo e nell’Era Moderna
Ancor di più nel medioevo e, soprattutto, nell’era moderna, ad opera di illustri giuristi, gli istituti giuridici della comunione e del condominio ebbero un enorme sviluppo, anche in virtù dell’aumento della popolazione e, quindi, del crescente fenomeno dell’urbanizzazione e dell’aumento di fabbricati che rendevano necessaria, pertanto, una più approfondita delineazione, perché le città iniziavano ad avere un aspetto sempre più simile a quello delle città di oggi e, di conseguenza, l’esigenza di una più approfondita disciplina normativa diveniva sempre più evidente.
Ma, tralasciamo questo periodo, per giungere all’era recente.
Lo sviluppo del condominio in Italia e in Europa nell’era recente
In epoca più recente (1800-1900), mentre in alcuni Paesi era quasi sconosciuto e finanche espressamente vietato dalla legge, in altri, come per esempio in Francia, rimaneva limitato a poche città di provincia.
In Italia, il condominio appariva in alcune grandi realtà urbane (ad esempio, Napoli), agevolato soprattutto dalla esigua disponibilità delle aree edificatorie e dal loro elevato costo. Tutto ciò, determinava la pratica delle costruzioni intensive e frazionabili tra diversi acquirenti.
Con l’incremento urbanistico del 1800, a seguito della rivoluzione industriale e del declino dell’economia agraria, abbiamo assistito alla costruzione di grandi edifici, suddivisi in appartamenti.
Con il passare del tempo, lo sviluppo del condominio andò affermandosi in quasi tutti i centri urbani, come conseguenza delle mutate condizioni del mercato edilizio; anche il legislatore cominciò, con una serie di leggi sulle case popolari, a incentivare, tra le classi meno abbienti, la costituzione di questa forma particolare di proprietà.
L’incremento più possente, al condominio, fu dato infine dalla crisi economica ed edilizia verificatasi durante la guerra e nel dopoguerra.
Il condominio nel Codice civile del 1865
Per ciò che concerne, invece, la normativa, il Codice civile del 1865, primo Codice civile del Regno d’Italia, conteneva una disciplina parziale del condominio, e contemplava alcuni articoli (nello specifico, soltanto due) che regolamentavano i diritti sulle parti strutturali di un caseggiato.
In questo primo Codice civile dell’Italia unificata mancavano, del tutto, articoli inerenti l’amministrazione, e soprattutto mancava qualsivoglia riferimento agli organi deliberanti, cioè l’assemblea condominiale.
La prima normativa effettiva sul condominio risale al 1934, dove la parte riguardante i diritti dei singoli è particolarmente curata.
Il condominio nel Codice civile attuale
Il Codice civile in uso, approvato nel 1942, non definisce il condominio, ma ne parla come un insieme di “beni, opere, installazioni, manufatti di qualunque genere che sono oggetto di proprietà comune” con la precisazione “se il contrario non risulta dal titolo”.
Con il Codice civile vigente, vengono, dunque, nitidamente distinti, sia concettualmente sia giuridicamente, i beni comuni dai beni appartenenti esclusivamente ai singoli proprietari.
Esso, sappiamo, non è altro che una disciplina di applicazione delle norme della comunione (artt.1100-1116 del Codice civile) ai fabbricati contenuta nei successivi artt.1117-1139 del Codice civile.
Tale disciplina normativa, oggi come oggi, risulta indubbiamente scarna, incompleta, anche e soprattutto se si pensa, in oramai ottant’anni, che sviluppo hanno avuto i fabbricati condominiali nella realtà dell’Italia.
Che cosa ci si auspica, quindi? Se non proprio una codificazione, quanto meno una redazione di un testo unico di un diritto che, per la sua enorme complessità e vastità (abbraccia il diritto civile, penale ed amministrativo, oltre ad essere interessato da un’abbondantissima produzione giurisprudenziale), possa così, finalmente, conquistare una sua dignità, considerato che oggi, forse, esso è ancora considerato un diritto “bagattellare”, il che è, indubbiamente, una sua concezione errata, falsa e fuorviante.
Ma, volendo concludere, con palmare evidenza, ciò che ci si auspica ancor maggiormente è una definitiva armonizzazione della disciplina normativa dell’esercizio dell’attività dell’amministratore condominiale che, indubbiamente, gioca un ruolo fondamentale nel miglior funzionamento della vita condominiale, proprio in una nazione come la nostra che vanta il maggior numero, in Europa, di fabbricati condominiali.
A cura di: Avv. Luigi Grillo – Presidente del Centro Studi Nazionale A. I. C., Accademia Immobiliare Condominiale
La Legge di Bilancio 2024 ha modificato il regime delle locazioni brevi, con alcune novità sia sul fronte delle regole di tassazione sia in relazione agli adempimenti per gli intermediari e le piattaforme online.
La circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 10/E del 10 maggio 2024 analizza le novità introdotte, fornendo chiarimenti e istruzioni con un focus specifico anche in relazione alla nuova cedolare secca.
L’aliquota dell’imposta sostitutiva applicata ai redditi derivanti dagli affitti brevi è, a partire dal 1° gennaio 2024, pari al 26 per cento, e non più al 21 per cento, ferme restando le regole di maggior favore per chi concede in locazione per periodi inferiori a 30 giorni una sola unità immobiliare.
Per gli intermediari la ritenuta applicata ai compensi rimane invece pari al 21 per cento, e sarà quindi il contribuente a dover determinare l’imposta effettivamente dovuta, da versare entro i termini di pagamento delle imposte sui redditi.
Le regole operative arriveranno il prossimo anno, con la pubblicazione delle istruzioni relative al modello 730 e Redditi 2025.
Le modifiche
L’articolo 1, comma 63, della Legge di Bilancio 2024 modifica, dunque, il regime fiscale delle locazioni brevi disciplinato dall’articolo 4 del Dl n. 50/2017.
Sull’argomento, l’Agenzia delle Entrate ha già fornito indicazioni con la circolare n. 24/2017, che restano valide per quanto compatibili con le modifiche normative in commento.
Si ricorda che l’articolo 4 richiamato qualifica come locazioni brevi “i contratti di locazione d’immobili a uso abitativo di durata non superiore a 30 giorni, ivi inclusi quelli che prevedono la prestazione dei servizi di fornitura di biancheria e di pulizia dei locali, stipulati da persone fisiche al di fuori dell’esercizio di attività d’impresa, direttamente o tramite soggetti che esercitano attività d’intermediazione immobiliare, ovvero soggetti che gestiscono portali telematici, mettendo in contatto persone in cerca di un immobile con persone che dispongono di unità immobiliari da locare”.
Resta fermo quanto previsto dall’articolo 1, comma 595, della legge n. 178/2020 secondo cui il trattamento tributario in commento è riconosciuto solo in caso di destinazione alla locazione breve di non più di quattro appartamenti per ciascun periodo d’imposta. Pertanto, in caso di superamento di tale limite, l’attività si presume svolta in forma imprenditoriale ai sensi dell’articolo 2082 del Codice civile, condizione che preclude l’applicazione del regime fiscale delle locazioni brevi.
Aliquota del 21% nel regime di cedolare secca
Con riferimento alle innovazioni apportate dalla Legge di Bilancio 2024, una prima modifica riguarda l’aliquota dell’imposta sostitutiva nella forma della cedolare secca applicabile ai redditi derivanti dai contratti di locazione breve.
L’aliquota è ora stabilita nella misura ordinaria del 26 per cento in luogo del 21 per cento. Contestualmente è riconosciuta al locatore la facoltà di usufruire dell’aliquota ridotta del 21 per cento relativamente ai redditi riferiti ai contratti di locazione breve stipulati per una sola unità immobiliare per ciascun periodo d’imposta, a scelta del contribuente. Tale unità immobiliare dovrà essere individuata nella dichiarazione dei redditi relativa al periodo d’imposta d’interesse.
Con la circolare n. 10 del 10 maggio 2024, l’Agenzia precisa che la nuova disposizione trova applicazione a decorrere dalla data di entrata in vigore della Legge di Bilancio 2024 e, quindi, dal 1° gennaio 2024.
In definitiva, per l’applicazione dell’imposta sostitutiva nella misura del 26 per cento, rilevano i redditi derivanti dai contratti di locazione breve maturati pro-rata temporis (ossia in proporzione al tempo) in base all’articolo 26 del Tuir (rubricato “Imputazione dei redditi fondiari”), a partire dal 1° gennaio 2024, indipendentemente dalla data di stipula dei contratti e dalla percezione dei canoni, fatta salva, ovviamente, la facoltà di usufruire dell’aliquota ridotta del 21 per cento per i redditi derivanti dai contratti di locazione breve relativi a una unità immobiliare specificamente individuata dal contribuente in sede di dichiarazione dei redditi.
Portali, intermediari e Airbnb
Le modifiche introdotte non riguardano solo i locatori, ma anche gli intermediari e i portali telematici che gestiscono gli affitti brevi. Questi ultimi, in qualità di sostituti d’imposta, dovranno applicare una ritenuta d’acconto del 21 per cento sui redditi percepiti, indipendentemente dal regime fiscale del beneficiario.
Tale ritenuta si intende operata da questi soggetti sempre a titolo d’acconto. In precedenza, la ritenuta si intendeva operata a titolo di acconto solo nel caso in cui non fosse stata esercitata l’opzione per l’imposta sostitutiva nella forma della cedolare secca.
La circolare precisa, inoltre, che qualora i soggetti che esercitano attività d’intermediazione immobiliare, ovvero che gestiscono portali telematici, incassino o intervengano nel pagamento dei canoni, il contribuente è tenuto, per ciascun periodo d’imposta, a determinare l’imposta – ordinaria o sostitutiva – dovuta, e a versare l’eventuale saldo dell’imposta, ottenuto previo scomputo delle ritenute d’acconto subite, entro il termine per il versamento a saldo delle imposte sui redditi.
I dati dell’imposta dovuta, delle ritenute subite e dell’imposta a saldo sono indicati nella dichiarazione dei redditi.
Le regole per gli intermediari non residenti
Un aspetto particolare delle nuove disposizioni è dedicato agli intermediari non residenti, segnatamente in risposta alla sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea del 22 dicembre 2022, relativa al caso Airbnb. Gli intermediari che, pur non essendo residenti, dispongono di una stabile organizzazione in Italia e incassano canoni o corrispettivi legati agli affitti brevi, sono tenuti a rispettare gli obblighi di ritenuta e di trasmissione dei dati imposti dalla legislazione italiana.
Nel caso in cui un’Azienda (o comunque un committente privato) affidi a un esecutore esterno una lavorazione da eseguire presso la propria sede, come ad esempio un’attività di manutenzione, si parla di Contratti d’Appalto (quando l’esecutore è una Società) o di Contratti d’Opera (quando l’esecutore è un Lavoratore Autonomo) e i soggetti implicati nell’operazione sono il Committente (colui che affida la lavorazione e che paga per l’opera) e l’Appaltatore o Esecutore (chi esegue la lavorazione).
In questo contesto dobbiamo necessariamente considerare i rischi da interferenza, ossia quelli derivanti dalla presenza di più imprese che svolgono la loro attività nello stesso luogo di lavoro. Abbiamo infatti due tipi di rischio da considerare:
• 1 – I rischi presenti nei luoghi di lavoro del Committente a cui saranno esposti i lavoratori dell’Appaltatore/Esecutore;
• 2 – I rischi introdotti dalle lavorazioni dell’Appaltatore a cui saranno esposti i lavoratori del Committente.
Il D.Lgs. 81/2008 (testo unico sulla sicurezza) definisce gli “Obblighi connessi ai contratti d’appalto o d’opera o di somministrazione” nell’Articolo 26 prescrivendo la redazione di uno specifico documento, il DUVRI (Documento Unico di Valutazione dei Rischi Interferenziali) che analizzi e descriva la corretta gestione della sicurezza durante le attività in appalto.
Il Duvri
Il DUVRI è un documento che racchiude le misure da adottare per evitare o ridurre al minimo i rischi da interferenza da redigere a carico del Datore di Lavoro committente. Con questo documento il datore di lavoro committente, in collaborazione con il Datore di lavoro dell’Appaltatore, valuta i rischi specifici esistenti nell’ambiente lavorativo e indica le misure adottate per eliminare o ridurre al minimo i rischi da interferenze fra le attività affidate ad appaltatori e lavoratori autonomi (ed eventuali subappaltatori) e le attività svolte nello stesso luogo di lavoro dal committente.
Come per tutti i documenti di valutazione del rischio, anche il DUVRI deve essere aderente alla specifica realtà aziendale e al contesto operativo nei quali vengono rese operative sia la valutazione sia la gestione delle interferenze.
Il DUVRI, come descritto al Comma 3 dell’Art. 26 del Testo Unico, serve a:
• promuovere la cooperazione dei Datori di Lavoro nell’attuazione delle misure di prevenzione e protezione dai rischi sul lavoro incidenti sull’attività lavorativa oggetto dell’appalto;
• coordinare gli interventi di protezione e prevenzione dai rischi cui sono esposti i lavoratori al fine di eliminare rischi dovuti alle interferenze tra i lavori delle diverse imprese/lavoratori autonomi.
I rischi da interferenza
I rischi derivanti da interferenze sono tutti quei rischi per la salute e l’integrità fisica dei lavoratori, derivanti dall’intervento di una ditta esterna nell’unità produttiva di cui il Committente abbia la disponibilità giuridica.
Alcuni esempi di rischi da interferenze per i quali occorre redigere il DUVRI:
• rischi derivanti da sovrapposizioni di più attività svolte ad opera di appaltatori diversi;
• rischi immessi nel luogo di lavoro del committente dalle lavorazioni dell’appaltatore;
• rischi derivanti da particolari modalità di esecuzione, richieste esplicitamente dal committente.
Non sono rischi interferenti:
• quelli specifici propri dell’attività del committente,
• quelli specifici degli Appaltatori o dei Lavoratori Autonomi affidatari.
Questi ultimi rischi sono descritti e gestiti dagli specifici DVR (Documenti di Valutazione dei Rischi) redatti delle singole aziende per le proprie attività e di cui il Datore di Lavoro Committente dovrebbe accertare l’esistenza, eventualmente richiedendone copia.
Verifica obbligatoria dell’idoneità tecnico professionale
Il committente, anche nel caso di affidamento dei lavori ad un’unica impresa o ad un lavoratore autonomo, verifica l’idoneità Tecnico-Professionale delle imprese affidatarie, delle imprese esecutrici e dei lavoratori autonomi in relazione alle funzioni o ai lavori da affidare, con le modalità di cui all’Allegato XVII del D.Lgs. 81/08. Al momento la legislazione vigente (art. 90 del D.Lgs. 81/08) prevede una verifica formale dell’idoneità Tecnico-Professionale delle Imprese e dei Lavoratori Autonomi consistente nell’acquisizione, da parte del Committente o del RdL, di una serie di documenti (ndr, tabelle edizione Giugno 2023 Italia Casa e Condominio).
Obbligo di redazione del Duvri
L’obbligo di redigere il DUVRI esiste quando gli appalti si svolgano all’interno di un’azienda o di una singola unità produttiva o comunque nell’ambito dell’intero ciclo produttivo dell’azienda medesima, sempre che il committente abbia la disponibilità giuridica dei luoghi in cui si svolge l’appalto o la prestazione di lavoro autonomo.
L’obbligo di redazione del DUVRI è in capo al Datore di Lavoro Committente (D.Lgs. 81/08, Art. 26, Comma 3). Secondo l’Art. 26, il Datore di Lavoro Committente deve:
• verificare l’idoneità tecnico professionale dell’impresa;
• promuovere la cooperazione ed il coordinamento ai fini della sicurezza;
• fornire ai lavoratori dell’impresa appaltatrice dettagliate informazioni circa i rischi specifici presenti nel luogo in cui sono destinati ad operare e le misure di prevenzione ed emergenza adottate in relazione alla propria attività.
Il DUVRI, come tutti i documenti sulla sicurezza sul lavoro, è un documento dinamico da aggiornare ogni qualvolta si verifichino nuovi rischi da interferenza, ha valore contrattuale (e dovrebbe essere allegato al contratto di appalto o d’opera) e deve essere adeguato in funzione dell’evoluzione dei lavori.
Se il datore di lavoro non coincide con il committente
Secondo il comma 3-ter dell’Art. 26 del D.Lgs. 81/2008, il committente redige in prima battuta un DUVRI recante una valutazione ricognitiva dei rischi standard alla tipologia della prestazione che potrebbero potenzialmente derivare dall’esecuzione del contratto. In un secondo momento, il soggetto presso il quale deve essere eseguito il contratto, prima dell’esecuzione dei lavori, integra il DUVRI riferendolo ai rischi specifici da interferenza presenti nei luoghi in cui verrà espletato l’appalto, redigendo così il vero e proprio DUVRI definitivo.
Sanzioni
In caso di mancata valutazione dei rischi ed elaborazione del DUVRI, sono previste sanzioni a carico del datore di lavoro committente che possono essere pecuniarie e detentive.
In particolare sono previsti: l’arresto da due a quattro mesi e l’ammenda da 1.000 a 4.800 euro.
Per evitare di incorrere in queste gravi violazioni è indispensabile produrre i documenti in maniera corrispondente ai contenuti minimi richiesti dalle normative vigenti.
Quando il Duvri non è prescritto
I casi in cui il DUVRI non deve essere prodotto sono definiti dal comma 3 bis dell’art. 26 del D.Lgs 81/08 e sono:
• servizi di natura intellettuale;
mere forniture di materiali o attrezzature;
• lavori o servizi la cui durata è inferiore a 5 uomini-giorno, sempre che essi non comportino rischi derivanti da:
– rischio di incendio di livello elevato, ai sensi del dm 10 marzo 1998;
– svolgimento di attività in ambienti confinati (dpr 177/2011);
o presenza di agenti cancerogeni, mutageni o biologici, di amianto o di atmosfere esplosive;
– presenza di rischi particolari (Allegato XI del D.Lgs 81/2008).
Contenuti minimi del Duvri
I contenuti minimi del DUVRI sono i seguenti:
• identificazione dei criteri utilizzati per valutare i rischi (metodologia adoperata);
• descrizione dell’Azienda Committente, delle aree di lavoro, delle attività svolte presso le aree ed i reparti interessati dalle attività oggetto dell’appalto;
• descrizione delle attività svolte dagli appaltatori;
• identificazione dei locali a disposizione dell’appaltatore (viabilità, servizi igienici, refettori, ecc.);
• valutazione dei rischi interferenziali nelle aree di lavoro (previa individuazione dei rischi e delle sovrapposizioni spazio-temporali);
• cronoprogramma delle attività che evidenziano rischi da interferenza;
• le attività oggetto dell’appalto;
• le aree di lavoro nelle quali saranno svolte le attività;
• le attività lavorative omogenee per rischio;
• gli esecutori delle attività;
• organizzazione delle misure di prevenzione e protezione da adottare;
• computo estimativo dei costi della sicurezza;
• coordinamento delle fasi lavorative.
Differenza tra Duvri e Dvr
Spesso si tende a confondere il DUVRI con il DVR, due documenti che partono da un presupposto comune, ovvero la valutazione dei rischi, ma che hanno ambiti di applicazione e destinatari diversi. La differenza principale tra il DVR e il DUVRI è che il DVR include tutti i rischi ai quali sono esposti i lavoratori, mentre il DUVRI solo quelli che insorgono dall’interferenza tra più attività.
Inoltre, diversi sono anche i soggetti responsabili della loro redazione:
• per il DVR è sempre il datore di lavoro (che non può delegare tale attività, ma eventualmente affidarsi alla consulenza di un tecnico specializzato);
• per il DUVRI è il committente dell’appalto, che può coincidere o meno con il datore di lavoro.
Flusso delle attività di redazione
1) Analisi attività:
• descrizione delle singole attività oggetto di appalto;
• analisi di ogni elemento della fase lavorativa, con l’individuazione di attrezzature impiegate, sostanze e preparati utilizzati
2) Individuazione rischi:
• individuazione dei fattori di rischio specifico esistenti nel luogo di lavoro che possono essere trasferiti dalle attività aziendali ai lavoratori della ditta esterna
• individuazione dei fattori di rischio trasmissibili dalle attività dell’Appaltatore ai lavoratori del committente presenti
3) Coordinamento interferenze:
• adozione delle necessarie misure di prevenzione e protezione finalizzate alla riduzione al minimo dei rischi da interferenze tra le attività della ditta esterna (attività esterne) e le attività effettuate dalla azienda committente (attività interne);
• organizzazione, individuazione, segregazione delle aree di lavoro;
• spostamento temporale e/o spaziale delle fasi di lavoro per evitare interferenze.
4) Costi della sicurezza:
• definizione dei costi della sicurezza.
ALLEGATO XI D. Lgs. 81/08
Elenco dei lavori che comportano rischi particolari per la sicurezza e la salute dei lavoratori:
• 1 – Lavori che espongono i lavoratori a rischi di seppellimento o di sprofondamento a profondità superiore a m 1,5 o di caduta dall’alto da altezza superiore a m 2, se particolarmente aggravati dalla natura dell’attività o dei procedimenti attuati oppure dalle condizioni ambientali del posto di lavoro o dell’opera.
• 1-bis – Lavori che espongono i lavoratori al rischio di esplosione derivante dall’innesco accidentale di un ordigno bellico inesploso rinvenuto durante le attività di scavo.
• 2 – Lavori che espongono i lavoratori a sostanze chimiche o biologiche che presentano rischi particolari per la sicurezza e la salute dei lavoratori oppure comportano un’esigenza legale di sorveglianza sanitaria.
• 3 – Lavori con radiazioni ionizzanti che esigono la designazione di zone controllate o sorvegliate, quali definite dalla vigente normativa in materia di protezione dei lavoratori dalle radiazioni ionizzanti.
• 4 – Lavori in prossimità di linee elettriche aree a conduttori nudi in tensione.
• 5 – Lavori che espongono ad un rischio di annegamento.
• 6 – Lavori in pozzi, sterri sotterranei e gallerie.
• 7 – Lavori subacquei con respiratori.
• 8 – Lavori in cassoni ad aria compressa.
• 9 – Lavori comportanti l’impiego di esplosivi.
• 10 – Lavori di montaggio o smontaggio di elementi prefabbricati pesanti.
A cura di Francesco Orsini – Esperto nel settore Sicurezza B-SAFE
In un edificio in condominio, la terrazza a livello di un appartamento al piano rialzato fa da copertura a uno scantinato dove si trovano i box auto privati, alla relativa corsia di scorrimento e al locale dell’autoclave condominiale. La tabella allegata al regolamento condominiale contrattuale precisa le quote millesimali relative ai box e al locale autoclave. Come devono essere ripartite le spese per la riparazione di questa terrazza per infiltrazioni meteoriche? Inoltre, come vanno suddivise le spese di manutenzione/sostituzione del cancello d’ingresso allo scantinato, e per la riparazione/sostituzione della griglia di raccolta presente nello stesso scantinato?
Nel caso in cui si debba procedere alla riparazione di una terrazza di proprietà, o in uso esclusivo, di un singolo condòmino, che funga da copertura per un solo locale sotterraneo di proprietà di privati, ove peraltro è sito anche il locale della comune autoclave, ai fini della ripartizione delle relative spese non si può ricorrere ai criteri previsti dall’articolo 1126 del Codice civile (un terzo della spesa al proprietario della terrazza e due terzi ai proprietari sottostanti).
Si deve invece applicare per analogia l’articolo 1125 del Codice civile, con conseguente addebito della metà della spesa a chi ha la proprietà o l’uso esclusivo della terrazza (destinata soprattutto a dare possibilità di espansione e di ulteriore comodità all’appartamento del quale è contigua) e della restante metà ai proprietari dell’unità immobiliare a essa sottostante (Cassazione, VI sezione, sentenza 35316/2021).
Nel caso in esame, a tale seconda parte concorreranno anche tutti i condòmini, compreso il proprietario della terrazza, in ragione dei millesimi attribuiti al locale della comune autoclave.
Nel medesimo modo, ma per intero a carico dei proprietari dello scantinato, dovrà essere ripartita la spesa per la manutenzione del cancello di accesso ai box, come pure quella per la citata griglia di raccolta delle acque.
Una contribuente si è rivolto all’Agenzia delle Entrate, tramite “La Posta di FiscoOggi”, poiché ha spiegato di voler sostituire solo i vetri degli infissi presenti nella propria abitazione. A tal proposito, la contribuente ha chiesto se in questo caso potrà usufruire della detrazione del 50% delle spese e se vi sono particolari condizioni per richiedere l’agevolazione.
In risposta, l’Agenzia delle Entrate ha chiarito che l’art. 16-bis del Tuir rubricato “Detrazione delle spese per interventi di recupero del patrimonio edilizio e di riqualificazione energetica degli edifici” alla lettera g) del comma 1, comprende tra gli interventi che possono ottenere il bonus ristrutturazioni 50% anche quelli finalizzati al contenimento dell’inquinamento acustico. Ovviamente si tratta di interventi che possono essere effettuati sia sulle singole unità immobiliari e sia sulle parti comuni di un edificio.
Tali interventi, seppur corrispondenti a lavori di manutenzione ordinaria, sono ammessi in detrazione anche se realizzati in assenza di opere edilizie propriamente dette, ad esempio la sostituzione dei vetri degli infissi.
L’Agenzia delle Entrate precisa che per poter usufruire dell’agevolazione fiscale, ovvero del bonus ristrutturazioni 50%, è necessario essere in possesso dell’idonea documentazione (scheda tecnica del produttore) che attesti l’abbattimento delle fonti sonore interne o esterne all’abitazione, nei limiti fissati dalla normativa, ovvero dalla legge quadro sull’inquinamento acustico (legge n. 447/1995).
Pertanto, per poter ottenere l’agevolazione è necessario che la scheda prodotto del costruttore attesti l’ottenimento dei parametri fissati dalla normativa di riferimento.
A cura di Deborah Maria Foti – Ufficio Stampa ANAPI