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LE PROBLEMATICHE IMMOBILIARI (E FISCALI) QUANDO LA FAMIGLIA ENTRA IN CRISI

[A cura di: avvocati Roberto Negro e Valentina Massara – centro studi Appc] 


L’avvocato Enrico Bet del Foro di Genova (AIAF), ha tenuto una importante relazione sul tema molto attuale della crisi della famiglia e del suo reverberarsi su aspetti di natura immobiliare, condominiale e locatizia.

Ha segnalato il relatore la problematica relativa all’assegnazione della casa familiare, come disciplinata dall’art. 337 sexies cod. civ. che dispone che il godimento della casa familiare sia attribuito tenuto prioritariamente conto dell’esigenze dei figli, e che nell’assegnazione il Giudice debba tener conto della regolamentazione dei rapporti economici tra i genitori, considerandosi anche l’eventuale titolo di proprietà.

L’articolo in questione dispone che il diritto al godimento della casa familiare venga meno se l’assegnatario non la abiti o cessi di abitarla stabilmente o conviva more uxorio o contragga nuovo matrimonio.

Il provvedimento di assegnazione è trascrivibile ed opponibile ai terzi ex art. 2643 c.c..

I provvedimenti di cui sopra non fanno differenza tra figli nati nel matrimonio e figli nati fuori dal matrimonio e sono addottati dal Tribunale ordinario.

In parallelo, all’art. 337 sexies cod. civ, si fa riferimento all’art. 6 della Legge 898/70, che dispone che l’abitazione della casa familiare spetti di preferenza al genitore cui sono affidati i figli o al genitore con il quale i figli convivono.

Lo scopo delle norme sarebbe quello di consentire al figlio di mantenere, anche nella crisi del rapporto di coppia, l’habitat domestico in cui ha sempre vissuto; anche nel caso di contratto di locazione vigono norme similari, in quanto già la legge 392/78 disponeva che nei contratti di locazione succede al conduttore l’altro coniuge se il diritto di abitazione nella casa familiare sia attribuito allo stesso dal Giudice, ovvero in caso di accordo tra i coniugi stessi.

Problemi particolari sorgono in caso di comodato, in quanto spesso l’immobile viene concesso in comodato dai genitori al figlio che si sposa, e ciò in quanto il diritto dell’assegnatario dovrebbe possedere la stabilità che aveva l’originario diritto del comodatario: la Corte di Cassazione a Sezioni Unite (sentenza n. 13603/04) ha ritenuto che il comodante sarebbe tenuto a consentire la continuazione del godimento del bene per l’uso previsto dal contratto ed in particolare per l’uso familiare, valutandosi da parte del Giudice se le motivazioni nel momento in cui è stato concesso il bene siano tali da impedire di protrarre oltre l’occupazione.

La concessione per uso familiare implica una scrupolosa verifica dell’intenzione delle parti, delle condizioni personali e sociali, della natura dei loro rapporti e degli interessi perseguiti (Corte Cass.Sentenza n. 20448/14).

In definitiva, la normativa introdotta dall’art. 337 sexies cod. civ. comporta la necessità che le eventuali difficoltà interpretative o discrasie vengano superate con una lettura della norma costituzionalmente orientata.

Il relatore ha anche esaminato il problema del pagamento delle imposte sulla casa, soprattutto per lo “usuario” non proprietario e, peraltro, ai fini dell’applicazione della TASI, visto che il presupposto dell’imposta si realizza con la detenzione dell’immobile a qualsiasi titolo, il tributo dovrebbe incidere anche sull’utilizzatore-occupante dell’immobile stesso.

SMANTELLAMENTO TETTO, INTESTAZIONE A TERZI, PERFINO DISTRUZIONE DELLA CASA. TECNICHE PER SFUGGIRE ALL’IMU

[A cura di: Corrado Sforza Fogliani – presidente centro studi Confedilizia]


È un gravissimo fenomeno segnalato per prima  dalla Confedilizia: quello dei diversi modi che i proprietari stanno escogitando per non dover più pagare tasse in continua crescita su immobili privi di qualsiasi redditività e, in molti casi, di qualsiasi possibilità di utilizzo. Regalare la propria casa è uno di questi modi, e si segnala che si sta verificando in casi sempre più numerosi. 

Un’alternativa al regalo è togliere il tetto del bene, con sua conseguente catalogazione fra gli immobili “collabenti”, che nell’ultimo anno sono aumentati di oltre il 12%. Poiché però questo (a seconda dei singoli casi e delle singole disposizioni comunali) può portare al solo abbattimento delle imposte locali al 50% (come un Fisco incivile, e che non si vergogna, prevede), alcuni non si fidano neanche di questo e affrontano le spese per la totale distruzione del bene (con conseguente erezione delle schede catastali a cancellazione dell’esistenza del bene). 

Un altro modo per liberarsi delle tasse sulla casa è poi quello di intestare l’immobile ad altri, magari ad extracomunitari. Sullo sfondo, vi è la scelta che si fonda su una norma del codice civile: quella di operare una vera e propria rinuncia alla proprietà dell’immobile. Ciò che fa automaticamente scattare il passaggio del bene stesso nel patrimonio dello Stato. In merito, non vi sono comunque precise istruzioni e disposizioni (la norma era nata come minaccia dello Stato per chi “abbandonava” – e trascurava – una casa, non per una liberazione da un incubo). 

La Confedilizia, interpellati vari cattedratici, non è pervenuta ad una scelta univoca (chi dice che si deve pagare niente, come sempre avvenuto, e chi dice che si deve pagare l’imposta di trasferimento alla luce dello “spirito” con cui si applica oggi la norma, rimasta nella lettera inalterata). Non appena – e se – possibile, verranno date informazioni e adeguate istruzioni. 

LOCAL TAX: RIORDINO FISCALE OPPURE ENNESIMO PRELIEVO AL BANCOMAT DELLA CASA?

[A cura di: Flavio Maccione – segr. naz. Appc]


Tutti sono consapevoli che la casa, un volano determinante per lo sviluppo e la crescita, necessita di un approfondito restyling fiscale. No a cambi di sigle senza mutarne le consistenze. Non con il cambio di acronimi, ma con ampie e approfondite potature, che riducano il peso fiscale, accresciuto negli ultimi quattro anni del 176%, si può fare ripartire il settore immobiliare. Alleggerire il carico delle tasse sulla casa deve essere l’imperativo categorico, se vogliamo invertire la corsa all’impoverimento, scacciare il timore per il futuro e tornare a consumare.

L’Italia, sul piano internazionale, è il Paese che ha la maggiore pressione fiscale; pressione che è salita con il governo Monti al 2,2 % sul PIL, contro una media OCSE dell’1,27% e, paragonandola alla sola media dell’UE dove la pressione scende all’1,15% sul Pil, è evidente quanto in Italia pesi il fisco.

Accingersi, pertanto, a parlare del “mattone”, comparto che rappresenta il 20% del PIL nazionale, si rischia di essere monotoni e ripetitivi, in uno scenario che continua ad essere deprimente e senza via d’uscita, il governo Renzi, con la local tax demanderà agli Enti locali l’entità dei prelievi, senza intraprendere un percorso che lasci intravedere un barlume di speranza sull’alleggerimento della tassazione, che ha raggiunto una pressione del 43,5%.

Tutti si sono affannati e si affannano, senza riuscire a rimettere in moto il settore dell’immobile, sul quale in tanti hanno concentrato i loro sogni e le loro speranze. Ciò che era stato inseguito e perseguito, a suon di sacrifici, oggi, a meta raggiunta, non produce sollievo, o appagamento, ma innesca preoccupazione e angoscia per i numerosi oneri che vi incombono e per il timore di non riuscire a mantenerlo. Infatti la pressione fiscale quale fiume tumultuoso, nel suo cammino, ha travolto completamente un settore portante dell’economia. Mai, come in questi ultimi anni, un susseguirsi di normative, che si sono frammentate in infiniti rivoli, introdotte a livello centrale e locale, ha reso impossibile il districarsi in una giungla impenetrabile e oscura, che, tra l’altro, ha prodotto infinite sperequazioni.

La tanto auspicata local tax, che spazzerà via IMU prima e seconda casa, Tasi, addizionali Irpef e tasse varie e, che si affaccia ad un orizzonte ancora ricolmo di nembi minacciosi, di difficoltà e di dubbi, dovrebbe rasserenarci, almeno, riunendo in un unico appellativo le tasse locali, che colpiscono, in forma diretta ed indiretta, la casa, portando ad una semplificazione delle imposte comunali, che ci consenta di respirare in un groviglio di infinite regole, che sono cresciute e si sono differenziate in modo esponenziale. Ma ha anche l’effetto di procurarci e fare insorgere serie preoccupazioni, visto che le amministrazioni locali, sempre più fameliche ed a corto di risorse, alle prese con le necessità e le difficoltà pratiche di “fare cassa”, saranno ancora pronte a colpire il “sudato” e sempre più “attenzionato” mattone, con il creare una “tassa superconcentrata”. Così, la casa, quella chimera da inseguire, si è trasformata in incubo dal quale liberarsi. Oggi in molti rinuncerebbero al loro tetto di proprietà, pur di non fare i conti con una tassazione, che, nonostante le rassicurazioni, i proclami, gli annunci, resta in tendenziale crescita, e continua a mordere, ma il mercato immobiliare è in caduta libera.

Non si può continuare ad accettare gravami fiscali dopo che si sono succeduti governi che, quanto a tasse, hanno usato e usano lo stesso spartito musicale. No. Il mattone non deve essere per lo Stato e gli enti locali il bancomat dal quale continuare a prelevare.


SUNIA: SÌ ALLA RIFORMA DELL’IMPOSIZIONE FISCALE SULLA CASA. MA CON ALCUNI PALETTI

[A cura di: Aldo Rossi – segretario nazionale Sunia]


L’ennesimo cambiamento preannunciato dal Governo in materia di tassazione sulla casa in occasione dell’avvio di discussione sul Def, sembrerebbe orientare le decisioni verso una unificazione dei molteplici tributi che riguardano oggi l’abitazione, con la assegnazione ai Comuni di una competenza piena in materia di imposizione patrimoniale immobiliare .

Questo orientamento, ad oggi solo frutto di sommari intendimenti e scarsi contenuti di reale riforma, va associato al percorso avviato per la riforma del catasto e quindi può far prevedere per il prossimo biennio sostanziali modifiche dell’attuale assetto impositivo sulla casa. Certo, i tempi sono molto più lunghi di quanto sino a qualche mese fa si era ipotizzato, quando si pensava di intervenire sul groviglio Imu – Tasi già con la Legge di stabilità 2015 e non se n’è poi fatto niente. Vedremo che misure concrete seguiranno agli annunci e soprattutto che esiti potrà avere il “contenzioso” Stato-Comuni in materia.

Nella sostanza, un progetto di unificazione della imposizione sulla casa e quindi di semplificazione e una diversa accentuazione delle competenze comunali in materia di tassazione sulla casa ci trova da tempo favorevoli, come pure la indifferibile riforma del catasto. Il problema però, secondo noi, sono i reali contenuti e risultati dell’impianto cui si darà vita, che non può prescindere da alcuni obiettivi: una maggiore equità nell’imposizione, una forte erosione dei livelli attuali di evasione fiscale nel settore, un sistematico utilizzo della leva fiscale in tutte le sue componenti, statale e locale, per supportare con un impianto di aliquote, detrazioni e agevolazioni lo sviluppo dell’affitto. 

Saranno questi, in definitiva, gli indicatori capaci di misurare la bontà delle misure da introdurre, posto che da troppo tempo la crisi delle politiche abitative ha, tra le concause, quella di una politica fiscale nel settore che ha privilegiato l’alloggio in proprietà a scapito della locazione agevolata e contrattata.

In questo senso, vogliamo porre alcune accentuazioni di assoluta urgenza su questioni aperte e che non potranno essere eluse in sede di prospettata riforma:

* il problema della reintroduzione di una norma specifica che colpisca l’evasione fiscale nella locazione, dopo la dichiarata incostituzionalità della norma introdotta dall’art. 3, commi 8 e 9 del Decreto Legislativo 23/2011 che ha lasciato scoperto il contrasto necessario al fenomeno persistente;

* la necessaria sinergia tra cedolare secca con aliquota ridotta e imposizione comunale unificata (attuale Imu-Tasi) per  un reale sostegno e incentivo alla locazione contrattata;

* un intervento fiscalmente mirato ad abbattere il fenomeno degli alloggi sfitti e invenduti, con misure di contrasto e disincentivo e di premialità alla destinazione all’affitto;

* sanare le anomalie tuttora persistenti nel sistema come la quota Tasi a carico dell’inquilino e le contraddittorie misure sulla tassazione degli alloggi Iacp che vanno esentati.

C’e’ poi il tema, non esclusivamente legato alla futura imposta unificata sulla casa, del sistema delle detrazioni per l’inquilino che merita una revisione almeno ispirato alla analogo sistema di detrazione degli interessi sui mutui per l’acquisto della prima casa.

IL TESORETTO? “SI CANCELLI LA TASI PER GLI IMMOBILI GIÀ SOGGETTI AD IMU”

[A cura di: Gabriele Bruyère e Jean-Claude Mochet – Uppi]


L’UPPI, appreso che a seguito dell’approvazione da parte del Consiglio dei Ministri del documento di economia e finanze per il 2015 (DEF) è emerso un tesoretto di 1,6 miliardi di euro, chiede al Governo di cancellare la Tasi per tutti gli immobili già assoggettati ad Imu.

Nel 2014, il gettito della Tasi ha raggiunto complessivamente 4,6 miliardi di euro, di cui 3,3 miliardi di euro derivanti dall’abitazione principale e 1,3 miliardi di euro per tutti i fabbricati diversi dall’abitazione principale, per le aree edificabili e per i fabbricati rurali ossia per tutti gli immobili già assoggettati ad Imu con aliquote molto elevate.

Consapevole che le risorse aggiuntive derivano certamente dall’incremento della pressione fiscale sugli immobili che, nel 2014, ha raggiunto i 42 miliardi di euro per oltre 63 milioni di immobili, l’Uppi ritiene corretto cancellare dalla tassazione della Tasi gli immobili già assoggettati ad Imu, in quanto le tasse locali sugli immobili sono state aumentate negli ultimi tre anni del 160%: dai 9,2 miliardi del 2011 ai 23,9 miliardi del 2014.

L’aumento della pressione fiscale sugli immobili ha fortemente danneggiato il settore dell’edilizia e delle costruzioni, e non ci sarà una vera ripresa in Italia senza una riduzione delle tasse sugli immobili, soprattutto di quelle locali. Con alle porte l’introduzione della Local Tax dal 2016, che andrà a sostituire l’Imu e la Tasi, l’Uppi si chiede se il Governo non abbia davvero intenzione di continuare a mettere mano nelle tasche dei piccoli proprietari immobiliari e se la promessa che le tasse saranno ridotte sia ancora credibile.

VERSO LA LOCAL TAX CON UN FARDELLO DI IMPOSTE LOCALI QUADRUPLICATE NEL GIRO DI 20 ANNI

In giorni in cui si fa un gran parlare di imposizione fiscale comunale, nell’ottica di prospettiva dell’introduzione della local tax (che dal 2016 dovrebbe accorpare le tasse sulla casa e una serie di balzelli locali) è un vero e proprio grido d’allarme quello che arriva dal Codacons, secondo cui tra il 1994 e il 2014 i tributi locali richiesti ai cittadini sono aumentati del 277%, portando ogni singola famiglia a spendere in 20 anni mediamente 3.205 euro in più a livello di tasse.

Come ricostruisce l’associazione in difesa dei diritti dei consumatori, nel 1994 i contribuenti italiani hanno versato il corrispettivo in lire di 27,776 miliardi di euro a titolo di tasse locali. Nel corso degli anni, però, la pressione fiscale si è inasprita a livelli insopportabili, al punto che nel 2014 le famiglie hanno sborsato per i tributi locali complessivamente 104,7 miliardi di euro (per una media di 4.362 euro a famiglia). In soli 20 anni, quindi, i cittadini hanno pagato quasi 77 miliardi di euro in più solo per tasse e imposte locali.

“È una vergogna – attacca il presidente Codacons Carlo Rienzi -. Gli enti locali, invece di ridurre sprechi e di intervenire sui costi, hanno reagito ai tagli decisi dell’amministrazione centrale semplicemente aumentando la pressione fiscale. Al contempo, però, i servizi resi ai cittadini non solo sono diminuiti, ma sono anche peggiorati. In sostanza, si paga di più per ricevere sempre meno. Per tale motivo lanciamo oggi un grido d’allarme, e chiediamo al Governo di intervenire per evitare che gli enti locali proseguano nella folle corsa al rialzo delle tasse, attuando un federalismo fiscale dissennato che ha portato ad un grave impoverimento delle famiglie”.

CRONACA FLASH

Alloggio va in fiamme 

Due persone intossicate

A causa di un incendio sviluppatosi in un appartamento all’ultimo piano di uno stabile livornese, due persone sono rimaste intossicate dal fumo. Portati al pronto soccorso di Livorno, i due sono stati poi trasferiti all’ospedale di Pisa per il trattamento in camera iperbarica. L’allarme è scattato nella prima mattinata, intorno alle 6,30. Sul luogo dell’incendio sono accorse due squadre dei vigili del fuoco, che hanno fatto sgomberare lo stabile.


Attrezzi da arrampicata

per svaligiare gli alloggi

A Genova, è stata sgomitata una gang di ladri che, per riuscire a entrare negli appartamenti, usavano attrezzi da arrampicata, con tanto di corde, moschettoni e imbracature. Il materiale per mettere a segno i furti è stato trovato nell’abitazione genovese di uno dei topi d’alloggio (tre albanesi, di età compresa tra 22 e 29 anni), arrestato con i presunti complici dagli agenti della squadra mobile con l’accusa di avere messo a segno una serie di colpi in città nel mese di gennaio. A quanto pare, i tre organizzavano sopralluoghi per individuare i palazzi ideali dai quali calarsi in tutta tranquillità. 



Serra marija in camera, 

Arrestato dalla polizia

Aveva trasformato la sua camera da letto in una serra per coltivare marijuana. La polizia, svolgendo un controllo nella casa abitata da una famiglia “insospettabile” di Perugia, ha quindi arrestato un ventenne, nella cui stanza le forza dell’ordine hanno scoperto una struttura organizzata per la coltivazione delle piantine, composta da cabina in tela riscaldata con una lampada a raggi ultravioletti, un impianto di aerazione collegato alla finestra, apparecchi per misurare il livello di umidità e il tasso di acidità del terreno. 



Moglie minacciata

e aggredita con coltello 

L’aveva minacciata per telefono dicendole che l’avrebbe uccisa con un coltello. Poi, un uomo di 45 anni, residente in provincia di Pescara, ha provato a passare dalle parole ai fatti, ma è stato bloccato dalla polizia mentre, prendendo a calci la porta, tentava di entrare in casa della donna, dalla quale è separato. Il 45enne è stato arrestato per detenzione abusiva di arma, minaccia grave e atti persecutori. La donna ha raccontato di avere già sporto querela a febbraio per ingiurie, minacce e percosse nei confronti del marito. Nella propria auto, l’uomo nascondeva un coltello a serramanico. 


Ladri senza cuore

Rubano un salvadanaio

Neanche una remora. In provincia di Napoli, due malviventi sono entrati all’interno di un appartamento portando via un televisore, svariati capi di biancheria e persino il salvadanaio dei figlioletti del padrone di casa. I due presunti ladri sono stati però bloccati dai carabinieri, intervenuti sul posto. I militari hanno recuperato la refurtiva, che è stata restituita. 


LOCAL TAX, FIAIP E ASSOEDILIZIA CONCORDI: “BISOGNA ABBATTERE LE TASSE SUL MATTONE”

Nel dibattito innescato dall’approvazione della bozza del Def e dalla previsione dell’introduzione della local tax a partire dal 2016, si inseriscono altre due autorevoli voci del comparto immobiliare: quella della Fiaip e quella di Assoedilizia.


COSÌ LA FIAIP

“Avremmo bisogno di una manovra di segno espansivo, che parta dall’immobiliare per rilanciare l’economia. Per il settore immobiliare, come per tutta l’economia, serve quanto prima un’azione decisa sul fronte della riduzione delle tasse”. È la posizione espressa dal presidente nazionale della Federazione immobiliaristi, Paolo Righi: “Nel provvedimento manca purtroppo l’indicazione di un obiettivo chiaro per la ripresa economica. Aumentare il potenziale di crescita del sistema Paese partendo dall’immobiliare, che rappresenta il 20% del Pil, è indispensabile, visto che il trend di crescita tornerà a fatica ai livelli di pre-crisi. Ma al momento non si parla di riduzione della pressione fiscale, anzi si sostiene che su questo fronte è stato già fatto molto e bisognerà quindi attendere la Legge di stabilità del 2016. La stessa semplificazione sulla tassazione immobiliare: un’unica imposta sulla casa e la preannunciata riduzione della pressione fiscale sugli immobili vengono quindi rimandate a tempi migliori”.

Quindi, Fiaip pone l’accento sul fatto che Palazzo Chigi non ha abbassato le tasse negli ultimi anni: “In Italia la tassazione è al 42,6% per l’Ocse, mentre nel 2014 la pressione fiscale è arrivata al 43,5%, come di recente è stato certificato, perfino dall’Istat. E finora abbiamo visto un vergognoso aumento del 178% delle imposte sulla casa, che ha prodotto conseguenze disastrose per gli italiani in termini di impoverimento e di riduzione dei consumi”.

Quindi, tornando allo specifico della local tax, Righi commenta: “La tassazione unica non può ridursi al mero accorpamento di Imu e Tasi. Dopo il pasticcio del 2012 sarebbe auspicabile l’introduzione di un tributo unico che, semplificando il caos fiscale sulle imposte immobiliari, diminuisca sensibilmente la pressione fiscale sulla casa. Ci auguriamo che il governo non stia per confezionare un altro aumento di imposte a carico dei cittadini e delle imprese con una super tassa comunale che si potrebbe configurare come l’ennesima aggressione fiscale sugli immobili. Sarebbe inaccettabile alzare ancora le imposte sulla casa, dopo che negli ultimi anni i governi Monti, Letta e ora Renzi hanno già triplicato gli stessi prelievi. Gli italiani, le famiglie e i cittadini non vogliono più veder la casa trattata come un bancomat per far cassa per lo Stato e gli Enti locali”.


COSÌ ASSOEDILIZIA

“Dato il pregresso, c’è inevitabilmente il sospetto che la revisione allo studio, con la local tax che dovrebbe sostituire l’Imu, la Tasi e possibilmente altri tributi locali per semplificare e razionalizzare il sistema, sia l’occasione per ritoccare in peggio la fiscalità immobiliare”. Ad esprimere scetticismo è il presidente di Assoedilizia, Achille Colombo Clerici. 

“Certo, una bella rimescolata di carte può servire a confondere le acque a questi fini. La vera riforma della local tax dovrebbe viceversa portare, più che all’accorpamento dei diversi tributi esistenti, alla revisione del presupposto impositivo. Le imposte locali sono destinate a finanziare i servizi comunali. E quindi debbono esser poste a carico non di chi possiede l’immobile, ma di colui che, occupando lo stesso, fruisce in pratica dei servizi stessi. Questo meccanismo consentirebbe anche una maggior corrispondenza del gettito del tributo all’entità del fabbisogno finanziario dei comuni. Così avviene all’estero, dove, ad esempio in Inghilterra con la Council Tax, si ottengono gettiti fiscali assai congruenti con la spesa pubblica”.



LOCAZIONI COMMERCIALI: I GRAVI MOTIVI DI RECESSO ANTICIPATO DEL CONDUTTORE

[A cura di: avv. Ermenegildo Mario Appiano – Segretario ALAC Torino]


Come noto, i contratti di locazione relativi ad immobili urbani ad uso diverso dall’abitazione hanno una durata minima fissata dalla legge, che è di sei anni (nove se i locali sono adibiti ad attività alberghiera).

Ciò ai sensi dell’art.27 della legge 392/1978.

Il locatore non ha possibilità alcuna di recedere anticipatamente da tale contratto, mentre il conduttore può farlo in due diverse situazioni. In primo luogo, qualora tale facoltà gli sia stata riconosciuta mediante un’apposita clausola contrattuale. In secondo luogo, anche in assenza di qualunque pattuizione sul recesso anticipato del conduttore, se sussistono “gravi motivi”, tali cioè da non rendere più ragionevole che il conduttore stesso continui ad essere vincolato dal rapporto di locazione (ultimo comma della norma citata).


I GRAVI MOTIVI

Con riferimento allora a questa seconda ipotesi, ci si è posti il problema di capire in cosa consistano i “gravi motivi” in questione. In effetti, se si consentisse al conduttore di addurre in qualsiasi circostanza la presenza di un “grave motivo”, ciò gli consentirebbe – di fatto – di recedere a piacimento dal contratto di locazione, cosa invece non consentitagli in mancanza di un’apposita previsione contrattuale, come poc’anzi spiegato. 

Allo stesso vietato risultato si addiverrebbe se si consentisse comunque al conduttore di determinare egli stesso il venire in essere delle circostanze che verrebbero poi addotte a fondamento degli stessi “gravi motivi”.


LA CASSAZIONE

Questo principio è ormai pacifico nella giurisprudenza della Cassazione. Al riguardo, basti richiamare una delle decisioni più recenti in materia (Sez. VI, ordinanza 11/03/2011, n. 5911), dove si ribadisce che “i gravi motivi in presenza dei quali l’art. 27, ultimo comma, della legge 27 luglio 1978, n. 392, indipendentemente dalle previsioni contrattuali, consente in qualsiasi momento il recesso del conduttore dal contratto di locazione devono collegarsi a fatti estranei alla volontà del conduttore, imprevedibili e sopravvenuti alla costituzione del rapporto”.

Andando però più nello specifico, ci si può domandare come tale principio funziona in situazioni complesse, e cioè quando i locali locati non rappresentino l’unico immobile nel quale il conduttore esercita la propria attività. 


GRANDE DISTRIBUZIONE

Caso emblematico è quello della grande distribuzione, dove la stessa società può gestire diversi ipermercati, locando da soggetti diversi più immobili in differenti località.

A dirimere la situazione, soccorre una decisione della Cassazione (sezione III, sentenza 3/12/2011, n.26711), avente per oggetto il caso in  cui un simile conduttore – cambiata la propria compagine sociale e modificata di conseguenza la propria politica aziendale – invocava la presenza dei “gravi motivi” di recesso per liberarsi dal rapporto di locazione relativo ad un immobile che più non gli interessava, mentre continuava a svolgere la propria attività commerciale in tutti gli altri punti vendita. In pratica, “a fronte di un piano di riqualificazione aziendale promosso dal nuovo gruppo proprietario (della società conduttrice: n.d.r.), che aveva consentito, su scala nazionale, un considerevole aumento del guadagno, soltanto l’esercizio per cui è causa non aveva invece risposto alle attese” e, conseguentemente, si cercava di dismettere. 

Nella fattispecie la Cassazione ha negato la sussistenza dei “gravi motivi” di recesso.

Per stabilirlo, la Suprema Corte è partita dalla premessa “che, secondo l’orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, le ragioni che consentono al locatario di liberarsi del vincolo contrattuale devono essere determinate da avvenimenti estranei alla sua volontà, imprevedibili e sopravvenuti alla costituzione del rapporto, tali da rendere oltremodo gravosa per il conduttore la sua prosecuzione”. Inoltre, con riferimento all’andamento dell’attività aziendale, è altresì principio consolidato che “può integrare grave motivo, legittimante il recesso del conduttore, un andamento della congiuntura economica (sia favorevole che sfavorevole all’attività di impresa), sopravvenuto e oggettivamente imprevedibile (quando fu stipulato il contratto), che lo obblighi ad ampliare o ridurre la struttura aziendale in misura tale da rendergli particolarmente gravosa la persistenza del rapporto locativo” (cfr. Cass. n.10980/1996, n.3418/04, n.9443/2010). 

Ma è utile precisare a riguardo – e tale rilievo non è di poco conto – che i fatti, per essere tali da rendere oltremodo gravosa la prosecuzione del contratto, devono presentare una connotazione oggettiva, non potendo risolversi nella unilaterale valutazione effettuata dal conduttore in ordine all’opportunità o meno di continuare a occupare l’immobile locato, poiché, in tal caso, si ipotizzerebbe la sussistenza di un recesso ad nutum, contrario all’interpretazione letterale, oltre che allo spirito della suddetta norma (cfr. Cass. n.5293/08, n.5328/07) e che la gravosità della prosecuzione del rapporto locativo deve essere valutata in rapporto alla dimensione globale dell’azienda, specialmente se sia di rilievo nazionale o multinazionale, verificandosi a tal fine se il sopravvenuto squilibrio tra le prestazioni originarie sia tale da incidere significativamente sull’andamento dell’azienda del conduttore, considerata nel complesso delle sue varie articolazioni territoriali”.

Applicando tali principi al caso di specie, la Cassazione ha quindi avvallato quanto deciso dalla Corte d’Appello di Brescia, la quale aveva negato la sussistenza dei “gravi motivi” di recesso per la ragione che “se anche si volesse circoscrivere il discorso al singolo punto di vendita di Brescia, non risulterebbe dimostrato l’elemento della prosecuzione gravosa non avendolo il conduttore provato – attraverso una comparazione con gli altri punti vendita che il negozio di (omissis) raggiungesse un fatturato cosi basso rispetto agli altri negozi da renderne necessaria la chiusura, per non ostacolare l’espansione del gruppo, anche perché i minori (in resi) ricavi potrebbero essere stati determinati da contingenze non necessariamente legate all’ubicazione dei locali (ad esempio, dall’incapacità del personale o dai prezzi praticati). Ed allora è evidente che il solo confronto fra i due negozi di (omissis) (quello chiuso e quello successivamente aperto in corso (omissis)) non può dare un’oggettiva contezza – per aver operato in periodi certamente diversi, con personale forse diverso ed in una condizione probabilmente diversa – del fatto che mantenere aperto il negozio appartenente agli odierni appellanti, piuttosto che trasferirlo ad un centinaio di metri, costituisce un grave handicap per la società. E questo a voler sottacere che, neppure del progetto di riqualificazione della via (omissis) e dell’affidamento di esso concretamente avuto, il conduttore ha fornito un’adeguata prova, non essendo all’uopo rilevante un documento che si limita ad uno studio unilaterale e parziale sullo stesso fabbricato”.

In conclusione, per dette ragioni nella fattispecie la Cassazione ha escluso la sussistenza dei “gravi motivi” di recesso alla luce del principio di diritto secondo cui “in tema di recesso del conduttore in base al disposto di cui alla L. n. 392 del 1978, art. 27, u.c. le ragioni che consentono al locatario di liberarsi del vincolo contrattuale, devono essere determinate da avvenimenti sopravvenuti alla costituzione del rapporto, estranei alla sua volontà ed imprevedibili, tali da rendere oltremodo gravosa per il conduttore la sua prosecuzione. La gravosità della prosecuzione, che deve avere una connotazione oggettiva non potendo risolversi nella unilaterale valutazione effettuata dal conduttore in ordine alla convenienza o meno di continuare il rapporto locativo, deve essere, non solo tale da eccedere l’ambito della normale alea contrattuale, ma deve altresì consistere in un sopravvenuto squilibrio tra le prestazioni originarie tale da incidere significativamente sull’andamento dell’azienda del conduttore globalmente considerata”.


UN CASO DIFFERENTE

Merita però osservare che in una successiva pronuncia (sezione III, sentenza 27/03/2014, n.7217), la Cassazione ha invece ravvisato la presenza dei “gravi motivi” di recesso qualora i locali locati siano dedicati all’esercizio di un ramo dell’azienda del conduttore che viene chiuso, sebbene gli altri rami d’azienda del conduttore continuino la loro attività in altri locali.

La Corte d’Appello di Trieste – la cui decisione è stata annullata dalla Cassazione – aveva negato la sussistenza dei “gravi motivi” addotti dalla conduttrice a fondamento del recesso anticipato osservando “che la chiusura del ramo di azienda per cui veniva utilizzato il capannone non era “stata una scelta necessitata dell’imprenditore, bensì una scelta di opportunità”, determinata “da motivi strategici e non gravi” (visto che, pur a fronte di un’indubbia riduzione del fatturato relativo allo specifico ramo d’azienda della produzione di sedute in legno, la società aveva registrato – nel complesso – un aumento del volume di affari)”. 

Per contro, la Cassazione ha ritenuto “che l’accertamento della ricorrenza dei suddetti requisiti non possa che essere condotto in riferimento allo specifico contratto di locazione per cui viene esercitato il recesso e che, ove venga addotta la non remuneratività dell’attività o addirittura la chiusura del ramo di azienda che utilizzava l’immobile interessato dal recesso, non possa tenersi conto dell’aumentata redditività di altre attività, tale da assorbire le perdite o anche da determinare un miglioramento complessivo delle condizioni economiche del conduttore. 

Nell’ottica di un bilanciamento fra l’interesse del locatore alla prosecuzione del rapporto fino alla sua naturale scadenza e quello del conduttore a non essere vincolato dal contratto ove l’attività per cui l’immobile è stato locato divenga antieconomica, la valutazione imposta dall’art. 27 ult. co. non può che concernere la specifica attività per cui l’immobile è stato locato, al fine di accertare se persista – oggettivamente – quell’interesse che aveva determinato l’assunzione degli obblighi contrattuali. 

Considerato, infatti, che i richiamati requisiti della involontarietà, sopravvenienza ed imprevedibilità forniscono adeguata tutela agli interessi del locatore, impedendo che lo scioglimento del rapporto sia rimesso alla mera volontà del conduttore, l’opzione interpretativa che – a fronte di una situazione di complessiva floridità aziendale – richiedesse al conduttore di restare vincolato ad un contratto rivelatosi antieconomico ne comprimerebbe le ragioni oltre la misura necessaria a garantire la posizione del locatore, finendo col penalizzare il conduttore sino al punto di veder ridotti – o addirittura azzerati – i risultati positivi conseguiti in altri rami dell’attività aziendale”.

Sembrerebbe allora che la diversa tipologia dell’attività esercitata nei diversi rami d’azienda (fabbricazione sedie in legno in quello che veniva cessato e fabbricazione sedie in metallo in quello che continuava) rappresenti l’elemento a suffragio della decisione assunta in questa più recente sentenza dalla Cassazione. 

Ma forse questo non è il punto dirimente.

Nella prima decisione, infatti la Cassazione ha esaminato un caso in cui il conduttore svolgeva la medesima attività mediante diversi punti vendita, che verosimilmente facevano tutti parte della stessa azienda. In altre parole, sembrerebbe che l’organizzazione aziendale in questione fosse unitaria, e cioè che i singoli punti vendita non costituissero ciascuno uno specifico ramo d’azienda del conduttore. Se invece così fosse stato, ci si domanda allora a quale soluzione sarebbero pervenuti i giudici. 

In definitiva, la questione non può dirsi chiusa. 

Visto il crescere esponenziale che la grande distribuzione ha avuto negli ultimo anni ed essendo sempre più forte la concorrenza al suo stesso interno, considerata altresì l’attuale difficile congiuntura economica nel nostro Paese, molto verosimilmente la materia tornerà presto all’attenzione della Cassazione.


CONDOMINIO: SENZA UNANIMITÀ NON È POSSIBILE LIMITARE IL DIRITTO DI PROPRIETÀ

[A cura di: Confappi]


“Nell’ambito dei regolamenti condominiali, vanno distinte le clausole con contenuto tipicamente regolamentare dalle clausole contrattuali, le quali devono essere approvate all’unanimità. È fuori discussione che una clausola, che limita ad un determinato uso un immobile escludendo gli altri possibili, costituisce limitazione del diritto di proprietà”. È quanto scrivono i giudici della Corte di Cassazione nella sentenza n. 5657 del 20 marzo 2015. 

Il protagonista della vicenda è un condomino, che decide di impugnare una delibera assembleare con la quale è stato approvato (a maggioranza e con il suo voto contrario) un regolamento di condominio, che priva alcuni condòmini dell’utilizzo di parti comuni. Nello specifico, l’utilizzo delle ultime rampe di scale di un palazzo che quindi, secondo la delibera incriminata, appartengono solo ad alcuni condòmini i quali possono vietarne l’accesso agli altri. 

Dice la Suprema Corte: “Le norme del regolamento condominiale che incidono sulla utilizzabilità e sulla destinazione delle parti dell’edificio, in particolare sullo stato giuridico di una cosa comune, come nella specie le scale, hanno carattere convenzionale e, se predisposte dall’originario proprietario dello stabile, debbono essere accettate dai condòmini nei rispettivi atti di acquisto ovvero con atti separati, e, se invece deliberate dall’assemblea condominiale, debbono essere approvate all’unanimità (cfr. tra le tante, Cass. 11 febbraio 1977 n. 621)”. 

Quindi, continuano i giudici, “non potendo formare oggetto di decisione assembleare a maggioranza, sono assolutamente nulle le deliberazioni delle assemblee condominiali lesive dei diritti di proprietà comune. Ciò posto, non vi è dubbio che la clausola (del regolamento condominiale approvato dall’assemblea a maggioranza) che destina alla proprietà esclusiva dei proprietari dell’appartamento posto al piano terzo ed attico dello stabile le scale di collegamento fra i due piani, costituisce “di per sé” lesione del diritto di proprietà comune dei condòmini, comprimendo in maniera eccessiva e ingiustificata l’esercizio di facoltà connesse all’uso o al godimento delle parti comuni dell’edificio – divieto di accedere in una parte delle scale – escludendo alcune destinazioni dall’uso che avrebbe potuto altrimenti farsi della cosa comune”.