Se l’amministratore “investe” le somme del conto condominiale
Un amministratore condominiale viene condannato per appropriazione indebita. Lui non ci sta e ricorre, adducendo di aver semplicemente investito i soldi dei condòmini a beneficio comune. In realtà il denaro era stato spostato dal conto condominiale a quello personale del professionista. Ecco come si è pronunciata la Cassazione.
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CORTE DI CASSAZIONE
Sez. II pen.,
sent. n. 33547/2016,
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RITENUTO IN FATTO
C.P., già amministratore di un condominio sito in …, è stato condannato dal Tribunale di Milano, con sentenza del 15 giugno 2012, per essersi indebitamente appropriato dell’importo di euro 38.878 prelevato dalle casse condominiali. La Corte d’appello meneghina, con sentenza del 13 febbraio 2015, in parziale riforma della decisione di primo grado, ha concesso all’imputato il beneficio della non menzione della condanna.
Ricorre l’imputato, per il tramite del proprio difensore, denunciando anzitutto l’erronea applicazione dell’art. 646 cod. pen. e il vizio di motivazione in ordine all’accertamento dell’interversione del possesso delle somme indicate come oggetto del reato contestatogli. Osserva al riguardo che la vicenda veniva alla luce in data 13 febbraio 2009, allorquando il C.P., cessando dalla carica di amministratore del condominio, consegnava al nuovo amministratore la contabilità e contestualmente segnalava un ammanco di oltre euro 22.000, successivamente accertato (e definitivamente riconosciuto dallo stesso C.P.) in euro 38.878. Sottolinea, quindi, di essere stato egli stesso a segnalare l’ammanco di tali somme e che le stesse non erano destinate al pagamento di spese correnti: egli aveva fatto un investimento nell’interesse esclusivo del condominio amministrato e non se ne è mai appropriato.
(omissis)
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è manifestamente infondato e deve essere dichiarato inammissibile.
Il primo motivo di ricorso riguarda, in sostanza, l’accertamento della sussistenza degli elementi costitutivi del delitto di appropriazione indebita, con riferimento tanto al dato teleologico dell’ingiusto profitto quanto a quello psicologico dell’interversione del possesso. La doglianza è infondata in relazione ad entrambi profili dedotti.
La censura relativa all’interversione del possesso poggia sull’erronea convinzione che tale momento si determina allorquando l’autore del reato, già appropriatosi della cosa, non provveda alla sua restituzione. In realtà la consumazione del reato di cui all’art. 646 cod. pen. non richiede la costituzione in mora dell’autore né un vero e proprio inadempimento dell’obbligo restitutorio, essendo anticipata la soglia della rilevanza penale al momento appropriativo in sé considerato (cioè, nel caso di specie, all’indebito prelievo di somme dalle casse del condominio).
Quanto all’ingiusto profitto, la circostanza che le somme in questione sarebbero state investite nell’interesse del condominio, anziché utilizzate a fini privati dall’imputato, risulta sprovvista di qualsiasi riscontro fattuale. Si tratta di questione proposta per la prima volta col presente ricorso. Al contrario, dalla lettura dell’atto d’appello si ricava che le somme, piuttosto che essere “investite” nell’interesse del condominio, sarebbero state spostate dal conto corrente condominiale ad un conto corrente privato del C.P. «destinato alla gestione di tutti i condomini di cui lo stesso risultava essere, da 38 anni, amministratore», caratterizzato da una maggiore fruttuosità in ragione del tasso di interesse praticato. Detta operazione, ben lungi dal costituire semplicemente un’attività posta in essere in nome per conto del condominio, ancorché in eccedenza del mandato ricevuto, implica l’impossessamento del denaro da parte dell’imputato.
(omissis)
Il ricorso deve, in conclusione, deve essere dichiarato inammissibile.
Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, la parte privata che lo ha proposto deve essere condannata al pagamento delle spese del procedimento, nonché – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore della Cassa delle ammende della somma di euro 1.500, così equitativamente stabilita in ragione dei motivi dedotti.
P. Q. M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1.500 alla Cassa delle ammende.