[Fonte: Confedilizia]
Quale sarà l’impatto della futura local tax è ancora da ponderare. Di certo, l’imposta sulla casa onnicomprensiva, si andrà ad inserire in un contesto caratterizzato, negli ultimi anni, dalla progressiva imposizione fiscale sul mattone.
Una stangata dalle proporzioni ragguardevoli, stando al dossier pubblicato da Confedilizia, di cui riportiamo un ampio stralcio.
INTRODUZIONE
Con il 2015, la proprietà immobiliare si troverà, per il quarto anno consecutivo, a subire un livello di imposizione tributaria insostenibile. Ad aumentare vertiginosamente, come noto, è stata una specifica componente della tassazione sugli immobili, quella di natura patrimoniale. Quella – giova ricordarlo – che colpisce gli immobili al di là di qualsiasi reddito dagli stessi prodotto. E che si aggiunge (anche questo è bene rammentarlo) ad altre forme di imposizione, come quella sui redditi e quella sui trasferimenti.
DATI PRINCIPALI
* Nel 2014, il gettito di IMU e TASI (imposte entrambe sostanzialmente patrimoniali,ì nonostante la seconda venga nominalmente qualificata come tributo sui servizi) è stato di circa 25 miliardi di euro.
* Fino al 2011, il gettito dell’ICI era stato di circa 9 miliardi di euro.
* Le imposte locali sugli immobili si sono quasi triplicate rispetto al 2011.
* Fra il 2012 e il 2014, la proprietà immobiliare ha versato complessivamente circa 69 miliardi di euro di imposte di natura patrimoniale.
* Dal 2012, i proprietari versano ai Comuni 15/16 miliardi di euro in più ogni anno (il 50% in più rispetto all’entità dello sgravio degli “80 euro”).
* Il carico fiscale sugli immobili del 2014 (Governo Renzi), dato da IMU e TASI, è stato di oltre 1 miliardo superiore rispetto a quello dell’IMU 2012 (Governo Monti).
Tasse casa (2011 – 2014)
Ecco la progressione delle imposte sulla casa:
2011: 9,2 miliardi (Ici)
2012 (Governo Monti): 23,8 miliardi (Imu)
2013 (Governo Letta): 20,4 miliardi (Imu e mini-Imu)
2014 (Governo Renzi): 25 miliardi (Imu e Tasi).
È necessario partire da questi dati – e da quelli, altrettanto significativi, relativi ad esempi di tassazione in capo a singoli proprietari – per effettuare qualsiasi valutazione dell’attuale situazione del comparto immobiliare e per ipotizzare i possibili scenari futuri, anche in vista della local tax. La necessità di ridurre la tassazione sugli immobili non è dovuta solo ad un’esigenza di equità. I riflessi che il carico fiscale genera sul settore immobiliare e sull’intera economia sono stati a lungo sottovalutati da molti. La miope e acritica ripetizione di modelli teorici sconfessati dai fatti – modelli secondo i quali le imposte ricorrenti sugli immobili risulterebbero meno “distorsive” per la crescita economica – ha impedito per molto tempo di far emergere ciò che gli operatori economici (del settore immobiliare, ma anche delle decine e decine di comparti che all’immobiliare sono collegati) avevano sperimentato sulla propria pelle sin dall’inizio della offensiva fiscale di fine 2011. E cioè che gravare gli immobili – in modo repentino, marcato e, ormai, ripetuto – di un carico di tasse come quello abbattutosi in Italia negli ultimi anni, produce conseguenze negative a catena, con riflessi evidenti e innegabili sulla crescita del Paese:
* crollo delle compravendite;
* diminuzione degli interventi sulle singole unità immobiliari per ristrutturazione e arredamento;
* fallimento di innumerevoli piccole imprese del settore;
* perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro in edilizia;
* crisi delle locazioni e progressiva riduzione della relativa offerta, con gli immaginabili risvolti sociali;
* caduta dei consumi generata dalla perdita di valore degli immobili (stimata in circa 2.000 miliardi) e dall’effetto che tale riduzione ha prodotto su milioni di proprietari ai quali è venuta improvvisamente a mancare quella sorta di copertura assicurativa che da sempre ha rappresentato, per ciascuno di loro, la consapevolezza di poter contare su un bene che mai prima si era svalutato.
OPERAZIONI FIDUCIA
È dal Fisco che bisogna ripartire per dare vita ad una grande “operazione fiducia” per il settore immobiliare. Solo attraverso un segnale concreto, tangibile – e, soprattutto, percepibile dalla proprietà diffusa – nel senso di una riduzione della morsa fiscale sugli immobili, si potrà sperare nell’attivazione di un circolo virtuoso, capace di diffondere un ottimismo “contagioso”, che non mancherebbe di riflettersi sui grandi numeri della nostra economia. E, per farlo, non ci si può di certo limitare ad operazioni di restyling delle attuali imposte locali. Bisogna fare molto di più: avere coraggio e capacità di innovare. Occorre abbandonare la pigra (e ingiusta) tassazione su base catastale/patrimoniale e creare un sistema che preveda la tassazione degli immobili esclusivamente per il reddito che essi producono e per i servizi – certi, verificabili, quantificabili – che ricevono, a beneficio sia dei loro proprietari sia dei loro utilizzatori. Con effetti positivi (anche in termini di riduzione della spesa pubblica e di eliminazione degli sprechi) per l’intera collettività.
CASE IN AFFITTO
Ecco un raffronto della tassazione locale del 2011 con quella del 2014.
Contratto libero (4 + 4)
Città: Roma
Immobile: A2 con rendita catastale di 1.000 euro
Anno 2011: aliquota Ici 7 per mille
Anno 2014: aliquota Imu: 10,6 per mille; aliquota Tasi: 0,8 per mille
Importo 2011: 735 euro
Importo 2014: 1.889 euro
Variazione importo: + 1.154 euro
Variazione percentuale: +157%
Contratto agevolato (3 + 2)
Città: Roma
Immobile: A2 con rendita catastale di 1.000 euro
Anno 2011: aliquota Ici 4,6 per mille
Anno 2014: aliquota Imu: 10,6 per mille; aliquota Tasi: 0,8 per mille
Importo 2011: 483 euro
Importo 2014: 1.889 euro
Variazione importo: + 1.406 euro
Variazione percentuale: +291%
ATTENZIONE: La tassazione – su base puramente patrimoniale – si aggiunge a quella che colpisce il reddito da locazione. È sconcertante notare come dall’aggravio fiscale sugli immobili non siano stati risparmiati, in ossequio alla funzione sociale che essi tradizionalmente svolgono, neppure gli immobili dati in affitto, neanche nel caso in cui la locazione sia a canone calmierato, attraverso i cosiddetti contratti “concordati”.
UNITÀ NON ABITATIVA
Si è preso in esame a titolo esemplificativo il caso di un immobile situato a Roma. Aliquota Imu: 10,6 per mille; aliquota Tasi: 0,8 per mille.
Le imposte, statali e locali (ben sette), raggiungano un livello tale da erodere – come accade nel caso di un immobile di Roma preso ad esempio, fino all’80% del canone di locazione. Percentuale che arriva a sfiorare il 100% se alle tasse si aggiungono le spese (di manutenzione, assicurative ecc.) alle quali il proprietario-locatore deve comunque far fronte (senza considerare il rischio morosità). Tale spropositato livello di tassazione è dovuto, a livello locale, all’introduzione dell’Imu e della Tasi, e, a livello statale (non essendo applicabile la cedolare secca) a una imposizione IRPEF che di fatto colpisce persino le spese, essendo queste considerate – come deduzione fiscale – nella irrisoria misura forfetaria del 5% a partire dal 2013 (rispetto alla quota del 15%, frutto di una precedente diminuzione dell’originaria misura del 25%).
ABITAZIONE SFITTA
Nella fattispecie l’immobile si trova ancora una volta a Roma. È di categoria A2, situato nello stesso Comune in cui si trova l’abitazione principale. Rendita catastale: 1.000 euro; aliquota Imu: 10,6 per mille; aliquota Tasi: 0,8 per mille.
In questo caso, occorre evidenziare il carico fiscale, inspiegabilmente punitivo, cui è soggetto un appartamento destinato alla locazione, ma per il quale il proprietario non riesce a trovare un inquilino. Le imposte dovute per un immobile di questo tipo – che non produce alcun reddito e che è, anzi, fonte di spese (condominiali, di manutenzione, assicurative ecc.) – sono ben cinque:
* Irpef;
* addizionale regionale Irpef;
* addizionale comunale Irpef;
* Imu;
* Tasi.
Per un appartamento medio di Roma, con rendita catastale di 1.000 euro, la somma delle 5 imposte dovute varia tra 2.094 e 2.238 euro, in funzione dello scaglione di reddito Irpef in cui si colloca il contribuente-proprietario. Somme che il contribuente in questione deve necessariamente trarre dai propri risparmi ovvero da eventuali redditi derivanti da altra fonte (lavoro, pensione ecc.).
[A cura di: avv. Chiara Magnani – Ass. Foro Nazionale]
Con la sentenza n. 4901 dell’11/03/2015 la Corte di Cassazione esclude che il condomino, che abbia realizzato opere seppur ingenti e di valore sul bene comune, possa richiedere la restituzione delle somme spese per materiali e manodopera, così come previsto dall’ istituto dell’accessione.
Nel caso in esame, infatti, il singolo condomino richiedeva al Condominio, avendo il medesimo costruito sul terreno di proprietà comune un impianto sportivo, il pagamento delle somme sostenute per l’edificazione dell’opera ai sensi e per gli effetti dell’art. 936 c.c. Il Tribunale di Milano e la Corte di Appello rigettavano le domande dell’attore rilevando l’inapplicabilità dell’istituto dell’accessione, escludendo il diritto dell’attore all’ indennizzo di cui all’art. 936 c.c, per essere – il medesimo – condomino dello stabile, e pertanto comproprietario del bene sul quale era stato realizzato l’impianto sportivo. I giudicanti escludevano, pertanto, l’operatività dell’art. 936 c.c. per non essere l’attore/appellante soggetto terzo rispetto al bene oggetto di intervento.
L’istituto dell’accessione prevede, infatti, che in caso di opere fatte da un terzo con materiali propri, questi possa richiedere al proprietario del fondo il valore dei materiali e manodopera, oppure l’aumento di valore recato al fondo. È consolidato l’orientamento della Cassazione in forza del quale le norme sull’accessione retrocedono a favore di quelle sulla comunione in caso di interventi realizzati dal condomino sulla cosa comune, posto che è escluso, in questi casi, che il comproprietario del fondo – proprio perché soggetto non estraneo al fondo medesimo – possa richiedere l’indennizzo di cui all’art. 936 c.c.
Nel caso in esame, inoltre, non solo il ricorrente è condomino dello stabile – condizione che di per sé esclude in capo al medesimo la qualità di terzo rispetto al bene oggetto di intervento essendone al contrario, comproprietario – ma bensì anche titolare di un contratto di affitto stipulato con l’originario proprietario, in forza del quale il condomino si era obbligato a costruire sul terreno due piscine ovvero di un impianto per lo svolgimento di qualsiasi attività sportiva sul terreno con costi a carico dell’affittuario.
La Corte, pertanto, rigettava il ricorso per essere il ricorrente privo della qualità di terzo rispetto al bene sul quale aveva costruito l’impianto sotto il duplice profilo sia dello status di condomino sia di parte del contratto di affitto: circostanze che rendono inapplicabili le norme sull’accessione così come invece invocate dal condomino ricorrente.
Gli svaligiano l’alloggio
e lo chiudono in bagno
In provincia di Lucca, un uomo, dopo essere rientrato a tarda sera nella propria abitazione, ha scoperto due ladri che vi avevano fatto irruzione per svaligiarla. I due malviventi, dopo avergli strappato l’orologio dal polso, lo hanno rinchiuso nel bagno. Poi sono scappati portando via anche due vassoi d’argento e un cellulare. Riuscito a liberarsi, il malcapitato padrone di casa ha subito avvertito i carabinieri, ma i banditi avevano già fatto perdere le proprie tracce.
Chiama i carabinieri,
ma ha droga in casa
Aveva chiamato i Carabinieri per denunciare un furto in casa. I militari, una volta arrivati nell’appartamento per fare il sopralluogo, sono stati incuriositi da un forte odore di erba. A quel punto, è cominciato un controllo approfondito dell’abitazione che ha permesso di trovare e sequestrare 4 piantine di marijuana più 15 rami in essiccazione dal peso complessivo di 20 grammi e 6,2 grammi di hashish, suddivisi in dosi pronte per lo spaccio. Così l’uomo, un agente assicuratore 40enne residente in provincia di Rimini, è stato arrestato.
Incendio nell’alloggio
A morire è un cane
I fumi dell’incendio sono stati fatali e per lui non c’è stato nulla da fare. È il caso della morte per asfissia di un cagnolino, che ha perso la vita a causa di un rogo divampato al primo piano di un appartamento sito nel quartiere napoletano di Posillipo. Il cane si trovava proprio nella stanza in cui è scattata la scintilla che ha generato le fiamme. Intervenuti per sedare le fiamme, i vigili del fuoco hanno dichiarato inagibili due camere: quella interessata dall’incendio e quella di un appartamento al piano superiore.
Anziani rapinati in casa
È caccia alla banda
Le forze dell’ordine sono sulle tracce di una banda di malviventi che ha terrorizzato una coppia di anziani in provincia di Cuneo. Quattro rapinatori hanno fatto irruzione nella casa dei coniugi, hanno li hanno malmenati e si sono fatti consegnare oggetti in oro e contanti. Soltanto dopo la fuga dei banditi gli anziani sono riusciti a dare l’allarme e poi sono stati trasportati in ospedale.
Animali abbandonati in casa
Proprietaria denunciata
Maltrattamenti nei confronti degli animali (tre cani e quattro gatti) che teneva in casa. È questa l’accusa della quale dovrà rispondere una donna di 58 anni, residente in provincia di Perugia. I carabinieri, entrati nell’alloggio della donna insieme a tecnici dell’Asl, vigili del fuoco e polizia municipale, si sono trovati di fronte a condizioni igieniche definite disastrose. Pare infatti che la proprietaria di casa fosse da giorni lontana dalla cittadina umbra, e che avesse abbandonando a se stessi i cani e i gatti. Gli animali sono stati affidati a strutture idonee. La donna è stata denunciata.
[A cura di: avv.Nunzio Costa – pres. Acap]
Spesso ci concentriamo sulle classiche responsabilità dell’amministratore: la tenuta dei conti, dei registri e la trasparenza nella contabilità, dimenticando le ipotesi più gravi, ossia quelle che possono portare alla sua revoca, ovvero anche a qualcosa d’altro. Mi riferisco a quelle ipotesi di revoca, non tassative, ma ormai codificate, che il legislatore ha voluto inserire nel codice a titolo esemplificativo e non esaustivo.
Tuttavia quelle ipotesi recate dall’art. 1129 c.c. altro non sono che la codificazione di un processo di stratificazione giuridica durata circa 70 anni. Orbene nella inerzia del Legislatore, incapace di modificare gli istituti giuridici all’evoluzione sociale, la Giurisprudenza ha interpretato le leggi esistenti, tentando di adeguarli alle mutate realtà sociali. Sicché nel 2012, quando si è trattato di infilare la tanto agognata riforma tra una legislatura in declino ed una nuova appena nascente, i tecnici della produzione normativa hanno fatto l’unica cosa plausibile: hanno raccolto nella novella tutti i principi giurisprudenziali pacifici ed ormai sedimentati ed acquisiti.
Questa scelta reca sensibili conseguenze, prima delle quali la immodificabilità delle cause di revoca. Ai sensi dell’art. 101 della Costituzione, il giudice è soggetto soltanto alle legge. È una norma di garanzia a tutela della indipendenza della Magistratura e significa che alcun potere dello Stato può gerarchicamente sovrapporsi al singolo magistrato che in quel momento sta affrontando il caso che gli è stato sottoposto. Nemmeno lo stesso capo dell’ufficio giudiziario in cui lavora. Ma è anche una norma a tutela del cittadino, che ha diritto a vedere trattato il suo caso secondo le norme esistenti al tempo del giudizio, con l’impossibilità da parte del magistrato di riferirsi a principi ed argomentazioni equitative o diverse dalla legge applicabile.
Quindi, prima della riforma potevamo portare alla attenzione del magistrato un caso di revoca e far decidere allo stesso se l’amministratore avesse o meno commesso quelle gravi irregolarità paventate dal Legislatore. Questi avrebbe deciso in base al concetto di gravità espresso dal comune sentire ed alle interpretazioni giurisprudenziali nel frattempo stratificate. In ogni caso, trattandosi di un Paese, il nostro, in cui la singola sentenza vale solo tra le parti che la hanno stimolata, le sentenze stesse non sono mai obbligatorie per il magistrato decidente, che nel caso di specie potrebbe ritenere quella “grave irregolarità, non tanto grave” perché, per esempio, l’amministratore nelle more ha sanato la situazione, ovvero non si trova più in condizione di irregolarità.
Ebbene, se dobbiamo prendere quanto c’è di buono dalla Riforma, questa è una cosa dalla quale attingere a piene mani. L’avere codificato le ipotesi di grave irregolarità significa avere oggettivizzato la causa di revoca e la conseguente responsabilità dell’amministratore: il giudice non avrà più la possibilità di valutare il grado di colpa dell’amministratore, né il grado di sanzione e quindi la sua responsabilità. Dovrà semplicemente applicare la legge, verificare se il comportamento tenuto rientra tra quelli codificati, se è stato realmente commesso e, se la risposta è in entrambi i casi positiva, dovrà applicare necessariamente la sanzione legalmente prevista, anche nell’ipotesi, probabile, in cui l’amministratore, in corso di giudizio, abbia tentato di mitigare la sua colpa con un intervento urgente.
Per rendere chiaro il concetto facciamo un esempio: condominio in condizioni di sicurezza precaria. Il condomino chiede conto all’amministratore e chiede la convocazione di una assemblea. In ogni caso l’amministratore si dimostra inerte. Il condomino aziona la revoca. A questo punto l’amministratore tenta di riparare alla sua colpa ed ordina un intervento urgente postumo alla notifica, di ripristino delle condizioni di sicurezza. Al momento della discussione innanzi al Collegio la situazione è modificata e ripristinata. Orbene tale atteggiamento tenuto dall’amministratore non fa altro che confermare l’esistenza della causa di responsabilità che ha determinato la richiesta di revoca e quindi l’applicazione della sanzione unica possibile.
Altra conseguenza derivante dalla codificazione di alcune ipotesi di revoca è la valorizzazione delle situazioni di grave irregolarità, con la conseguente ineluttabilità nella applicazione della sanzione: il giudice dovrà sempre e solo verificare se si sia verificata una delle ipotesi previste, anche se tale ipotesi si sia avverata nelle more del giudizio di revoca, ovvero nelle more siano emersi nuovi profili di irregolarità.
Ancora una volta, l’esempio aiuta nella comprensione: Il condomino chiede la documentazione contabile e non la ottiene; non potendo rilevare nulla opta per altri e diversi motivi di revoca. Nelle more del giudizio emerge che l’amministratore ha effettuato pagamenti senza usare il conto corrente specifico del condominio, ma effettuando il pagamento con bonifico per contanti presso la banca dell’appaltatore. Ebbene tale ipotesi contravviene il 1129 comma 7, secondo cui: “L’amministratore è obbligato a far transitare le somme ricevute a qualunque titolo dai condomini o da terzi, nonché quelle a qualsiasi titolo erogate per conto del condominio, su uno specifico conto corrente, postale o bancario, intestato al condominio”. Tuttavia si tratta di una causa di revoca che il condomino non aveva portato alla attenzione del magistrato. Ebbene, il codice ha valorizzato le cause di revoca, indicando anche un procedimento molto snello, ossia quello del ricorso al Collegio, privo di eccessive formalità, dimostrando di porre maggiore attenzione alla sussistenza della grave irregolarità piuttosto che al principio della domanda. Pertanto, se nel corso del giudizio, si ravvisassero nuove e diverse cause di irregolarità e le stesse venissero contestate all’amministratore, il giudice dovrebbe comunque valutarle e l’amministratore non potrebbe sottrarsi al contraddittorio.
[A cura di: Annalisa Lo Parco (FiscoOggi) – Agenzia delle Entrate]
In tema di agevolazioni fiscali previste dall’articolo 5 della legge 168/1982, i benefici in favore dell’acquirente dell’immobile inserito in un piano di recupero di iniziativa pubblica o privata convenzionato possono essere conservati, a condizione che il contribuente realizzi i lavori entro il termine triennale di decadenza previsto per l’esercizio del potere di accertamento dell’ufficio.
Di conseguenza, detto termine decadenziale entro il quale può essere emesso l’avviso di liquidazione in rettifica, inizia a decorre, al massimo, dalla scadenza del triennio dalla registrazione dell’atto.
Questo il principio di diritto desumibile dall’ordinanza della Cassazione n. 3152 del 17 febbraio 2015.
Nella decisione, peraltro, viene precisato il concetto di “forza maggiore”, intesa come “un’energia esterna, idonea a costituire impedimento forzoso della condotta imposta dalla legge”.
I FATTI DI CAUSA
La vicenda trae origine da un avviso di liquidazione per imposte di registro, ipotecarie e catastali conseguente alla revoca dell’agevolazione ex articolo 5 della legge 168/1982, relativamente a un immobile dichiarato soggetto a piano di recupero. L’ufficio aveva riscontrato che, nonostante fossero decorsi tre anni dalla data di acquisto, la società non aveva effettuato i lavori di recupero immobiliare.
La parte impugnava l’avviso con ricorso accolto dalla Ct di I grado di Bolzano.
In II grado, la Commissione tributaria respingeva l’appello dell’ufficio, evidenziando che le ragioni dedotte dal contribuente apparivano valide sia in considerazione del fatto che il ritardo nell’esecuzione dei lavori appariva pienamente giustificato sia perché il termine decadenziale previsto dall’articolo 76, comma 2, del Dpr 131/1986, presupposto dell’avviso di liquidazione in rettifica emesso dall’Amministrazione finanziaria, non poteva estendersi anche al contribuente ai fini dell’integrazione della sua decadenza dal diritto, dovendosi invece applicare al caso l’ordinario termine decennale di prescrizione, ai sensi dell’articolo 2946 del codice civile.
Contro quest’ultima pronuncia l’Agenzia delle Entrate proponeva ricorso per cassazione.
IL GIUDIZIO DELLA CASSAZIONE
Fra i motivi di doglianza, l’ufficio denunciava la violazione o falsa applicazione dell’articolo 5 della legge 168/1982 e dell’articolo 76 del Dpr 131/1986, per avere il giudice di merito ritenuto non applicabile, nella specie, il termine di decadenza fissato dall’articolo 76, ma l’articolo 2946 cc, dettato in materia di prescrizione, nonché il vizio di motivazione della sentenza nella parte in cui la Ctr aveva attribuito il carattere di “forza maggiore” alla circostanza che l’attuazione del progetto di recupero va sottoposto al vaglio della Pubblica amministrazione.
I giudici di legittimità, decidendo in camera di consiglio per manifesta fondatezza del ricorso, hanno cassato la sentenza di secondo grado, chiarendo che le agevolazioni tributarie previste dall’articolo 5 della legge 168/1982, in favore dell’acquirente dell’immobile inserito in un piano di recupero di iniziativa pubblica o privata convenzionato, possono essere conservate a condizione che il contribuente realizzi i lavori di restauro entro il termine triennale di decadenza previsto per l’esercizio del potere di accertamento dell’ufficio. “Di conseguenza, deve ritenersi che il detto termine decadenziale dall’azione dell’Ufficio inizi a decorrere dal momento in cui l’intento del contribuente sia rimasto definitivamente ineseguito e quindi – giacché il termine a disposizione del contribuente non potrà essere più ampio di quello in sé previsto per i controlli – al massimo dalla scadenza del triennio dalla registrazione dell’atto (Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 13703 del 30/05/2013)”.
La Corte suprema ha, inoltre, precisato che i giudici di merito, nel richiamare genericamente la prova fornita dalla parte di “essersi data da fare dall’inizio e senza soluzione di continuità… per raggiungere lo scopo prefisso”, non solo non hanno identificato correttamente il concetto di “causa di forza maggiore” idonea a giustificare la deroga al termine decadenziale di legge, ma non hanno idoneamente argomentato in ordine alle fonti di prova che hanno determinato il proprio convincimento.
OSSERVAZIONI
Ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro e di quelle ipotecarie e catastali in misura fissa, ai sensi dell’articolo 5 della legge 168/1982, è richiesto che, al momento della registrazione, sia dichiarata l’esistenza di due requisiti: uno oggettivo, che consiste nell’inserimento degli immobili nei piani di recupero; uno soggettivo, che consiste nella circostanza che l’acquirente sia uno dei soggetti che attuano il recupero.
La richiesta di agevolazioni, qualora non effettuata nell’atto di acquisto, può essere formulata anche successivamente con un atto integrativo redatto nella stessa forma dell’atto precedente (cfr risoluzione 110/2006). La norma di favore non prevede un termine entro il quale attuare il recupero. Ciò ha generato un contrasto giurisprudenziale.
Una parte minoritaria della giurisprudenza, muovendo dal tenore letterale dell’articolo 5, ha sottolineato come detta disposizione non preveda alcun termine di decadenza per il caso di mancato recupero dell’immobile ed è, quindi, sprovvista di sanzione (Cassazione, sentenza 8480/2009).
Secondo l’orientamento prevalente, invece, la norma, subordinando l’agevolazione fiscale all’esistenza del duplice requisito oggettivo e soggettivo, comporta che il beneficio spetti soltanto quando si realizzano tutti gli elementi che integrano la fattispecie normativa e che l’agevolazione sia correlata all’effettiva attuazione del piano di recupero previsto all’atto del trasferimento dell’immobile (Cassazione, sentenze 11786/2008, 13703/2013).
In particolare, secondo quest’ultima tesi, avallata dall’ordinanza in esame, il contribuente, a pena di decadenza, deve realizzare l’intento dichiarato nell’atto di trasferimento entro il termine triennale previsto per l’esercizio del potere di accertamento dell’ufficio (ex articolo76 del Dpr 131/1986).
In altri termini, il beneficio fiscale richiesto dal contribuente è solo provvisoriamente concesso dalla legge al momento della registrazione dell’atto di trasferimento. Successivamente alla registrazione, la sussistenza dei citati requisiti deve essere accertata dall’ufficio, configurandosi la differenza d’imposta eventualmente recuperata come una specie di imposta complementare (ex articolo 42 del Dpr 131/1986), mentre l’attuazione effettiva del recupero da parte del soggetto che si impegna in tal senso costituisce un evento futuro rispetto alla registrazione.
Ne discende che, ai sensi dell’articolo 2697 del codice civile, è onere del contribuente dimostrare, in seguito alla contestazione dell’ufficio, i fatti che palesino il raggiungimento dello scopo, ovverosia la effettiva realizzazione dell’intento dichiarato nell’atto, perché tale intento rappresenta un elemento costitutivo per il conseguimento del beneficio fiscale richiesto.
Il contribuente che non abbia attuato il recupero entro il predetto termine non perde, tuttavia, il diritto ai benefici, qualora provi che il superamento del termine non è dipeso da fatti a lui imputabili.
Sulla questione, però, la giurisprudenza di legittimità non è unanime.
Secondo un primo orientamento, il contribuente non perde i benefici fiscali nell’ipotesi in cui il superamento del termine è imputabile agli uffici competenti nel rilascio della necessaria documentazione amministrativa, gravando in tal caso sulla parte l’ulteriore onere probatorio di aver operato con adeguata diligenza e tempestività allo scopo di conseguire la certificazione in tempo utile (cfr Cassazione, sentenza 20259/2010).
Nella ordinanza in esame, invece, la Corte suprema ha ribaltato l’orientamento, ritenendo che la causa di forza maggiore idonea a superare il termine decadenziale di legge “non può riposare in una semplice mancanza di negligenza, ma deve invece consistere in un’energia esterna, idonea a costituire impedimento forzoso della condotta imposta dalla legge”.
Strozzata con cavo elettrico
Marito arrestato
In provincia di Vasto, un uomo di 57 anni è stato arrestato per la morte della compagna di 53 anni, per averla strangolata con un cavo elettrico in un appartamento sito in un centro residenziale dove i due abitavano insieme da tempo. Secondo gli investigatori, si tratterebbe di un omicidio passionale. Dopo il fatto, l’uomo ha cercato aiuto tra i vicini che hanno chiamato il 118 e la polizia, ma la donna era ormai morta.
Colto da infarto in casa
E il cane lo azzanna
Scena macabra quella che si sono trovati di fronte i vigili del fuoco e i sanitari del 118 accorsi in un appartamento di Genova: un uomo di 41 anni, sofferente di cuore da tempo, era deceduto nella sua abitazione per via di un malore. E il cane che abitava con lui, spinto probabilmente dalla fame, ha preso a morsi il corpo esanime dell’uomo da ben quattro giorni. A chiamare i soccorritori, il padre dell’uomo, che non sentiva il figlio ormai da giorni. All’arrivo di medici e pompieri, la tragica scoperta.
64 enne morta in casa
Trovata nella doccia
Una donna di 64 anni è stata trovata deceduta nel suo appartamento a Brescia. Dai primi accertamenti risulterebbe morta per cause naturali. Da giorni i vicini di casa non avevano più sue notizie; l’ultima persona a vederla era stata il barista, il quale insospettito, ha deciso di chiamare i vigili del fuoco e i carabinieri: la 64enne, infatti, non rispondeva più al telefono. Il corpo senza vita della donna è stato trovato nella doccia. La causa del decesso sarà stabilita dall’autopsia.
“Ho ferito mia moglie”,
anziano si costituisce
In provincia di Novara, una lite casalinga si è trasformata in tragedia: una donna di 81 anni è stata accoltellata dal marito, di due anni più vecchio, ed è ricoverata in gravissime condizioni all’ospedale. L’uomo ha colpito la donna al collo ed al torace. Poi ha chiamato i soccorsi e le forze dell’ordine, e si è costituito.
Spara col fucile ai ladri
Ferisce la vicina di casa
In provincia di Alessandria una donna è stata ferita al volto da alcuni colpi di fucile a pallini sparati dal vicino di casa, il quale aveva sorpreso i ladri nella sua villa. L’uomo, che detiene regolarmente il porto d’armi, era in paese con la moglie ed è rientrato subito a casa quando sul cellulare è comparso il messaggio che era scattato l’allarme. Quindi, ha imbracciato il fucile e ha fatto fuoco verso i ladri, in fuga su un’auto, ma ha colpito la donna, uscita in strada a vedere quanto stava accadendo. La vicina, per fortuna, guarirà in pochi giorni.
Gli svaligiano l’alloggio
e lo chiudono in bagno
In provincia di Lucca, un uomo, dopo essere rientrato a tarda sera nella propria abitazione, ha scoperto due ladri che avevano fatto irruzione per svaligiare l’alloggio. I due malviventi, dopo avergli strappato l’orologio dal polso, lo hanno rinchiuso nel bagno. Poi sono scappati portando via anche due vassoi d’argento e un cellulare. Riuscito a liberarsi, il malcapitato padrone di casa ha subito avvertito i carabinieri, ma i banditi avevano già fatto perdere le proprie tracce.
[A cura di: Paolo Ciri – delegato Uppi Spoleto]
L’argomento della cauzione merita di essere riesaminato, alla luce della recente sentenza della Cassazione (3882 del 25/2/2015), la quale, per altro, conferma un orientamento già noto.
Andiamo per ordine. Per deposito cauzionale intendiamo quella somma che l’inquilino può consegnare al proprietario all’atto della firma del contratto di locazione o affitto. Spesso è chiamato anche “deposito”, “cauzione” o, impropriamente, “caparra”.
Vediamone anche la funzione giuridica, la quale si può ricavare da una costante giurisprudenza della suprema corte (Cassazione 9442/2010, 14655/2002, 4725/1989):“La funzione del deposito cauzionale è quella di garantire il proprietario del corretto adempimento di tutte le obbligazioni, legali e convenzionali, assunte dal e gravanti sul conduttore”.
Di solito il deposito è un multiplo del canone, ma ciò non è assolutamente necessario, può essere una cifra liberamente determinata, nei limiti sotto illustrati.
Il proprietario può non richiederlo, ma se lo pretende non può averlo in misura superiore al triplo del canone. Ciò è stabilito dall’art 11 della Legge 392/78, sopravvissuto alle abrogazioni della legge 431/98. L’inquilino che eventualmente abbia versato un deposito di misura superiore potrà richiedere indietro la differenza in qualunque momento.
È da ricordare che al termine della locazione, al momento della restituzione dell’immobile (delle chiavi), il deposito cauzionale va restituito. Può essere trattenuto se ci sono danni o insoluti, ma solo in presenza di precise condizioni: consenso dell’inquilino, citazione giudiziale per danni o debiti, specifiche ed apposite clausole in contratto. In mancanza ci si trova di fronte ad un credito liquido ed esigibile (da parte dell’inquilino) e ad un credito da accertare (da parte del proprietario) per cui essendo di genere diverso non possono essere compensati. Vedasi l’art. 1243 C.C. o la Cassazione Civile 4725/1989 o, appunto, la recente 3882/2015.
In tema di danni, incidentalmente, ricordiamo che il proprietario è tenuto a tollerare il normale degrado d’uso ( art. 1590 Codice Civile: “il deterioramento o il consumo risultante dall’uso della cosa in conformità del contratto”). Inoltre è interessantissimo e molto logico il concetto introdotto dalla sentenza di Cassazione 6417/1998: se ci sono dei danni (oltre il 1590 C.C.), il conduttore non deve risarcire solo il costo del ripristino, ma anche il valore del canone di locazione per tutto il periodo necessario ad effettuare i lavori. E ciò senza che il proprietario debba provare di aver ricevuto richieste di locazione e di non averle potuto accettare per la indisponibilità dovuta ai lavori.
Non è possibile trattenere il deposito cauzionale senza corrispondere gli interessi, come spesso si legge nei contratti. Se si inserisce nel contratto questa banale ma illegale furbizia, la clausola si ha per non apposta. Lo stabilisce il sopra citato articolo 11 e lo conferma la Cassazione 979/1995. Peraltro gli interessi da pagare all’inquilino (che è il titolare di quella somma) vanno calcolati al saggio legale. Attualmente lo 0,5 % all’anno. Comunque gli interessi sono dovuti anche se non richiesti.
La legge prevede, poi, che gli interessi legali siano versati all’inquilino ogni anno, eliminando così alla base il problema dell’anatocismo. Ma nella pratica non lo fa praticamente nessuno. Anzi, sono pochi i proprietari che riconoscono gli interessi a fine locazione, limitandosi la maggior parte di loro a restituire quanto avuto.
Normalmente il deposito cauzionale viene versato al momento della firma. A volte, però, l’inquilino ottiene di versarlo in un momento successivo, o in più rate. Però se poi non lo fa sorge un credito in capo al locatore, ma il contratto resta valido: non può per questo essere sciolto per inadempimento (Tribunale Civile di Brescia, sez. III, 17 febbraio 1992).
Infine, chi compra un immobile affittato o locato assume ope legis tutti i diritti ed i doveri previsti nel contratto, compreso quello della restituzione del deposito. Per cui alla fine della locazione dovrà dare all’inquilino uscente la somma risultante come deposito dal contratto e, se non già pagati anno per anno, tutti gli interessi. E ciò anche qualora il venditore non abbia consegnato all’acquirente il deposito ricevuto. Per cui, in caso di acquisto di immobile locato o affittato, occorre farsi consegnare il contratto, leggerlo e farsi versare la cauzione che il venditore detiene. Ovviamente poi occorre provvedere alla voltura presso la Agenzia delle Entrate.
Oltre al deposito cauzionale di somma liquida, vi possono essere altre forme di garanzia: le fideiussioni bancarie, le polizze assicurative, la garanzia del terzo. Senza scendere nel merito del valore giuridico di taluni contratti di questo tipo o nel costo commerciale a volte richiesto, è però il caso di ricordare che in questi casi, se non si è in opzione cedolare, si paga una apposita imposta di registro, che non è lieve: è lo 0,50% del monte canoni del primo periodo. Per esempio, un contratto libero in opzione ordinaria da 500 euro al mese ha una base imponibile di 500 x 48 = 24.000 euro e quindi una imposta, aggiuntiva a quella di registro, di 120 euro.
Infine, va censurato l’uso ormai invalso tra molti inquilini di non pagare le ultime mensilità, in quanto sono “coperte” dalla cauzione. L’abuso si fonda sulla impossibilità tecnica di ottenere giudizialmente il pagamento delle mensilità insolute prima della conclusione del rapporto locatizio, ormai al termine, in queste fattispecie. Contro questa modalità c’è ben poco da fare. Tanto che alcuni proprietari rinunciano ad esigere il deposito, ritenendo che poi comunque verrà vanificato da questo abuso.
[A cura di: Andrea Cartosio – Ist. naz. Tributaristi]
Questa quarta ed ultima guida fiscale di Quotidianodelcondominio.it è mirata a presentare il panorama dei contratti di locazione, al fine di istruire il futuro locatore e guidarlo nella scelta contrattuale.
Il contratto di locazione è la scrittura nella quale il proprietario dell’immobile (di seguito denominato locatore) si impegna a concedere in godimento lo stesso ad un altro soggetto che intende usufruire dell’unità abitativa (di seguito denominato conduttore), il quale dovrà attenersi ad obblighi stabiliti dal contratto di affitto e, qualora l’immobile faccia parte di un complesso condominiale, conformarsi alle regole imposte dal regolamento di condominio. Il Codice Civile regola la locazione degli immobili ma concede forma libera nella sua stipula, cioè non richiede una forma contrattuale specifica e tipica.
I contratti di locazione
Come detto in precedenza, il contratto di locazione è la scrittura che sancisce l’accordo tra le parti, pertanto ogni contratto d’affitto può essere differente in considerazione della durata o della somma spettante a titolo di locazione corrisposta dal conduttore. I contratti di seguito elencati, maggiormente utilizzati in materia locativa, verranno analizzati nelle parti fondamentali che li caratterizzano:
* canone libero, ossia il 4+4 nell’abitativo, 6+6 nel commerciale e 9+9 nell’alberghiero;
* canone concordato, con durata di 3+2 anni;
* locazione ad uso transitorio concessa per un periodo breve da 1 a 18 mesi;
* contratti di tipo promiscuo.
Premesso ciò, benché i contratti appena elencati differiscano tra loro nella durata e applicabilità, in tutti devono necessariamente essere iscritti determinati dati:
* indicazioni anagrafiche dei locatore/i o conduttore/i allegando al suddetto, in fase di registrazione, copia cartacea dei documenti inseriti;
* identificativi catastali dell’unità abitativa oggetto del contratto;
* l’importo del canone richiesto dal locatore, sul quale verranno versate le imposte, sia in cifre che in lettere: inoltre, qualora venga inserito in contratto il rimborso delle spese di amministrazione, le due somme percepite dal locatore dovranno essere specificate onde evitare finiscano in conto canoni e dunque soggette ad imposta;
* l’ammontare del deposito cauzionale che verrà versato dal conduttore al momento della stipula del contratto a fronte di eventuali danni che potrà subire il locatore nel periodo di locazione, da restituirsi qualora non sorgano problematiche al momento della rescissione della locazione maggiorata degli interessi legali. Ancora, dovranno essere stabiliti i termini di rescissione anticipata da parte del conduttore ed i termini di legge perché possa fare lo stesso il locatore;
* iscrizione in contratto dell’Ape (attestato di prestazione energetica), deve essere obbligatoriamente redatto da un professionista abilitato prima della stipula dell’accordo tra le parti. Qualora tale documentazione non fosse presente al momento della firma dello stesso, il locatore e il conduttore sono soggetti entrambe ad una sanzione amministrativa, fermo restando l’obbligo di ottemperare alla stesura dell’Ape entro 45 giorni.
Il canone libero
Questa tipologia di contratto è quella maggiormente utilizzata. La durata varia a seconda dell’immobile locato: qualora fosse a destinazione abitativa, la locazione sarà concessa per quattro anni rinnovabili per gli stessi successivi.
Il contratto di locazione deve avere forma scritta a pena di nullità, contenere tutte le clausole sopra riportate e dovrà essere registrato presso l’Agenzia delle Entrate entro 30 giorni dalla stipula. Tale tipologia di contratto non può essere applicata nei suddetti casi:
* immobili accatastati come A/1, A/8, A/9, per i quali farà fede la disciplina prevista per legge dal codice civile;
* gli alloggi di edilizia popolare pubblica;
* unità non abitative quali garage, cantine, magazzini ecc.;
Nella fattispecie contrattuale, la prima scadenza viene indicata al termine dei primi quattro anni; ciò non manleva le parti, qualora il contratto non fosse in regime di cedolare secca, ad adempiere al pagamento delle imposte annuali (a patto che non venga scelto al momento della stipula di corrisponderle per l’intera durata) presentando il modello RLI con la specifica dell’annualità successiva. Successivamente, al termine dei primi quattro anni, il contratto si rinnova automaticamente per i successivi quattro; in tal caso il locatore dovrà presentare una proroga all’Agenzia delle Entrate attraverso il modello RLI entro il trentesimo giorno dalla scadenza.
Viene concesso dalla legislazione il diritto a recedere dal contratto di locazione sia al locatore, che dovrà rispettare i termini stabiliti dalla giurisprudenza, che al conduttore il quale potrà svincolarsi dal vincolo contrattuale con le metodologie presenti nel suddetto accordo.
Il canone concordato
I contratti di locazione a canone concordato vengono applicati nei Comuni annoverati tra quelli ad alta densità abitativa. La particolarità di questa forma, oltre che nella durata, (3 anni + 2), è nella pattuizione del canone di affitto, poiché esso dovrà rientrare negli accordi territoriali locali stipulati tra il Comune e le associazioni di categoria. Questa tipologia di contratto gode di sconti impositivi per il locatore a fronte del “mancato realizzo” inteso come affitto percepito dovendo sottostare a cifre imposte.
L’uso transitorio
La presente tipologia viene utilizzata quando l’elemento cardine del presente accordo tra le parti è la brevità della locazione. Difatti viene concessa una durata da 1 mese a massimo 18 mesi non rinnovabile; tale transitorietà dell’accordo tra le parti dovrà essere specificata all’interno del contratto. Qualora l’esigenza di locare l’immobile eccedesse i 18 mesi, si dovrà riformulare un nuovo contratto o a canone libero o concordato. Viene espressamente negata dalla legge la possibilità di rinnovo oltre i 18 mesi, pertanto non vi è la necessita delle parti di dare disdetta al termine della locazione poiché il contratto decade automaticamente.
Studenti universitari
Il suddetto contratto viene annoverato tra le particolarità dei contratti di locazione ad uso transitorio, poiché l’immobile locato viene concesso in uso a studenti universitari fuori sede, per un periodo limitato di tempo identificato tra i tre e i trentasei mesi.
L’uso promiscuo
Il contratto di affitto può avere natura promiscua quando l’unità immobiliare locata abbia destinazione diversa in parte dall’abitativo, venga concessa anche per uso ufficio, laboratorio. Tale forma ne detterà anche la durata, poiché l’attività prevalente farà ricadere il contratto in una formula in prevalenza abitativa o commerciale.
La cedolare secca
La cedolare secca è un regime di tassazione opzionale che consente al locatore di applicare al reddito percepito da locazione un’imposta sostitutiva alternativa alla tassazione ordinaria IRPEF, concedendo un ulteriore annullamento dell’imposta di registro e dell’imposta di bollo. Pertanto il reddito percepito da locazione non verrà inglobato nel reddito complessivo del locatore. Tengo a precisare che su tale somma non possono essere applicati oneri deducibili o detrazioni ma il reddito percepito farà comunque cumulo per quanto riguarda benefici fiscali, deduzioni o detrazioni in riferimento ai requisiti reddituali come la detrazione per figli a carico o nella formazione dell’ISEE. La cedolare può essere applicata a contratti già in essere oppure di nuova stesura; una volta aderito all’opzione, essa verrà assimilata alla durata contrattuale con possibilità di rescissione, da comunicarsi all’inquilino a mezzo raccomandata A/R, alla scadenza di ogni singolo anno di contratto.
L’aliquota della cedolare secca è:
* 21%, nel caso di contratto libero;
* 10%, nel caso di contratto concordato.
L’applicazione di tale regime consiste in uno sgravio di imposte per il locatore, ma allo stesso tempo anche il conduttore beneficia di tale scelta poiché il proprietario dell’unità abitativa non potrà aggiornare il canone finché tale opzione risulta in essere ed effettuare gli adeguamenti ISTAT; esso dovrà essere informato di tale adesione al suddetto regime fiscale da parte del locatore a mezzo raccomandata o con iscrizione di apposita clausola nel contratto di locazione, pena la validità dell’opzione cedolare secca.
Tutti i locatori privati possono applicare tale regime. Sono escluse dalla possibilità di opzione: le società di persone (incluse le società semplici), le società di capitali, gli enti commerciali, gli enti non commerciali. L’opzione cedolare secca dovrà essere comunicata in fase di registrazione del contratto all’Agenzia delle Entrate attraverso il modello RLI
L’uso commerciale
Per concludere, ritengo opportuno analizzare la forma di contratto d’affitto di natura commerciale, poiché presenta caratteristiche differenti dalle tipologie fino ad ora analizzate.
Tale tipologia di locazione fa riferimento alla Legge n. 392 del 1978 a correlazione degli articoli dedicati nel Codice Civile art. 1572 e 2643. La locazione di natura commerciale ha durata minima di sei anni rinnovabile per i successivi sei, mentre presenta una durata di nove anni qualora abbia come oggetto una struttura teatrale o alberghiera. Analogamente ai contratti ad uso abitativo, al termine della prima scadenza, qualora il locatore e il conduttore non comunichino espresso diniego nel proseguire la locazione, si intende rinnovata automaticamente per i successivi anni previsti dalla legislazione. Al contratto potrà essere applicato un aggiornamento ISTAT massimo nella misura del 75%, mentre risulta inapplicabile l’opzione cedolare secca.
Talvolta può accadere che il conduttore decida di recedere dal contratto d’affitto; ciò è possibile in caso di gravi motivi. La giurisprudenza risulta lacunosa nella loro determinazione, pertanto una sentenza della Corte di Cassazione nel 2012 ha cercato di chiarire la dicitura appena riportata, indicando quali gravi motivazioni la riduzione del fatturato che non permette di adempiere all’obbligazione, oppure il caso in cui il locale non risulti più idoneo per lo svolgimento dell’attività. Il locatore anch’esso analogamente al conduttore, potrà recedere dal contratto di affitto alla prima scadenza (6 anni attività commerciale, 9 anni attività teatrale/alberghiera) nel caso che abbia necessità per sé o per la propria famiglia dell’immobile oggetto di locazione, oppure qualora debba adibirlo come locale a servizio della propria attività.
La comunicazione necessaria per la risoluzione del contratto dovrà essere inviata al conduttore con raccomandata A/R con 12 mesi di preavviso nel commerciale 18 mesi in caso di locazione alberghiera/teatrale.
Separazione, assegnazione della casa coniugale e modalità di pagamento delle imposte sulla relativa proprietà. L’Agenzia delle Entrate torna su un argomento quanto mai d’attualità, data anche la proliferazione di divorzi e altre formule di separazione, e delega come sempre alla rubrica di quesiti pubblicata sulla sua rivista ufficiale “Nuovo FiscoOggi” e curata da Gianfranco Mingione, la risposta ad una domanda indirizzatale da una contribuente.
Nella fattispecie, la donna chiede: “Sono separata da mio marito e ho avuto in assegnazione una sua casa, dove vivo con le nostre figlie. Quali tasse e imposte sono tenuta a versare (con particolare riferimento a Irpef, Imu e Tasi)?
Ecco la risposta dell’Agenzia: “Il diritto del coniuge separato sulla casa già adibita a residenza familiare non configura un diritto reale di abitazione, assimilabile a quello del coniuge superstite (articolo 540 cc), bensì un mero diritto personale di godimento. Il reddito fondiario è pertanto conseguito dal coniuge proprietario, per quanto non assegnatario della casa. Al contrario, non deve dichiarare alcun reddito l’ex coniuge assegnatario, ma non proprietario. Ai fini Imu, invece, l’assegnatario ha la soggettività passiva, a prescindere dalla sua eventuale proprietà sull’immobile; comunque, la casa assegnata al coniuge a seguito di provvedimento del giudice di separazione legale è assimilata all’abitazione principale e beneficia dell’esenzione dal pagamento dell’imposta. Ai fini della Tasi, infine, è il coniuge assegnatario il soggetto tenuto a pagare il tributo, con l’aliquota e la detrazione eventualmente prevista per l’abitazione principale.