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DOVE SONO CONSERVATI GLI ATTI DI ROGITO? COME (E QUANTO COSTA) CONSULTARLI?

[A cura di: Confedilizia]


Gli atti che il notaio riceve vengono conservati nel suo studio fino a quando questi svolge la propria attività nel distretto notarile al quale è assegnato. Il distretto notarile è l’ambito territoriale entro il quale il notaio può esercitare le proprie funzioni: attualmente, i distretti sono 94 ed ognuno di essi comprende un determinato numero di sedi alle quali vengono assegnati i notai. Se il notaio è ancora in esercizio nello stesso distretto, pertanto, l’atto si trova ancora conservato presso il suo studio, e sarà quindi al medesimo notaio rogante che occorrerà indirizzare la richiesta di lettura dell’atto o di rilascio di una copia dello stesso. 

Si precisa che la richiesta in questione può essere effettuata da chiunque (quindi anche da terzi estranei all’atto) purché si diano indicazioni specifiche per la ricerca (es.: il nominativo di almeno una della parti) e trova il suo fondamento nell’art. 743 c.p.c. e nell’art. 67 della legge notarile (l. n. 89 del 1913). La prima di queste due norme prevede che “qualunque depositario pubblico, autorizzato a spedire copia degli atti che detiene, deve rilasciarne copia autentica, ancorché l’istante o i suoi autori non siano stati parte nell’atto, sotto pena dei danni e delle spese”. La seconda stabilisce, invece, che “il notaro, finché risiede nel distretto dello stesso Consiglio notarile, e continua nell’esercizio del notariato, ha egli solo il diritto di permettere l’ispezione e la lettura, di rilasciare le copie, gli estratti e i certificati degli atti da lui ricevuti, o presso di lui depositati” (il chiarimento è stato fornito dal Notariato che, in relazione a quest’ultima norma, ha anche precisato che l’espressione “diritto di permettere l’ispezione e la lettura” non è da intendersi come una semplice facoltà in tal senso da parte del notaio, ma come un vero e proprio obbligo. Lo stesso ha però anche tenuto a precisare che ove la richiesta che ci occupa non sia accompagnata da indicazioni specifiche – ad esempio, come detto, il nominativo di almeno una delle parti – ma sia generica, cioè, sia indirizzata, in ipotesi, a leggere tutti i rogiti stipulati nell’ultimo anno o a ricevere copia degli stessi con riguardo a tale periodo, allora detta richiesta il notaio non ha l’obbligo di accoglierla).

Quanto ai costi per il rilascio di una copia (autentica), questi variano a seconda del valore dichiarato in atto e della lunghezza dello stesso. In media, per un atto di lunghezza standard e del valore di 250mila euro, si paga attorno ai 30/40 euro. Per la semplice visione di un atto di compravendita la somma dovuta – secondo il tariffario di cui al d.m. 27.11.2001 – è, invece, di 7 euro (4 euro per la ricerca e 3 euro per la lettura). 

Venendo al caso, invece, del notaio che cessi definitivamente dall’esercizio, ovvero si trasferisca in una sede di altro distretto notarile, si osserva che gli atti, i repertori ed i registri conservati nello studio del notaio in questione debbono essere depositati nell’archivio notarile del distretto ove lo stesso esercitava. In tale ipotesi, quindi, gli interessati a visionare un atto di compravendita o a richiedere copia dello stesso devono rivolgersi a detto archivio. Si precisa che l’amministrazione degli archivi notarili costituisce un’unità organica incardinata nel Ministero della giustizia, con ordinamento e gestione finanziaria separati. 

Negli archivi notarili sono conservate anche le copie degli atti pubblici e delle scritture private autenticate e gli atti privati originali, trasmessi dagli uffici del registro decorsi dieci anni dalla registrazione. Per conoscere presso quale archivio notarile è stato depositato l’atto di interesse si può consultare ARCHINOTA. La copia di un atto depositato presso un archivio notarile può essere richiesta, oltreché recandosi presso la sede dell’archivio, anche per posta ordinaria, a mezzo fax e in via telematica. La richiesta tanto di visione di un rogito quanto di rilascio di una copia dello stesso può essere effettuata da chiunque (parti coinvolte nell’atto così come terzi estranei). I costi per il rilascio di una copia sono gli stessi di quelli che si hanno, di norma, rivolgendosi ad un notaio. Per la semplice lettura di un atto di compravendita, custodito presso l’archivio, il costo è, invece, di 10 euro.

RIFORMA DEL CONDOMINIO E REVOCA DELL’AMMINISTRATORE: CON E SENZA GIUSTA CAUSA

[A cura di: Silvio Rezzonico – presidente Confappi]


La revoca dell’amministratore è di due tipi: quella senza giusta causa e quella con giusta causa. La prima può avvenire interrompendo anche bruscamente l’incarico durante il suo corso, oppure alla fine del mandato (ma in questo ultimo caso più che di revoca sarebbe giusto parlare di mancata nomina). 


Revoca senza giusta causa 

La revoca senza giusta causa nel corso del mandato non ha bisogno di essere in alcun modo giustificata, ma ha un inconveniente: costa. Infatti, l’art. 1725 c.c. recita: “la revoca del mandato oneroso … obbliga il mandante a risarcire i danni, se fatta prima della scadenza del termine … salvo che ricorra a giusta causa”. Ovviamente, esiste un limite massimo per la somma prevista per il risarcimento del danno, cioè l’onorario non più riscosso dall’amministratore revocato. 

Se non è stabilito diversamente dal regolamento, le maggioranze per la revoca sono uguali a quelle previste per la nomina, e cioè metà più uno degli intervenuti in assemblea e almeno metà del valore dell’edificio. Poiché i quorum più bassi previsti dal regolamento sono applicabili solo alla revoca e non alla nomina, ci si trova di fronte all’assurdo che si possa validamente revocare un professionista senza però riuscire a nominare un altro professionista in sua sostituzione. Perciò il professionista revocato resterà comunque in carica finché non verrà qualcun altro al suo posto. 


Revoca con giusta causa 

La riforma ha riconfermato che l’amministratore può essere revocato anche per “gravi irregolarità”, dal giudice su ricorso anche di un solo condomino. Le novità sono due. La prima è che la revoca per giusta causa può essere fatta anche dall’assemblea. La seconda è che sono stati moltiplicati e soprattutto resi più chiari i motivi per cui scatta la “giusta causa”, mentre in precedenza i giudici avevano considerato efficaci solo quelli penalmente rilevanti. L’elenco fornito dal codice non esaurisce tutte le possibilità ma è esemplificativo. Infatti, la norma recita: “costituiscono tra le altre, gravi irregolarità …”. Eccole, comunque: 

– l’omessa convocazione dell’assemblea per approvare il rendiconto o il rifiuto ripetuto di convocarla per la nomina o la revoca dell’amministratore; 

– la non esecuzione delle delibere assembleari, dei provvedimenti del giudice o delle autorità amministrative; 

– la mancata apertura o uso di un conto corrente dedicato al singolo condominio; 

– la confusione nella gestione tra il patrimonio del condominio e quello personale dell’amministratore di altri palazzi o singoli condomini; 

– l’aver permesso la cancellazione delle formalità per un credito insoddisfatto, come un pignoramento o un’ipoteca, dai registri immobiliari; 

– la mancata cura delle azioni giudiziarie contro i morosi e delle conseguenti esecuzioni coattive; 

– la mancata tenuta del registro di anagrafe condominiale, del registro dei verbali delle assemblee, del registro di nomina e revoca dell’amministratore e di quello di contabilità; 

– non aver fornito al condomino che ne faccia richiesta la documentazione sul pagamento delle spese condominiali e su eventuali giudizi in corso; 

– l’omessa, incompleta o inesatta comunicazione dei dati dell’amministratore (anagrafici, professionali, fiscali), nonché dei giorni e delle ore in cui si può prendere visione della documentazione; la mancata comunicazione all’assemblea delle citazioni o dei provvedimenti con contenuto che esorbita le attribuzioni dell’amministratore (per esempio un’ingiunzione da parte dell’amministrazione comunale); 

– la mancata comunicazione ai condomini della convocazione in giudizio per la revisione dei millesimi ai sensi dell’art. 69, comma 2, disp. att. c.c.. 

A differenza di quanto accade per la revoca davanti al giudice dell’amministratore per irregolarità, quella fatta dall’assemblea può essere motivata solo da gravi irregolarità fiscali o dalla mancata apertura o uso del conto corrente condominiale. Che cosa si intenda per irregolarità, fiscali resta un mistero. È probabile che contino solo motivi importanti e non semplici infrazioni o inesattezze. L’assemblea deciderà come per la nomina, con le maggioranze dei presenti e almeno metà dei millesimi. Purtroppo, l’elenco dei motivi previsti per la revoca per giusta causa ne contempla anche alcuni decisamente “deboli” come, per esempio, il mancato aggiornamento dell’anagrafe o la non esecuzione di delibere che possono essere di scarsissimo conto. 

AUTODENUNCIA DELL’AFFITTO IN NERO: QUALI SCADENZE DOPO LA SENTENZA DI INCOSTITUZIONALITÀ?

[A cura di: avv. Giovanni Carini – Uppi]


Con gli articoli 8-9 dell’art. 3 del d.lgs. n. 23/2011, il legislatore aveva introdotto, nell’ambito della normativa della c.d. “cedolare secca”, una particolare sanzione fiscale stabilendo che: “ai contratti di locazione degli immobili ad uso abitativo, comunque stipulati, che, ricorrendone i presupposti, non sono registrati entro il termine stabilito dalla legge, si applica la seguente disciplina:

a) la durata della locazione è stabilita in quattro anni a decorrere dalla data della registrazione, volontaria o d’ufficio;

b) al rinnovo si applica la disciplina di cui all’articolo 2, comma 1, della citata legge n. 431 del 1998;

c) a decorrere dalla registrazione il canone annuo di locazione è fissato in misura pari al triplo della rendita catastale, oltre l’adeguamento, dal secondo anno, in base al 75 per cento dell’aumento degli indici Istat dei prezzi al consumo per le famiglie degli impiegati ed operai. Se il contratto prevede un canone inferiore, si applica comunque il canone stabilito dalle parti”.

d) Le disposizioni di cui all’articolo 1, comma 346, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, ed al comma 8 del presente articolo si applicano anche ai casi in cui:

1) nel contratto di locazione registrato sia stato indicato un importo inferiore a quello effettivo;

2) sia stato registrato un contratto di comodato fittizio.

La disciplina di cui ai commi 8 e 9 non si applica ove la registrazione sia effettuata entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto”.


Tale norma, dunque, prevedeva, anche con riferimento ai contratti in corso ed in assenza della sanatoria prevista dall’ultima parte della norma, la possibilità di ottenere la imposizione di un contratto su delazione della parte conduttrice a diverse (ed in genere peggiorative) condizioni, rispetto a quelle pattuite, e precisamente la costituzione di ufficio (o “volontaria” ipotesi invero piuttosto remota) di un contratto ex novo della durata di 4 + 4 anni e ad un corrispettivo annuo pari a tre volte la rendita catastale.

Con sentenza del 14.03.2014, gli art. 8-9 del d.lgs 23/2011 sono stati dichiarati illegittimi dalla Corte Costituzionale, per cui detta norma ha perso “ab origine” qualsivoglia efficacia. Senonché il legislatore, con successivo decreto legge 28.3.2014 n. 47, convertito con legge 23.5.2014 n. 80, pubblicato in G.U. n. 121 del 27.5.2014 ed entrato in vigore il giorno dopo, ossia il 28.5.2014, ha inteso adottare una specie di “gestione” dei normali effetti conseguenti ad una norma dichiarata incostituzionale, introducendo all’art. 5 comma 1 ter una sorta di protrazione degli effetti della norma dichiarata incostituzionale, stabilendo che restano salvi “sia gli effetti che i rapporti giuridici”, sorti sulla base dei “contratti di locazione” registrati secondo le procedure di cui alle richiamate norme (incostituzionali): “sono fatti salvi fino alla data del 31.12.2015 gli effetti prodottisi ed i rapporti giuridici sorti sulla base dei contratti di locazione registrati ai sensi dell’art. 3 comma 8 e 9 del decreto legislativo 14.03.2011 n. 23”.


Ciò posto, in primo luogo, pur risultando piuttosto oscuro quali siano gli effetti ed i rapporti “prodottisi” sulla base del contratto di locazione ricostruito, dobbiamo immaginare che il legislatore abbia voluto procrastinare la possibilità, per i conduttori che avessero attivato la procedura “sanzionatoria”, di non subire immediatamente gli effetti della pronuncia di incostituzionalità, per cui occorre esaminare quali siano la portata e le conseguenze della “proroga” introdotta a seguito della denunzia formulata con la procedura di cui all’art. 3 d.lgs 23/2011. Premesso, infatti, che la sanzione di incostituzionalità, ha indubbiamente travolto la validità ed efficacia del contratto secondo lo schema ipotizzato dal legislatore nella norma abrogata dalla Corte Costituzionale (4+4 anni di durata ad un corrispettivo pari a tre volte la rendita catastale diviso 12), va correttamente interpretata la successiva norma definita di “salvaguardia” (art. 5 comma 1 ter D.L. 28.3.2014 n. 47), analizzandone la portata. 

E, al riguardo vi è una prima considerazione. “Gli effetti ed i rapporti giuridici” relativi ai contratti di locazione registrati ricorrendo al procedimento del d.lgs. 23/2011, sono “fatti salvi” per un tempo limitato, e cioè fino al 31.12.2015, essendo questo un dato estremamente chiaro perché letterale.

La norma è, invece, piuttosto ambigua laddove fa riferimento all’oggetto del “salvataggio”, ossia gli effetti ed i rapporti giuridici, sorti sulla base dei contratti di locazione, forzosamente imposti. In particolare, bisogna domandarsi se il legislatore abbia voluto prorogare il contratto in quanto tale, lasciandolo in vigore fino al 31.12.2015, oppure abbia inteso, più semplicemente, preservare il conduttore dal pagamento immediato degli oneri già maturati, per avere illegittimamente violato la pattuizione contrattuale originaria ma in maniera incolpevole, avendo fatto affidamento e (corretta) applicazione di una norma, poi dichiarata incostituzionale.

Delle due interpretazioni la seconda appare – a parere dello scrivente – indubbiamente più conforme ed in linea con il contenuto letterale e con la ratio della legge e, senz’altro ne fornisce una lettura costituzionalmente orientata (la norma in questione è già stata rimessa dal Tribunale di Napoli con ordinanza del Dr. Rosario Caiazzo del 18.06.2014, al vaglio della Corte Costituzionale).

Difatti, la disposizione prevede chiaramente e letteralmente, la salvezza degli effetti e rapporti già “prodotti e sorti”, al momento della sua entrata in vigore e non regolamenta affatto quelli che dovranno maturare successivamente, a seguito del venir meno della legge per la dichiarata incostituzionalità. 


Ciò trova conforto anche nella ratio legis. È infatti evidente che chi aveva fatto ricorso al procedimento fidando sulla validità della originaria disposizione, poi cancellata in virtù del noto effetto retroattivo della statuizione costituzionale, si sarebbe trovato di punto in bianco in una situazione sensibilmente gravosa sia sotto il profilo abitativo, tenuto conto che la riduzione del canone, come è noto, comporta la risoluzione automatica del rapporto locativo per inadempimento, sia sotto l’aspetto economico, tenuto conto che effetto automatico della illecita autoriduzione del corrispettivo, è l’obbligo di pagamento immediato delle differenze già maturate. Ne consegue che, il legislatore, con la norma che egli stesso definisce di salvaguardia, ha inteso evitare che il conduttore incolpevole, potesse subire tutto di un colpo gli effetti della errata scelta legislativa, dichiarando la possibilità di porvi rimedio entro un termine che ha indicato per la fine dell’anno 2015.

Del resto, se avesse voluto prorogare l’efficacia del contratto per il futuro, egli avrebbe fatto espresso riferimento ad esso e non di certo agli effetti ed ai rapporti già maturati (in base a detto contratto) e ciò senza tener conto della circostanza, altrettanto rilevante, che il contratto o è valido o non lo è, per cui mai la durata di esso potrebbe essere temporalmente ridotta e procrastinata al 31.12.2015.


Tale lettura della norma in esame, è avallata anche dalla relazione introduttiva ad essa e, in particolare, da quanto riferito in Senato dal relatore in occasione della seduta pubblica di giovedì 8 maggio 2014 (la 243^): “La commissione ha introdotto infine una norma che salvaguarda fino al 31 dicembre 2015 gli effetti della legge contro gli affitti in nero che la Corte Costituzionale ha cancellato. Si è trovata una soluzione che non mette in discussione la sentenza, ma riconosce che coloro che ne hanno beneficiato oggi non possono subire le conseguenze di aver applicato la legge, e garantisce loro un tempo congruo per non dover sopportare un aggravio ingiusto delle proprie condizioni”.

Dunque dal semplice esame di tale relazione risulta confermato che:
– la norma produce i suoi effetti fino al 31.12.2015;

– essa ha lo scopo di “salvaguardare gli effetti della legge contro gli “affitti in nero” che la Corte Costituzionale avrebbe cancellato ma è comunque “una soluzione che non mette in discussione la sentenza”.


Questo passaggio merita una ulteriore considerazione. In primo luogo, in esso si fa espresso riferimento alla salvaguardia degli effetti pregressi ossia già maturati, ma nulla dispone per le vicende successive al prosieguo del rapporto, tant’è che conferma la piena validità della sentenza che non “mette in discussione”, volendo soltanto evitare che chi ha applicato la norma dichiarata illegittima, possa subire “un aggravio ingiusto delle proprie condizioni di vita”. In secondo luogo, la salvaguardia di cui trattasi non è definitiva ma è limitata, allo spirare del termine fissato per il 31.12.2015. Del resto, sempre nella relazione, si legge che si è voluto evitare un “aggravio ingiusto”. Nel caso in esame l’ingiustizia dell’aggravio non può di certo essere riferita all’applicazione della sentenza del Giudice delle leggi, che in quanto tale non può che possedere il crisma della legittimità, ma tuttalpiù, alle difficoltà in cui si viene a trovare il conduttore se deve in un’unica soluzione, provvedere a reintegrare la decurtazione di canone, accumulato in applicazione della norma incostituzionale. Pertanto tale ingiustizia sarebbe debellata, con la concessione di un congruo termine per sanare il debito pregresso maturato.


Al riguardo si ricorda che la Suprema Corte, nell’analizzare gli effetti delle pronunce della Corte Costituzionale, ha avuto modo di precisare che: “la retroattività delle pronunce di illegittimità costituzionale riguarda l’antigiuridicità delle norme investite, non più applicabili neanche ai rapporti pregressi non ancora “esauriti” ma non consente di configurare retroattivamente, quanto fittiziamente, la colpa del soggetto, che prima della declaratoria di incostituzionalità abbia conformato il proprio comportamento alle norme solo successivamente investite da quella declaratoria (così Cass. n. 355/2013; conf. Cass. n. 6744/1996: “l’efficacia retroattiva delle sentenze dichiarative dell’illegittimità costituzionale di una norma, se comporta che tali pronunzie abbiano effetto anche in ordine ai rapporto svoltisi precedentemente (eccettuati quelli definiti con sentenza passata in giudicato e le situazioni comunque definitivamente esaurite) non vale a far ritenere illecito il comportamento realizzato, anteriormente alla sentenza di incostituzionalità, conformemente alla norma successivamente dichiarata illegittima, non potendo detto comportamento ritenersi caratterizzato da dolo o colpa” (Cass. n. 15879/2002; Cass. n. 941/1999; Cass. n. 194/1996).”


Quindi, tirando le fila del discorso, a partire dalla data di decisione della Corte Costituzionale, essendo venuta indubbiamente meno l’esigenza di tutela della “incolpevolezza” del conduttore, quest’ultimo è tenuto all’immediato pagamento del corrispettivo pieno mentre, per le differenze pregresse maturate dalla data della riduzione fino alla sentenza della Corte Costituzionale le stesse, pur essendo regolarmente dovute, potranno essere corrisposte entro la data del 31.12.2015.

Il locatore, pertanto, potrà agire per la risoluzione del contratto, qualora il conduttore – anche dopo la pronunzia della Corte Costituzionale – avesse continuato a corrispondere il canone ridotto per il periodo che va dalla pronuncia della Corte Costituzionale in poi, mentre per la differenze pregresse il giudizio di morosità potrà essere incardinato solo dopo lo spirare del termine dilatorio del 31.12.2015.

Tale chiave di lettura, a parere dello scrivente, fugherebbe anche il sospetto di illegittimità costituzionale sollevato dal Giudice con l’ordinanza di rimessione del 18.06.2014. Tuttavia è opportuno, comunque, precisare che la pendenza di tale questione non impedisce al locatore di potere agire per la risoluzione definitiva del contratto in ragione del mancato pagamento delle differenze di canone a partire dalla data di riduzione del corrispettivo fino all’attualità, posta in essere in attuazione del procedimento ex d.lgs. 23/2011. In tal caso dovrà formulare una specifica domanda, rinviandone la definizione alla pronuncia della Corte Costituzionale.

LOCAL TAX: STANGATA DA 26 MILIARDI IN UN’UNICA SOLUZIONE

Per i contribuenti italiani una stangata da 26 miliardi di euro. Per le casse dei Comuni, sempre in affanno, una boccata d’ossigeno di pari importo, con il vantaggio dipoterla “aspirare” in un solo colpo. Due facce della stessa medaglia: quella della cosiddetta “local tax” di cui è fatto un gran parlare nei mesi scorsi ma che, dopo le indiscrezioni emerse a seguito del question time alla Camera tenuto mercoledì scorso dal ministro, Padoan, dovrebbe effettivamente scattare a partire dal 2016, inglobando l’Imu, la Tasi, l’addizionale comunale Irpef e una serie di piccole imposte minori.

Ma a quanto ammonterà, in dettaglio, il salasso? A fare i conti in tasca al “nuovo” balzello è stata la Cgia di Mestre, che ha elencato le principali imposte/tasse comunali e i relativi gettiti che potrebbero essere sostituiti dalla “tassa unica” che i Sindaci saranno chiamati ad applicare.

Ebbene, tra Imu e Tasi (21,1 miliardi di euro), l’addizionale comunale Irpef (4,1 miliardi di euro), l’imposta sulla pubblicità (426 milioni di euro), la tassa sull’occupazione degli spazi e aree pubbliche (218 milioni di euro), l’imposta di soggiorno (105 milioni di euro) e l’imposta di scopo (14 milioni di euro), il gettito totale si aggira appunto sui 26 miliardi.

Ovviamente, fanno notare dalla CGIA, siamo ancora nel campo delle ipotesi. Tuttavia lo scenario che si profila non dovrebbe essere molto lontano da quello disegnato dalla Camera degli Artigiani. “L’eventuale semplificazione della tassazione comunale – segnala il segretario della Cgia, Giuseppe Bortolussi – renderebbe certamente più facile pagare le tasse: una richiesta che i cittadini e le imprese invocano da tempo. Ma, oltre a semplificare, bisogna anche ridurne il peso, visto che a partire dal 2011, ultimo anno in cui gli italiani hanno pagato l’Ici, la tassazione su botteghe, piccoli negozi e uffici ha subito un’impennata spaventosa, a causa dell’introduzione dell’Imu e, successivamente, della Tasi”.

In particolare, su botteghe e negozi, fa sapere l’Ufficio studi della Cgia, il gettito complessivo è più che raddoppiato: + 108 per cento. Se nel 2011 ammontava a 796 milioni di euro, nel 2014 ha toccato 1,65 miliardi di euro. Altrettanto pesante è stato l’aggravio fiscale subito dagli uffici: sempre tra il 2011 e il 2014, il gettito incassato dai Comuni è salito del 105 per cento; se 4 anni fa i Comuni avevano incassato 533 milioni di euro, nel 2014 hanno riscosso poco più di un miliardo di euro. I laboratori, invece, hanno visto aumentare il peso fiscale dell’81 per cento: se con l’Ici i primi cittadini avevano incassato 229 milioni di euro, nel 2014 hanno “alleggerito” le tasche degli imprenditori di 414 milioni di euro. Sui capannoni, infine, l’incremento del prelievo è stato del 66 per cento: a fronte di 3,3 miliardi di euro riscossi dai Sindaci nel 2011, tre anni dopo il gettito complessivo è salito a 5,5 miliardi di euro.

 

SE IL CONIUGE È ASSENTE AL ROGITO PERDE IL SUO 50% DI BONUS PRIMA CASA

[A cura di: Nunziata Masiello e Filomena Scarano (FiscoOggi)
– Agenzia delle Entrate
]

 

È legittima la revoca, per la metà, dell’agevolazione
fiscale “prima casa” se, al momento del rogito, era presente solo uno dei due
coniugi che ha acquistato il bene in comunione legale. Le dichiarazioni
prescritte dalla norma agevolativa devono essere rese al notaio da entrambi i
coniugi acquirenti e l’eventuale dichiarazione integrativa deve essere redatta
con le stesse formalità giuridiche del precedente [atto] ed entro i
termini di decadenza
”.

È quanto ha stabilito la Corte di cassazione con la sentenza
1988 del 4 febbraio 2015.

 

VICENDA PROCESSUALE

L’Amministrazione finanziaria aveva notificato un avviso di
liquidazione con il quale era stata revocata, per la metà, l’agevolazione
fiscale per l’acquisto della prima casa. Detta agevolazione era stata così
riconosciuta nei confronti del solo coniuge, che aveva acquistato l’immobile in
regime di comunione legale, presente al momento del rogito.

Il ricorso proposto dal notaio rogante veniva rigettato, sia
in primo sia in secondo grado.

In particolare, i giudici d’appello ritenevano che le
dichiarazioni, prescritte alle lettere b) e c) della norma
agevolativa, dovevano esser rese da entrambi i coniugi in seno all’atto e che
eventuali omissioni potevano esser integrate con un altro atto redatto con le
stesse formalità di quello precedente, entro il termine di decadenza.

Il notaio, pertanto, ricorreva per la cassazione della
sentenza, deducendo la violazione e falsa applicazione dell’articolo 1, comma
4, e nota II-bis, della tariffa allegata al Dpr 131/1986, e dell’articolo 16
del Dl 155/2003, in relazione all’articolo 360 del codice di procedura civile,
comma 1, n. 3. Nello specifico, lamentava che la Ctr non avesse ritenuto che,
in caso d’acquisto di un fabbricato da parte di un soggetto coniugato, in
regime di comunione legale dei beni, le dichiarazioni prescritte dalla legge
riguardavano non solo il coniuge intervenuto nell’atto ma, anche, quello non
intervenuto.

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

La Corte di cassazione, confermando quanto statuito dalla
Commissione di secondo grado, ha riconosciuto l’agevolazione solo in favore del
coniuge presente al momento del rogito.

In particolare, ha osservato che, per il godimento
dell’agevolazione “prima casa”, “occorre che l’acquirente dichiari in seno
all’atto di acquisto di non essere titolare esclusivo o in comunione con il
coniuge dei diritti di proprietà, usufrutto, uso ed abitazione di altra casa di
abitazione nel territorio del comune in cui è situato l’immobile da acquistare,
e di non averne in precedenza, fruito, neppure pro quota, in riferimento
all’intero territorio nazionale: la circostanza che l’acquisto dell’immobile si
attui per effetto del regime di comunione legale non costituisce, in assenza di
specifiche disposizioni in tal senso, eccezione alla regola anzidetta
”.

La Corte ha altresì precisato che tale conclusione non
contrasta con la precedente giurisprudenza di legittimità (Cassazione
14237/2000 e 15426/2009) citata dal ricorrente. I principi in essa espressi,
infatti, sono da riferirsi a un diverso requisito della normativa di
riferimento: residenza anagrafica nel comune ove è situato l’immobile.

Al riguardo, si ricorda che ai sensi dell’articolo 1, nota
II-bis, della tariffa, parte prima, allegata al Dpr 131/1986, per fruire
dell’agevolazione è richiesto, tra l’altro, anche il requisito della residenza
nel comune ove è situata l’abitazione da acquistare. Su tale aspetto, è emersa
la problematica (diversa da quella oggetto della sentenza odierna) relativa
alla spettanza o meno dell’agevolazione nell’ipotesi di acquisto di immobile a
uso abitativo da parte di coniugi in regime di comunione legale, con
particolare riferimento al caso in cui solo uno dei coniugi soddisfi il
requisito della residenza anagrafica.

L’Amministrazione finanziaria, con la circolare 38/2005, ha
precisato che, ai fini fiscali, l’acquisto di un immobile da parte di un
coniuge che si trovi in regime di comunione legale “comporta l’applicazione
nella misura del 50 per cento dell’agevolazione prima casa qualora l’altro
coniuge non sia in possesso dei requisiti necessari per fruire del predetto
regime di favore
” e non l’esclusione dei benefici per intero.

Tale interpretazione è conforme al tenore letterale della
norma agevolativa, che subordina la fruizione del beneficio in argomento alla
presenza di condizioni personali del richiedente, quale, in particolare, la
residenza anagrafica del singolo e non la residenza familiare.

La giurisprudenza di legittimità ha, invece, affermato con
molteplici pronunce – anche più recenti rispetto a quelle citate dal notaio
ricorrente – la fruibilità per intero del beneficio “prima casa” anche
nell’ipotesi in cui uno dei coniugi non soddisfi il requisito della residenza
anagrafica (cfr Cassazione 3931/2014, 16355/2013, 16356/2013,
15426/2009, 13085/2003 e 14237/2000).

Tuttavia la Corte, nel caso della sentenza in commento, ha
osservato che i precedenti richiamati si riferiscono ad altra fattispecie, e,
quindi, non costituiscono, per così dire, “precedente”.

Altra questione sollevata dal contribuente, su cui la
suprema Corte si è espressa, afferisce al caso in cui un coniuge, in regime di
comunione legale, acquisti un fabbricato con richiesta delle agevolazioni
fiscali con atto pubblico, senza che nel medesimo intervenga la moglie e alla
necessità che, per la dichiarazione integrativa di quest’ultima, sia necessario
atto pubblico o sia, invece, sufficiente una scrittura privata autenticata.

Sul punto, si ricorda che il possesso delle condizioni
soggettive, di cui alla nota II-bis dell’articolo 1 della tariffa, parte prima,
del Tur, deve essere dichiarato, a pena di decadenza, nell’atto di
compravendita, fatta salva la possibilità in capo al contribuente –
riconosciuta dalla prassi amministrativa (risoluzione 110/2006) – di chiedere
successivamente l’agevolazione con atto integrativo avente la stessa forma
dell’atto precedente.

La Cassazione, confermando la posizione espressa
dall’Amministrazione, ha affermato che è priva d’effetto la dichiarazione
integrativa resa dal coniuge assente al momento della compravendita: “tale
atto avrebbe dovuto essere redatto – e non lo era stato – con le stesse
formalità giuridiche del precedente ed entro i termini di decadenza
”.

 

TETTO, GRONDAIE E PLUVIALI: LA GIURISPRUDENZA DIVISA SULLA RIPARTIZIONE DELLE SPESE

[A cura di: Rodolfo Cusano – pres. onorario Acap]

 

In un condominio il proprietario del lastrico solare si è
opposto alla ripartizione delle spese ex art. 1126 c.c. sostenendo che esso
riguarda solo i lastrici solari. Per cui si chiede: come si ripartiscono le
spese per la ricostruzione – riparazione del tetto, delle grondaie e delle
pluviali?

Le spese per la manutenzione, la
riparazione e la ricostruzione del tetto, e dei manufatti che lo compongono e
lo sostengono, nonché dei suoi accessori (es. gronde e pluviali), sono
sopportate da tutti i condòmini, in proporzione alle rispettive quote
millesimali, salva diversa previsione del regolamento di condominio (art. 1123,
1° co., c.c.).

Nel caso cui l’edificio abbia più tetti o
si componga di più corpi di fabbrica, strutturalmente e funzionalmente
autonomi, e le opere di riparazione riguardino taluno soltanto di questi tetti,
le spese relative sono sopportate, ai sensi dell’art. 1123, ult. co., c.c.,
sempre in base ai millesimi di proprietà, dai soli condòmini le cui unità
immobiliari siano coperte dal tetto da riparare e si trovino nella proiezione
verso il basso dei suoi lati. Analogo criterio opera nell’ipotesi in cui il
tetto copra una parte soltanto dell’edificio.

Può aversi l’ipotesi, poi, che il tetto, pur avendo funzione
di copertura dei piani sottostanti, sia di proprietà esclusiva o in uso
esclusivo di un condòmino: in tal caso, la spesa relativa alla sua manutenzione
va ripartita in base all’art. 1126 c.c., sì da gravare per 1/3 sul
titolare esclusivo del diritto di proprietà e per i restanti 2/3 sui condòmini
delle unità immobiliari a cui il tetto serva, in proporzione del piano o della
porzione di piano di ciascuno di essi.

Non possiamo non ricordare che recentemente la Cassazione,
con sentenza n. 27154 depositata il 22 dicembre 2014, ha operato un vero e
proprio cambio di indirizzo in ordine al riparto delle spese di riparazione
degli elementi considerati accessori del tetto. Infatti, la S.C.,
pronunciandosi sull’impugnativa da parte di alcuni condòmini della delibera
condominiale che aveva stabilito in ordine alla spesa per la manutenzione delle
gronde, la ripartizione secondo il criterio di cui all’art. 1126 c.c., anziché
in base a quello di cui all’art. 1125, 3° comma, c.c. ha stabilito che le
grondaie, così come i doccioni e i canali di scarico delle acque meteoriche del
tetto di uno stabile condominiale, svolgendo una funzione necessaria all’uso
comune sono parti comuni dell’edificio ai sensi dell’art. 1117 c.c. e pertanto
le spese necessarie per la loro riparazione, manutenzione o sostituzione vanno
ripartite tra tutti i condòmini.

“A prescindere dal fatto che la copertura del fabbricato sia
costituita da tetto a falda o da lastrico solare di proprietà esclusiva, ha
spiegato, infatti, la Corte, l’esistenza delle gronde “rimane indispensabile
per raccogliere e smaltire le acque piovane, poiché le stesse convogliano le
acque meteoriche dalla sommità dell’edificio fino a terra o a scarichi fognari
e svolgono quindi funzione che prescinde dal regime proprietario del terrazzo
di copertura, salva anche la facoltà di un uso più intenso che, compatibilmente
con il disposto del’art. 1102 c.c., possa farne il proprietario del terrazzo
stesso per suoi usi”.

Pertanto, ha concluso la S.C. accogliendo il ricorso e
cassando la sentenza della Corte d’Appello di Napoli, “la proprietà esclusiva
del lastrico o terrazzo dal quale provengano le acque che si immettono nei
canali non muta questo regime, giacché l’art. 1126 c.c. disciplina soltanto le
riparazioni o ricostruzioni del lastrico propriamente inteso e non di altre
parti dell’immobile, la cui esistenza è, per esso, indipendente da quella del
lastrico, salvo che altrimenti risulti espressamente dal titolo”.

Sul punto
esiste un contrasto di giurisprudenza che speriamo venga colmato al più presto
con la rimessione della questione alle Sezioni Unite della Cassazione.

 

CONFEDILIZIA: CONTESTA IL NUOVO ISEE: “PENALIZZA I PICCOLI PROPRIETARI IMMOBILIARI”

 

[A cura di: Corrado Sforza Fogliani – presidente
Confedilizia]

 

Il nuovo Isee – in vigore dal primo gennaio 2015 –
costituisce di fatto una nuova tassazione della casa, falsa e surrettizia, a
danno soprattutto dei piccoli proprietari, e cioè della stragrande maggioranza.
Infatti il calcolo del valore degli immobili deve ora essere effettuato sulla
base del loro valore quale definito ai fini Imu. Ciò comporta automaticamente
l’esclusione dalle prestazioni sociali agevolate di un alto numero di
proprietari di casa, che a tali prestazioni avevano invece diritto sulla base
del precedente indicatore, fondato sull’imponibile Ici. Come noto, infatti, ai
fini dell’Imu il valore delle abitazioni è stato elevato del 60% per effetto
dell’aumento – del tutto slegato dalla realtà e finalizzato solo ad acquisire
maggior gettito – dei moltiplicatori catastali. Insomma, con il nuovo Isee – ha
rilevato la Confedilizia, inascoltata dalla maggioranza tutta – numerosi
proprietari di casa, pur non avendo visto accresciuto il proprio tenore di
vita, che si è al contrario ridotto per far fronte alla pesante tassazione
costituita dall’Imu, perdono automaticamente il diritto ad usufruire di
prestazioni di natura sociale e assistenziale quali, ad esempio: assegni
familiari; assegni di maternità; riduzione delle rette degli asili nido;
riduzione del costo delle mense scolastiche; riduzione delle rette delle case
di cura per anziani; agevolazioni per utenze gas, telefono, elettricità;
esenzione per le prestazioni sanitarie; riduzione delle tasse universitarie.
Con l’effetto di accrescere la discriminazione nei confronti dell’investimento
immobiliare già insita nella componente patrimoniale dell’Isee.

CRONACA FLASH

Getta armi da finestra,

fermato dai carabinieri

Un ragazzo di 22 anni è stato arrestato dai carabinieri di Cosenza e posto ai domiciliari, con l’accusa di detenzione illegale di armi e munizioni. Nel corso di una perquisizione a casa del giovane, i militari lo hanno placcato mentre tentava di disfarsi di due pistole gettandole dalla finestra. I carabinieri hanno poi recuperato una pistola calibro 6,35, una calibro 9 con matricola abrasa e munizioni varie.


Droga e banconote false

nell’alloggio: arrestato

In provincia di Catanzaro i carabinieri hanno tratto in arresto e messo a domiciliari un uomo di 51 anni per detenzione illecita di droga a fini di spaccio e possesso di denaro falso. Durante la perquisizione effettuata dai militari, sono stati rinvenuti 80 grammi di marijuana, una banconota da 100 euro risultata contraffatta e un bilancino di precisione, prontamente sequestrati. 


Coltiva marija in casa

Cane poliziotto lo scopre 

La Guarda di Finanza di Ravenna ha arrestato un uomo di 43 anni che aveva creato un sistema ad hoc per la coltivazione di marijuana in casa. L’impianto era costituito da tubi in pvc perforati per ospitare le piantine di canapa indiana, con un temporizzatore di irrigazione e riciclo delle acque, sistemi di aerazione della camera buia e di illuminazione per creare l’effetto sole. I militari sono arrivati all’uomo grazie al fiuto di un labrador dell’unità cinofila di Ravenna, che lo ha puntato mentre passeggiava con un amico. 


Uccisa a martellate

per lite condominiale

Una lite condominiale sfociata in tragedia. È accaduto in provincia di Caserta. La vittima è una donna di 59 anni, una professoressa delle scuole superiori. L’uomo, di 51 anni, la ha presa a martellate togliendole così la vita. L’aggressore è stato poi fermato dalla polizia con l’accusa di omicidio.


Furti in alloggi: manette

anche per donna incinta

Una piccola banda, apparentemente insospettabile, si aggirava in una cittadina della provincia di Napoli per compiere una serie di furti in appartamenti. Due donne, di cui una in stato interessante, sono state arrestate dalla polizia. Gli agenti hanno recuperato anche alcuni monili in oro e argento, il cui valore è in corso di quantificazione. I poliziotti stanno indagando anche su altri furti commessi in zona.

CONDOMINIO: IL DECORO ARCHITETTONICO COME “PARTE COMUNE IMMATERIALE”

[A cura di: avv. Roberto Negro – Centro Studi APPC]


Si segnala, in quanto meritevole almeno di un breve esame della stessa, la sentenza della Corte Cass. Civ., Sex. II, n. 20985 del 6 ottobre 2014. Detta pronuncia faceva riferimento a  una fattispecie di installazione di impianto/i di condizionamento apposto/i nella facciata esterna di un condominio. La Suprema Corte ha ritenuto che il regime di disciplina dell’innovazioni ai sensi dell’art. 1120 cod. civ. fa sì che sia irrilevante una eventuale autorizzazione alle opere, nella specie condizionatori, in facciata esterna condominiale, da parte della autorità amministrativa, in quanto il rapporto tra condomino o condòmini esecutore/i dell’opera/e, non può incidere negativamente sulle posizioni soggettive degli altri condòmini. 

Ed infatti, una volta accertato il fatto che “il fabbricato aveva struttura e linee architettoniche residenziali ed era inserito in ambito paesaggistico protetto”, si poteva ritenere corretta l’applicazione dell’art. 1120 cod. civ. ritenendo costituire innovazione lesiva del decoro architettonico del fabbricato condominiale e pertanto vietata non solo quella che alteri le linee architettoniche dell’edificio stesso, ma anche quella che, in ogni caso, viene a riverberarsi in maniera negativa “sull’aspetto estetico ed armonico dell’edificio condominiale”. 

Su tale premessa, aggiunge la Corte che i rapporti tra esecutore delle opere e la pubblica autorità non possono incidere negativamente “sulle posizioni soggettive”, degli altri condòmini, ai sensi dell’art. 1120 cod. civ. comma 2, essendo imprescindibile e necessaria la preservazione del “decoro architettonico” dell’edificio. 

La sentenza qui brevemente commentata indica l’importante principio per cui l’opera del condomino non può riverberarsi negativamente sull’insieme “dell’armonico aspetto dello stabile”. In definitiva, pare la Corte abbia ritenuto come una sorta di bene condominiale l’insieme architettonico di un edificio condominiale, applicando in maniera estesa i principi dell’art. 1120 c.c., nonché dell’art. 1102 c.c. Il decoro architettonico di un edificio è da salvaguardare pertanto come “bene primario” e viene così ad essere una sorta di parte comune “immateriale” dell’edificio condominiale; tale principio pare anche compatibile con una funzione di natura sociale della proprietà privata, ai sensi anche della normativa costituzionale in materia, e tenuto conto del generale principio di conservazione delle entità immobiliari in condominio nel loro profilo paesaggistico ed estetico e al fine di un corretto inserimento dell’edificio in condominio nell’ambiente e nella texture di tipo economico, paesaggistico e sociale in cui il condominio viene ad essere inserito.



LA DISDETTA DEL CONTRATTO DI LOCAZIONE: NORME, GIURISPRUDENZA E CASI PARTICOLARI

[A cura di: Paolo Ciri – delegato Uppi]


Si fa presto a dire “disdetto il contratto”. Prima di pensare di aver sciolto ogni legame sarà bene esaminare una serie di dettagli.

Ad esempio: da quando vale la disdetta del contratto di locazione o affitto? Dal giorno di spedizione o dal giorno di ricezione? La disdetta (atto unilaterale recettizio) ha valore dal momento in cui chi la riceve ne ha conoscenza, cioè da quando legge la lettera. L’articolo 1334 del Codice Civile, infatti, recita: “Gli atti unilaterali producono effetto dal momento in cui pervengono a conoscenza della persona alla quale sono destinati”. 

D’altra parte, la raccomandata, per il disposto dell’art. 1335 del Codice Civile, si presume letta il giorno stesso in cui è stata ritirata, benché si possa dare (ma è difficile) prova contraria. Va da sé che quando la disdetta viene data e ricevuta per “raccomandata a mano” la conoscenza è immediata, alla firma. Vi è poi la eventualità che la raccomandata non venga ritirata. In questo caso si ha per letta al giorno di compiuta giacenza, il trentesimo giorno dopo l’arrivo. Con lo svantaggio, per il soggetto che la ha ricevuta, di non conoscere nemmeno cosa ci fosse scritto. In merito vedasi Cassazione Civile n. 1188/2014,, n. 16327/2007, n. 6527/2003, n. 2847/1997.


LA DECORRENZA

Supponiamo, per esempio, che il termine di preavviso sia quello di legge, sei mesi. Dal giorno di ricezione, o di compiuta giacenza della raccomandata, passeranno sei mesi e poi il contratto sarà sciolto, sempre che la disdetta sia data validamente. Però, salvo diversa pattuizione, gli affitti si “acquistano” (e si pagano) a periodi mensili. Percui, se il sesto mese dalla ricezione scade oltre il termine mensile del contratto si dovrà pagare anche una ulteriore mensilità. Ad esempio, un contratto che decorre dal primo marzo e la cui disdetta arriva il giorno 6 giugno comporterà, nei fatti, il pagamento di sette mesi di preavviso: da giugno a dicembre compresi, perché i sei mesi decorrono dal 1° luglio, il “primo del mese” successivo alla ricezione. 


L’INDIRIZZO

Un problema a parte è quello della corretta individuazione dell’indirizzo del destinatario (domicilio contrattuale, legale o elettivo che sia). È bene individuarlo con precisione e correttezza nel contratto, ed individuare anche le alternative per il caso esso venga a mutare: questa è una possibilità offerta dall’articolo 141 del Codice di Procedura Civile. Ad esempio, molto spesso non si riesce a scrivere né a notificare all’inquilino che ha lasciato l’immobile locato, non conoscendone il domicilio attuale. In mancanza di specifiche clausole si rischia di scrivere ad un indirizzo non più valido, né giuridicamente né di fatto. Vedasi in proposito Cassazione Civile 10751/1991 o 6471/1987 o 17040/2003  o, infine,   2642/2013.


IL PERIODO

Per quanto riguarda il potere di dare validamente disdetta di un contratto di locazione o affitto “alla fine del periodo”, premettiamo che per “periodo” si intende il “gruppo” di anni per i quali ci si impegna. Ad esempio, il quadriennio nei contratti liberi, il primo triennio ed i successivi bienni per i concordati, la durata di sei anni ed i successivi gruppi di sei per i contratti commerciali (e 9 per gli alberghi). Questi tempi non si possono “limitare” nella vigenza della legge 392/79 (art. 79) mentre per quanto è ora regolamentato dalla 431/98 vale l’articolo 13 comma 3 che vieta di “derogare i limiti”, quindi, a rigore, anche di allungarli. Però la prassi e la giurisprudenza lo interpretano nel senso che la deroga è vietata se comprime i tempi, è tollerata se li espande, a beneficio dell’inquilino che si assicura il godimento per un periodo più lungo. Vero pure che queste logiche, in periodi di recessione e deflazioni, andrebbero riparametrate, ma, per ora, abbiamo ancora la mentalità che quelle leggi ispirò. La “allungabilità” della durata dei periodi dei contratti commerciali è confermata dalla disposizione di cui all’articolo 16-duodecies del D.L. 207/2008 convertito in legge 14/2009. Autorizza l’applicazione di una adeguamento Istat superiore al limite del 75% per qui contratti che prevedano periodi più lunghi del minimo di legge. 

Tutto ciò premesso chiariamo che l’inquilino può validamente dare disdetta alla scadenza di ciascun periodo di locazione. 


I GRAVI MOTIVI

In caso di gravi motivi l’inquilino può dare disdetta in ogni momento, ma con un anticipo, rispetto al rilascio, di sei mesi, come per legge. Ovviamente non significa, come volgarmente si dice, che l’inquilino non se ne può andare prima del decorso del sesto mese. Può andarsene, è chiaro, ma deve continuare a pagare i canoni fino alla scadenza del sesto mese dalla conoscenza della disdetta.

Ma quali sono i “gravi motivi”? Già nel 2005 la Cassazione diede una precisa definizione, che ancora oggi resiste, tanto è appropriata: Cassazione Sezione III, sent. n. 15620/ 2005: “I gravi motivi devono collegarsi a fatti estranei alla volontà del conduttore, imprevedibili e sopravvenuti alla costituzione del rapporto”. Così poi anche Cassazione 5911/2011, 10980/1996, 260/91, 11466/92, 1098/94, 5328/2007, 12291/2014. Un elenco puramente esemplificativo: trasferimento della sede di lavoro, perdita del lavoro, condizioni di salute aggravatesi ed incompatibili con l’alloggio attuale, malattie di parenti stretti che richiedono un trasferimento per l’assistenza ed anche motivi meno tristi, come il fatto che nuove nascite allargano la famiglia e quindi l’alloggio non è più sufficiente. Secondo alcuni vale anche la inidoneità materiale o sanitaria dell’immobile. Ma io direi che qui siamo nel campo della risoluzione per inadempimento, posto che il locatore deve mantenere la cosa locata in stato da servire all’uso convenuto (art. 1575 c.c.).


LE DEROGHE

Contrattualmente, cioè con l’accordo di tutte le parti, si può derogare a questa modalità legale di disdetta da parte dell’inquilino: si può prevedere un termine più breve (ma non invece maggiore) e si può concedere il c.d. “recesso libero”. Cioè la possibilità di dare disdetta senza i gravi motivi. Anzi, a questo punto, senza motivo alcuno. Semplicemente per scelta. Ed è questa la modalità più praticata, nei fatti.

Il proprietario/locatore può dare disdetta solo alla scadenza del secondo periodo di locazione o dei successivi. Può darla anche alla fine del primo periodo, ma solo in casi eccezionali e tassativamente previsti dall’articolo 3 della legge 431/98. È bene utilizzare questa possibilità con cautela e correttezza, perché, in caso contrario, il danno da risarcire all’ex inquilino è, come minimo, 36 volte il canone di locazione. 


CASI PARTICOLARI

A volte la disdetta viene data da uno solo degli inquilini o da uno solo dei proprietari. La disdetta di un solo conduttore è valida se viene seguita dalla accettazione o da fatti concludenti degli altri. Se invece uno degli altri manifesta l’intenzione di proseguire il contratto, stante la obbligazione passiva solidale, la disdetta non è valida. L’altro inquilino (o gli altri) può proseguire il rapporto contrattuale, pagando l’intero canone. Può anche essere prevista la locazione di una parte esclusiva e delle parti comuni. E qui, allora, non saremo in presenza di un pluralità di inquilini, perché ogni contratto avrò un inquilino, probabilmente. Oppure può essere prevista la parziarietà della obbligazione del pagamento. Allora se un solo inquilino disdetta, gli altri rimarranno e pagheranno solo la loro quota. Ma questo caso è raro, nella prassi.

Dalla parte di proprietari invece si applica il principio del “consenso presunto e reciproco di ciascuno dei comproprietari all’atto di amministrazione compiuto dal singolo”. Vedasi Cassazione Civile n. 14772/2004,. n. 19929/2008, n. 8996/2005, n. 5077/2010. Ma l’atto di gestione di uno dei comproprietari si presume effettuato col consenso degli altri solo se gli altri non manifestano esplicitamente una volontà contraria. A quel punto, per dirimere la questione, non resta che una “assemblea di comunione”, simile a quella di condominio, ove si vada a votare secondo le proprie quote di proprietà (art. 1105 Codice Civile).


QUALI EFFETTI

In conclusione si noti che il momento preciso di validità della disdetta rileva per una serie di adempimenti, non solo nei rapporti proprietario/inquilino: operazioni di riconsegna, registrazione della risoluzione alla Agenzia delle Entrate, eventualmente cessazione della agevolazione Imu sui contratti concordati, disdetta della TAriffa RIfiuti, disdetta delle varie utenze, cambio della residenza, calcolo delle quote condominiali spettanti all’inquilino.