Con la sentenza n. 5671 del 30 giugno 2025, il Consiglio di Stato interviene su un tema cruciale per il diritto urbanistico: la qualificazione delle opere edilizie accessorie e la portata delle cosiddette “tolleranze costruttive” introdotte dall’art. 34-bis del Testo Unico dell’Edilizia (D.P.R. n. 380/2001). Il caso esaminato riguarda la trasformazione di una superficie accessoria in sala ristorante e la realizzazione di un parapetto non rappresentato nei progetti originari. La decisione offre spunti rilevanti per la definizione dei confini tra regolarità formale e abuso edilizio, con implicazioni dirette per tecnici, amministrazioni e proprietari immobiliari.
Il caso
La vicenda trae origine da una concessione edilizia in sanatoria rilasciata nel 1999 per un immobile destinato in parte a locale commerciale (mq 165,35) e in parte a superficie accessoria (mq 185,97), non utilizzabile come sala. Negli anni successivi, la superficie accessoria è stata trasformata in sala ristorante, con chiusure perimetrali, una copertura più consistente e l’aggiunta di un parapetto mai rappresentato negli elaborati progettuali. Il Comune, rilevata la difformità rispetto al titolo abilitativo, ha emesso un’ordinanza di demolizione, contestando la natura abusiva delle opere.
La società proprietaria ha impugnato il provvedimento davanti al TAR, sostenendo che il parapetto fosse un elemento funzionale alla sicurezza, implicitamente ricompreso nella sanatoria, e comunque rientrante nelle tolleranze esecutive previste dall’art. 34-bis del TUE. A sostegno, sono stati richiamati il D.M. n. 236/1989 (barriere architettoniche) e il D.Lgs. n. 81/2008 (sicurezza nei luoghi di lavoro), che impongono la presenza di parapetti in caso di dislivelli. In subordine, è stata richiesta la qualificazione del manufatto come pertinenza, con applicazione della sanzione pecuniaria in luogo della demolizione.
Il TAR ha respinto il ricorso, ritenendo che il parapetto costituisse opera autonoma non riconducibile a semplice irregolarità costruttiva, e che la trasformazione della superficie accessoria in sala ristorante integrasse un mutamento sostanziale della destinazione d’uso, non coperto dal titolo edilizio.
L’esame del Consiglio di Stato
Il Consiglio di Stato, confermando la decisione di primo grado, ha ribadito che le tolleranze esecutive introdotte dall’art. 34-bis del TUE non possono sanare difformità sostanziali né opere non rappresentate nei progetti approvati. La norma, infatti, consente la regolarizzazione di minime discrepanze tra progetto e realizzazione, ma non può essere invocata per giustificare interventi che alterano la destinazione d’uso o la volumetria dell’immobile.
Nel caso di specie, il parapetto non era presente negli elaborati progettuali e non poteva essere considerato un mero errore materiale. La sua funzione, pur legata alla sicurezza, non ne giustifica l’inserimento implicito nel titolo edilizio, né la sua riconduzione a tolleranza costruttiva. Inoltre, la trasformazione della superficie accessoria in sala ristorante ha comportato un ampliamento della superficie utile, con effetti rilevanti sul carico urbanistico e sulla conformità dell’immobile alle norme di piano.
La sentenza richiama anche l’art. 3 del TUE, che definisce gli interventi edilizi e distingue tra manutenzione ordinaria, straordinaria, ristrutturazione e nuova costruzione. La modifica della destinazione d’uso, specie se accompagnata da opere strutturali, rientra nella ristrutturazione edilizia e richiede un titolo abilitativo specifico. In assenza di tale titolo, l’intervento è da considerarsi abusivo.
Osservazioni e implicazioni
La pronuncia del Consiglio di Stato si inserisce in un contesto normativo in evoluzione, segnato dal recente decreto “Salva Casa”, che ha ampliato le possibilità di regolarizzazione delle difformità edilizie. Tuttavia, la sentenza n. 5671/2025 pone un limite chiaro: le tolleranze esecutive non possono essere utilizzate come strumento di sanatoria generalizzata. La distinzione tra superficie utile e superficie accessoria, così come la rappresentazione grafica delle opere, resta centrale per la legittimità degli interventi.
Dal punto di vista pratico, la decisione impone maggiore attenzione nella redazione dei progetti edilizi e nella gestione delle pratiche di sanatoria. I tecnici dovranno garantire la coerenza tra elaborati e stato di fatto, mentre le amministrazioni saranno chiamate a valutare con rigore la natura delle difformità. Per i proprietari, la sentenza rappresenta un monito: anche interventi apparentemente marginali, come un parapetto, possono comportare conseguenze rilevanti se non correttamente autorizzati.
In conclusione, la sentenza n. 5671/2025 contribuisce a delineare un confine netto tra regolarizzazione e abuso, riaffermando il principio di legalità nell’attività edilizia. Un richiamo alla responsabilità condivisa tra progettisti, amministratori e cittadini, in un settore dove la precisione normativa è condizione essenziale per la tutela del territorio e la sicurezza degli edifici.
Il condòmino danneggiato ha diritto ad un risarcimento, ma non può comunque sottrarsi all’obbligo di contribuire alla manutenzione delle parti comuni delle parti comuni dell’edificio.
Il proprietario ha citato in giudizio il condominio, chiedendo il risarcimento integrale dei danni subiti.
L’esame del Tribunale
La gestione delle parti comuni in un condominio è spesso fonte di controversie, soprattutto quando la mancata manutenzione provoca danni alle singole unità immobiliari.
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 9030 del 5 aprile 2025, ha stabilito un principio chiave: il condomino danneggiato ha diritto al risarcimento, ma non è esonerato dal contribuire alle spese di riparazione delle parti comuni.
Recita testualmente la massima: “Il condomino, che subisca nella propria unità immobiliare un danno derivante dall’omessa manutenzione delle parti comuni dell’edificio ai sensi degli artt. 1123, 1124, 1125 e 1126 del Codice civile, assume, quale danneggiato, la posizione di terzo avente diritto al risarcimento nei confronti del condominio, senza tuttavia essere esonerato dall’obbligo, che trova la sua fonte nella comproprietà o nella utilità di quelle e non nella specifica condotta illecita ad esso attribuibile, di contribuire a sua volta, in misura proporzionale al valore della rispettiva porzione, alle spese necessarie per la riparazione delle parti comuni dell’edificio e alla rifusione dei danni cagionati”.
Il caso giudiziario: il danno e la richiesta di risarcimento
La vicenda nasce dalla denuncia di un condòmino che ha subito danni alla propria unità immobiliare a causa della mancata manutenzione
Il Tribunale ha riconosciuto la responsabilità del condominio, stabilendo che l’omessa manutenzione aveva direttamente causato il danno.
Tuttavia, la Corte d’Appello ha parzialmente modificato la decisione, affermando che il condomino danneggiato, pur avendo diritto al risarcimento, non poteva essere esonerato dal contribuire alle spese di riparazione delle parti comuni.
Il ricorso in Cassazione
Il caso è arrivato in Cassazione, con il condomino che contestava l’obbligo di partecipare alle spese di ripristino, sostenendo che il danno fosse stato causato esclusivamente dall’inerzia del condominio.
L’esame dei giudici: diritto
al risarcimento, ma obbligo
di contribuire alle spese
La Cassazione ha confermato il principio stabilito dalla Corte d’Appello, chiarendo che: “Il condomino danneggiato assume la posizione di terzo avente diritto al risarcimento nei confronti del condominio”.
Tuttavia, il danno subito non lo esonera dall’obbligo di contribuire alle spese di riparazione delle parti comuni, in proporzione ai millesimi di proprietà.
L’obbligo di partecipazione alle spese non deriva da una condotta illecita, ma dalla comproprietà delle parti comuni e dalla loro utilità per tutti i condomini.
La Suprema Corte ha quindi rigettato il ricorso, confermando che il condomino danneggiato ha diritto al risarcimento, ma deve comunque partecipare alle spese di ripristino dell’edificio.
Un principio chiave per la gestione condominiale
Questa pronuncia della Cassazione stabilisce un precedente importante per la gestione delle controversie condominiali.
Se da un lato il condomino danneggiato può ottenere il risarcimento, dall’altro non può sottrarsi agli obblighi di contribuzione per la manutenzione delle parti comuni.
Un principio che rafforza la responsabilità collettiva nella gestione degli edifici condominiali, evitando che i costi di riparazione ricadano solo su alcuni proprietari.
La decisione di sostituire un vecchio citofono con un nuovo videocitofono in condominio genera spesso delle discussioni tra condòmini, principalmente per quanto concerne la tipologia di intervento e le maggioranze richieste per la delibera assembleare.
A tal proposito il Tribunale di Torino ha chiarito questi aspetti attraverso la Sentenza n. 3247 del 3 giugno 2024, evidenziando la sostanziale differenza tra gli interventi di manutenzione straordinaria e quelli di innovazione.
Nel caso di specie, alcuni condòmini hanno proposto l’impugnazione della delibera assembleare relativa all’esame dei preventivi per la sostituzione dei citofoni chiedendo la nullità o l’annullamento, in quanto, secondo tali condòmini si era in presenza di innovazioni e la maggioranza richiesta dalla normativa non era stata raggiunta. Di contro il condominio ha chiesto il rigetto delle domande affermando che le opere previste non rientravano nell’ambito delle innovazioni ma in quello della manutenzione straordinaria per il quale la maggioranza richiesta (ovvero quella prevista dall’art. 1136, secondo comma, c.c.), era stata raggiunta.
Come sappiamo, la distinzione tra manutenzione straordinaria e innovazione influisce direttamente sul quorum necessario per l’approvazione dei lavori. La relativa normativa stabilisce che un intervento di manutenzione straordinaria prevede la maggioranza dei voti degli intervenuti che rappresentino almeno la metà del valore dell’edificio, così come stabilito dall’art. 1136, secondo comma, del codice civile.
Per quanto riguarda le innovazioni, invece, è richiesta una maggioranza più elevata, ovvero la maggioranza dei voti dei presenti che rappresentino almeno i due terzi del valore dell’edificio, così come stabilito dall’art. 1136, quinto comma, del codice civile.
Tornando al caso esaminato, il Tribunale di Torino ha stabilito che l’intervento di sostituzione di un impianto citofonico con un impianto elettronico esterno costituito da un videocitofono digitale di nuova generazione non costituisce un’innovazione, bensì rientra tra le opere di manutenzione straordinaria.
Il Tribunale di Torino, difatti, ha precisato che: “Come affermato dalla Corte d’Appello di Genova nella pronuncia n. 755 del 30.7.2020, la previsione del videocitofono non comporta un’innovazione, poiché si tratta evidentemente di un adeguamento tecnologico di un impianto realizzato in epoca diversa e con minori caratteristiche tecniche. Il concetto di innovazione impone una trasformazione, un’introduzione di un qualcosa di completamente estraneo a quello che ha caratterizzato il bene o l’impianto comune e poco si addice a scelte che invece attengono all’evoluzione dei meccanismi per effetto del progredire della tecnologia”.
Inoltre, il Tribunale di Torino ha chiarito anche che: “Neppure la circostanza che l’impianto divenga esterno e non per singole scale appare sufficiente, a integrare una innovazione poiché si tratta semplicemente della diversa localizzazione della pulsantiera al di fuori dell’edificio.”
Sostanzialmente, il nuovo impianto di videocitofono non si può considerare innovazione, bensì un’opera di manutenzione straordinaria, proprio perché il nuovo impianto mantiene le stesse funzioni di quello precedente, migliorando però le prestazioni tecniche ma senza modificare la destinazione d’uso.
In conclusione se un condominio decide di installare un videocitofono sostituendolo ad un citofono tradizionale, per la delibera assembleare sarà sufficiente ottenere il voto favorevole della maggioranza degli intervenuti che rappresentino almeno la metà del valore dell’edificio.
A cura di Deborah Maria Foti – Ufficio Stampa ANAPI