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LOCAZIONI: DOPPIA IMPOSTA DI REGISTRO PER I CONTRATTI CON CLAUSOLE PENALI?

[A cura di: Achille Colombo Clerici – presidente Assoedilizia]
Alcuni soci di Assoedilizia, che hanno regolarmente registrato contratti di locazione negli anni scorsi, si sono visti notificare ad opera di alcuni dei sei ex Uffici del Registro di Milano, avvisi di liquidazione e di irrogazione delle sanzioni per omesso pagamento dell’imposta di registro relativa ai contratti di locazione stessi. 
È un orientamento degli uffici del tutto nuovo. Il motivo è che questi contratti conterrebbero delle “clausole penali” che prevedono una maggiorazione degli interessi legali in caso di ritardato pagamento del canone o degli oneri accessori. Si tratta, diciamo subito, di iniziative del tutto infondate, che mostrano, da un lato come il fisco si accanisca sempre e soprattutto su chi si preoccupa di esser ligio alla legge e di pagare le tasse (si tratta di contratti regolarmente registrati) e dall’altro come il rapporto con i contribuenti, nonostante le tante promesse e nonostante i proclami dello Statuto del Contribuente, non sia amichevole, ma veda nel Fisco una vera controparte, animosa e occhiuta, del contribuente stesso. 
LA REGISTRAZIONE
Ma vediamo meglio la questione. Per registrare un contratto di locazione si può procedere in via telematica mediante un software che l’Agenzia delle Entrate mette a disposizione dei contribuenti, oppure materialmente in via cartacea presentando il contratto presso uno degli uffici dell’agenzia. Orbene, in nessuno dei due casi era possibile, fino a qualche giorno addietro, neppure volendolo fare, registrare tali clausole penali pagando la relativa imposta. Il software non solo non avvisava il contribuente, ma neppure gli consentiva il calcolo dell’imposta aggiuntiva; mentre agli sportelli gli impiegati accettavano le richieste di registrazione senza nulla segnalare. 
Non solo: non esisteva neppure un codice tributo con il quale pagare la pretesa imposta sulle pretese clausole penali. Come se ciò non bastasse, il sito dell’Agenzia delle entrate, nella sezione dedicata alla registrazione delle locazioni, nulla diceva a proposito delle clausole penali come pure nulla diceva la guida dell’Agenzia alla registrazione dei contratti di locazione. Il tutto con buona pace del rapporto con i contribuenti che non vengono informati preventivamente, ma sanzionati a posteriori. Senza contare del comportamento differente dei vari uffici: alcune sedi hanno applicato sanzioni, altre no. 
NUOVO MODELLO
Solo da qualche giorno l’Agenza delle Entrate ha diffuso un nuovo modello, attraverso il quale sarebbe possibile teoricamente (visto che il modello entra in funzione il 18 settembre prossimo) la registrazione di siffatte clausole penali. A fronte, dunque, delle notificazioni intervenute, quand’anche fosse corretta l’interpretazione di questi uffici, il che decisamente contestiamo, va rilevato come il contribuente non fosse stato tempestivamente informato del mutato orientamento degli uffici ed, anche se lo fosse stato, non avesse modo alcuno di procedere al pagamento dell’imposta. 
Ma il vero paradosso è che l’interpretazione di questi uffici è del tutto infondata. Gli uffici giustificano l’autonoma imposizione sulla base dell’art. 21 del TU sull’imposta di registro il quale prevede che “Se un atto contiene più disposizioni che non derivano necessariamente, per la loro intrinseca natura, le une dalle altre, ciascuna di esse è soggetta ad imposta come se fosse un atto distinto.” Quindi se con un solo atto vengono stipulati più contratti, ciascuno di essi sarà soggetto ad un’autonoma imposta di registro secondo le regola specifiche per quel contratto. 
LA TASSAZIONE
Ma è sempre l’art.21 a stabilire che “Se le disposizioni contenute nell’atto derivano necessariamente, per la loro intrinseca natura, le une dalle altre, l’imposta si applica come se l’atto contenesse la sola disposizione che dà luogo alla imposizione più onerosa”. Quindi, in presenza di pattuizioni collegate tra loro e l’una derivante dall’altra, viene tassata solo quella che comporta la tassazione maggiore. Come è possibile stabilire se si è in presenza di disposizioni autonome ? Evidentemente quando presentano almeno uno degli elementi caratterizzanti diverso. Viene qui in considerazione il concetto di causa (nel senso giuridico del termine) che, in caso di pattuizione circa il pagamento di interessi di mora, non si configura in modo autonomo e distinto rispetto a quella dell’obbligazione principale del contratto di locazione, ossia del pagamento del canone e delle spese. La penale, nel caso in questione, non si configura come penale in senso tecnico-giuridico; in altri termini non è una pattuizione autonoma ma deriva direttamente dall’obbligazione di pagamento del canone e sta o cade con la stessa. 
In altri termini, questo patto non ha vita autonoma, non è cioè una autonoma disposizione. Quindi si è in presenza di un caso in cui le disposizioni derivano le une dalle altre e non possono essere autonomamente tassate. Ma la non autonoma tassabilità delle clausole in esame si fonda anche sul fatto che le stesse sono la fissazione convenzionale della misura degli interessi moratori già previsti per legge ex art.1124 c.c. Anche sotto questo profilo non possono considerarsi quindi autonome disposizioni.

SEPARAZIONE E CASA CONIUGALE: CHI PAGA LE SPESE CONDOMINIALI?

[A cura di: avv. Rodolfo Cusano]
In un Paese dove le separazione e i divorzi interessano una famiglia su due è argomento attuale stabilire se il coniuge assegnatario della casa coniugale di proprietà del marito è tenuto o meno al pagamento degli oneri condominiali e di quali. 
Fin dalla sua introduzione nel nostro ordinamento, l’istituto dell’assegnazione della casa familiare è stato oggetto di intensi dibattiti in merito alla sua natura giuridica. Alcuni autori lo hanno considerato come un istituto di natura reale assimilabile al diritto di abitazione; altra parte della dottrina e della giurisprudenza ha preso le distanze da siffatta tesi, giustificando tale dissenso sulla base del fatto che tra i modi di costituzione dei diritti reali – che, com’è noto, sono tassativamente previsti dalla legge – il legislatore non contempla quello per disposizione del giudice.
L’assegnazione della casa familiare, invero, si fonda su un provvedimento giudiziale emanato in virtù di criteri a carattere preferenziale. La sua durata non è determinata sin dall’origine ma dipende, piuttosto, da circostanze accidentali. Sulla base di tali considerazioni sono venute alla luce diverse opinioni. Alcuni hanno, infatti, ritenuto il diritto dell’assegnatario paragonabile a quello spettante al comodatario. Anche in questo caso non mancano evidenti distinzioni, una per tutte: l’obbligo alla restituzione dell’immobile concesso in comodato sancito dagli articoli 1804, terzo comma, e 1809, secondo comma, c.c. Altri hanno ritenuto il fenomeno dell’assegnazione della casa familiare assimilabile ad una locazione, seppure manchi, nell’assegnazione, il requisito del corrispettivo per l’utilizzazione dell’immobile, anche se la Suprema Corte (Cass. n. 4529/1999) non ha mancato, in passato, di evidenziare come i due istituti siano profondamente differenti per natura, funzione e durata.
Il diritto all’assegnazione quale diritto personale di godimento (atipico) 
Infatti, la giurisprudenza (per tutte Cass. n. 11096/2002) sembra concorde nel ritenere che il provvedimento giudiziale di assegnazione della casa coniugale attribuisca al coniuge assegnatario un diritto personale di godimento, diritto atipico in quanto, fino ad oggi, non disciplinato espressamente dalla legge. Fatta questa premessa è adesso necessario analizzare come si possa individuare il soggetto obbligato al pagamento degli oneri condominiali nell’ipotesi in cui, a seguito della separazione personale, un appartamento di proprietà di un coniuge venga dal giudice assegnato all’altro coniuge non proprietario.
La Suprema Corte, invero, si è già pronunciata con la nota sentenza n. 18476/2005 su tale problema, affermando che il giudice di merito, che in sede di separazione coniugale disponga l’assegnazione della casa familiare al coniuge che non sia titolare del diritto di proprietà sull’immobile o non sia titolare del diritto di godimento possa stabilire la totale gratuità dell’assegnazione ponendo tutte le spese a carico del coniuge non assegnatario, ivi compresi gli oneri condominiali. A tal fine, tuttavia, è necessaria una statuizione espressa e non equivoca del decidente. Infatti, nella diversa ipotesi in cui il giudice non intervenga espressamente su tale punto e si limiti a dichiarare l’assegnazione, occorre concludere che quest’ultima esoneri il coniuge assegnatario unicamente dal pagamento di un corrispettivo per l’utilizzo dell’immobile. In questa ipotesi la gratuità dell’assegnazione dovrà essere riferita soltanto all’uso dell’abitazione medesima e «non si estende alle spese correlate a detto uso (ivi comprese quelle condominiali, che riguardano la manutenzione delle cose comuni poste a servizio anche dell’abitazione familiare), onde tali spese vanno legittimamente poste a carico del coniuge assegnatario».
È opportuno sottolineare che soltanto il giudice della separazione ha la possibilità di statuire su detta questione. Conseguentemente, nel caso in cui il giudice decida espressamente come ripartire tutte le spese relative alla casa coniugale oggetto dell’assegnazione, occorrerà indubbiamente uniformarsi alle sue statuizioni. Nella diversa ipotesi in cui il giudice abbia assegnato la casa al coniuge non proprietario sic et simpliciter, le spese condominiali dovranno essere poste a carico del coniuge assegnatario.
L’obbligo dell’assegnatario non proprietario è limitato al pagamento degli oneri condominiali ordinari e non anche di quelli straordinari
La Cassazione, nel giudizio a seguito del quale è stata emessa la succitata sentenza, stava inoltre per pronunciarsi su un’altra questione di particolare interesse, ovvero, se, nel caso in cui gli oneri condominiali siano da ritenere a carico del coniuge assegnatario non proprietario, questi sia obbligato al pagamento di tutte le spese indistintamente o se, viceversa, debba effettuarsi una distinzione tra spese ordinarie, spese di conservazione e spese straordinarie. Nel predetto giudizio, infatti, il coniuge assegnatario della casa familiare sosteneva che tra gli oneri condominiali di cui si chiedeva il pagamento ve ne fossero alcuni che, a suo avviso, sarebbero dovuti essere posti necessariamente a carico del coniuge proprietario dell’appartamento (nella specie: la spesa per il portierato e la spesa per l’assicurazione dell’immobile). La Suprema Corte non ha potuto decidere su tale questione a causa dell’omissione, da parte del ricorrente, dell’indicazione analitica delle voci relative alle spese straordinarie contestate, derivando da ciò l’impossibilità di accertarne l’effettiva presenza e la concreta misura e il conseguente impedimento per la Suprema Corte di apprezzare la fondatezza della doglianza in argomento. 
Ciononostante, anche in mancanza di una statuizione della Cassazione sulla questione, sembra opportuno ed equo considerare a carico del coniuge assegnatario non proprietario soltanto le spese ordinarie ed a carico del coniuge proprietario le spese straordinarie e quelle di conservazione. 
Il Tribunale di Mantova (sent. n. 229/2007) ha espressamente dichiarato di condividere l’orientamento secondo cui «se alla moglie viene attribuito il diritto di abitare la casa di proprietà del marito, senza che nulla si stabilisca circa le spese inerenti all’immobile, queste devono essere ripartite secondo criteri desumibili dalla disciplina normativa degli istituti giuridici in cui si verifica analoga situazione di distacco soggettivo del godimento dell’immobile dal diritto di proprietà: saranno quindi a carico del titolare del diritto di godimento tutte le spese per le riparazioni ordinarie dipendenti da deterioramenti prodotti dall’uso e non invece da vetustà e caso fortuito (v. articoli 1575, n. 2), 1576, 1609 c.c.) che dovranno essere poste a carico del proprietario unitamente alle spese di carattere straordinario inerenti alla proprietà o alla sua conservazione».
Il Tribunale di Mantova ha rilevato un’analogia tra la situazione derivante dal provvedimento di assegnazione della casa coniugale al coniuge non proprietario e il rapporto di locazione e ha conseguentemente risolto il problema della ripartizione delle spese applicando al primo caso citato le norme dedicate al contratto di locazione. Sebbene la sentenza si riferisse a spese relative a riparazioni interne all’appartamento, questa soluzione interpretativa può bene essere seguita ed applicata anche nel caso in cui si tratti di spese condominiali, atteso che anche tra queste si distingue tra spese ordinarie e straordinarie, di manutenzione e di conservazione. 
Alla luce di quanto esposto è possibile concludere che l’amministratore di un condominio, al fine di ripartire gli oneri condominiali tra il proprietario di un’unità immobiliare (spogliato del godimento della stessa) e il suo ex coniuge assegnatario della casa familiare, può e deve applicare analogicamente le norme dettate in tema di locazione. Quanto alle imposte è stato chiarito che rimangono sempre a carico del proprietario dell’immobile, ovvero del titolare di altro diritto reale. Pertanto, l’assegnatario della casa coniugale che non sia titolare di diritti reali sull’abitazione familiare, non può essere considerato soggetto passivo di imposta per il pagamento del summenzionato tributo (Cass. n. 18476/2005).
La posizione dell’usufruttuario
Per completezza di disamina, va anche esaminata la posizione di chi gode di un diritto di usufrutto della casa di abitazione. Ciò in quanto ben potrebbe accadere che un coniuge abbia la nuda proprietà e l’altro il solo usufrutto. In questo caso la situazione è del tutto diversa da quella precedentemente esaminata. Infatti, la riforma del condominio (L. 220/2012), nel modificare l’articolo 67 disp. att. c.c., ha chiarito anche la posizione dell’usufruttuario in merito al pagamento delle spese condominiali. La norma in esame, infatti, dopo aver chiarito che l’usufruttuario esercita il diritto di voto negli affari che attengono all’ordinaria amministrazione ed al semplice godimento delle cose e dei servizi comuni (nelle altre deliberazioni, invece, il diritto di voto spetta al nudo proprietario) prevede espressamente una responsabilità solidale del nudo proprietario e dell’usufruttuario per il pagamento dei contributi dovuti all’amministrazione condominiale.
Tale nuova disciplina prevista dall’articolo 67 disp. att. c.c., nel disporre la solidarietà tra usufruttuario e nudo proprietario, non distingue tra spese ordinarie (che a norma dell’articolo 1004 c.c. competono all’usufruttuario) e spese straordinarie (che a norma dell’articolo 1005 c.c. spettano al nudo proprietario). Ciò significa che la ripartizione (tra usufruttuario e nudo proprietario) degli oneri condominiali, a seconda della natura ordinaria o straordinaria della spesa relativa, è lasciata alla disciplina dei loro rapporti interni, ben potendo il condominio pretendere l’intero importo dovuto sia dall’usufruttuario sia dal nudo proprietario.

ATTO TRIBUTARIO CONSEGNATO AL PORTIERE: NON SERVE LA RACCOMANDATA AL DESTINATARIO

[A cura di: Massimo Cancedda, FiscoOggi – Agenzia delle Entrate]

Per la validità della notificazione dell’atto tributario, eseguita in via diretta a mezzo del servizio postale mediante consegna nelle mani del portiere, non è richiesto l’invio al destinatario della raccomandata informativa, prevista per analoga fattispecie dall’articolo 139 del codice di procedura civile. Così ha concluso la Corte suprema, con la sentenza 11619/2017, ove è stato altresì ribadito che la disciplina delle notifiche postali dirette è quella concernente il servizio postale ordinario e non quella dettata dalla legge 890/1982.

Vicenda processuale

Ricevuto un preavviso di fermo, l’interessato proponeva impugnazione al tribunale di Roma, rilevando l’omessa notifica della cartella di pagamento che ne costituiva il presupposto. La sfavorevole decisione di prime cure veniva riformata dalla Corte d’appello, che affermava la nullità della notifica dell’atto prodromico per violazione dell’articolo 7 della legge 890/1982. In particolare, il Collegio di secondo grado concludeva che per la ritualità della notifica postale della cartella – consegnata al portiere presso l’indirizzo di residenza del destinatario – sarebbe stato necessario l’invio all’interessato dell’apposita raccomandata informativa dell’avvenuta notificazione prevista dalla legge.

Ricorrendo in sede di legittimità, l’Agente della riscossione, per quanto d’interesse in questa sede, denunciava violazione dell’articolo 26 del Dpr 602/1973 e falsa applicazione dell’articolo 7 della legge 890/1982, per avere, a suo dire, il giudice di appello errato nell’applicare alla fattispecie quest’ultima norma riguardante ipotesi diversa da quella in discussione.

Pronuncia della Corte

L’esposta doglianza è stata accolta dalla Corte, che ha innanzitutto ricordato che, in base all’articolo 26 del Dpr 602/1973, la notifica della cartella può “essere eseguita anche mediante invio, da parte dell’esattore, di lettera raccomandata con avviso di ricevimento” e che, in tal caso, “la notifica si ha per avvenuta alla data indicata nell’avviso di ricevimento sottoscritto dal ricevente o dal consegnatario, senza necessità di redigere un’apposita relata di notifica…”. 

In generale, spiegano i togati di piazza Cavour, quando l’ufficio si avvale di questa modalità semplificata di notifica, “alla spedizione dell’atto si applicano le norme concernenti il servizio postale ordinario e non quelle indicate dalla legge n. 890 del 1982 (Cass. n. 17598 del 2010, Cass. n. 911 del 2012, Cass. n. 14146 del 2014, Cass. 19771 del 2013, Cass. 16949 del 2014)” e, in caso di consegna del piego postale al portiere, l’invio della raccomandata informativa prevista dal quarto comma dell’articolo 139 cpc “non attiene alla perfezione dell’operazione di notificazione, sicché la sua omissione si risolve in una mera irregolarità di carattere estrinseco non integrante alcuna delle ipotesi di nullità previste dall’art. 160”.

Osservazioni

Non è infrequente che la notificazione di un atto venga eseguita a mezzo del servizio postale e che, in fase di recapito, l’atto venga ricevuto per conto del diretto interessato da qualcuno dei soggetti che la legge individua come legittimi consegnatari, persone tra le quali è ricompreso il portiere dello stabile che si trova all’indirizzo del destinatario. Al riguardo, ad esempio, l’articolo 7 della legge 890/1982 prevede al terzo comma che, quando la notificazione postale è eseguita secondo la disciplina prevista per gli “atti giudiziari”, il piego da notificare, in assenza di altri legittimi consegnatari, può essere consegnato anche “al portiere dello stabile ovvero a persona che, vincolata da rapporto di lavoro continuativo, è comunque tenuta alla distribuzione della posta al destinatario”. In questo caso, l’ultimo comma dello stesso articolo 7 stabilisce che l’agente postale fornisce al destinatario notizia dell’avvenuta notificazione dell’atto a mezzo di lettera raccomandata: la mancanza di detto adempimento, per costante giurisprudenza, comporta la nullità della notificazione nei confronti del destinatario dell’atto (tra le altre, cfr Cassazione, 16209/2014, 10554/2015 e 992/2016).

Peraltro, l’articolo 14 della legge 890/1982 – analogamente a quanto stabilito dall’articolo 26 del Dpr 602/1973 per la cartella di pagamento – reca una disciplina speciale per gli atti tributari, stabilendo che la relativa notificazione può “avvenire con l’impiego di plico sigillato e può eseguirsi a mezzo della posta direttamente (vale a dire, senza intermediazione dell’ufficiale giudiziario o di altro agente notificatore: cfr Cassazione, 3334/2017, 1980/2015 e 23117/2013) dagli uffici finanziari…”. Sul punto, la giurisprudenza ha chiarito che, quando la notifica è eseguita dall’ufficio a mezzo del servizio postale in via diretta, non rilevano le disposizioni della legge 890/1982, che “concernono esclusivamente la notifica eseguita dall’ufficiale giudiziario (o agente notificatore equiparato, tra cui il messo speciale autorizzato degli uffici finanziari)” (cfr Cassazione, 12217, 11094, 11007, 10245, 9614 e 9227, tutte del 2017), ma trova applicazione la disciplina prevista per le raccomandate cosiddette “ordinarie” dal Dpr 655/1982 e, ratione temporis, dai decreti del ministero delle Comunicazioni del 9 aprile 2001 e del ministero dello Sviluppo economico del 1° ottobre 2008; attualmente, si rendono applicabili le regole fissate dall’allegato A alla delibera dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni del 20 giugno 2013, n. 385/13/Cons. Nelle richiamate discipline non è previsto che al recapito del piego in mani di persona diversa dal diretto interessato debba far seguito l’invio a quest’ultimo di una “comunicazione di avvenuta notifica”. 

Per costante giurisprudenza, quindi, in caso di notifica diretta a mezzo raccomandata postale, non occorre alcuna annotazione specifica sull’avviso di ricevimento in ordine alla persona cui è consegnato il plico e l’atto recapitato all’indirizzo del destinatario deve ritenersi ritualmente consegnato a quest’ultimo, “stante la presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 cod. civ., superabile solo se il medesimo dia prova di essersi trovato senza sua colpa nell’impossibilità di prenderne cognizione”; e ciò vale anche quando l’atto sia ricevuto dal portiere, senza che necessiti “l’ulteriore adempimento della raccomandata informativa, quale previsto dall’art. 7, 6° comma della L. n. 890/1982, analogamente a quanto disposto dall’art. 139, 4° comma c.p.c. in tema di notifica al portiere per ufficiale giudiziario” (cfr Cassazione, 6680/2016 e 23874/2015).

AFFITTI E REGISTRAZIONI ON LINE: DA SETTEMBRE IL NUOVO MODELLO RLI

[A cura di: FiscoOggi – Agenzia delle Entrate]

Pronto il nuovo Rli, il modello per registrare i contratti di locazione e affitto di immobili e per comunicare eventuali proroghe, cessioni, risoluzioni e subentri, nonché per esercitare o revocare l’opzione per il regime della cedolare secca. 

L’approvazione del modello è arrivata con il provvedimento delle Entrate del 15 giugno 2017, che vi ha dato il via libera, insieme alle relative istruzioni e alle specifiche tecniche per la trasmissione telematica. Il nuovo Rli entrerà ufficialmente in servizio dal prossimo 19 settembre, in sostituzione di quello approvato il 10 gennaio 2014. Quest’ultimo rimane in carica, da solo, fino al giorno precedente: scambio di testimone tra i due, quindi, senza periodi di sovrapposizione.

LE FUNZIONI

Il modello è utilizzato anche per: registrare contestualmente i contratti di affitto di terreni e degli annessi titoli Pac (in sostituzione del modello 69); comunicare i dati catastali dell’immobile oggetto di locazione o di affitto; denunciare i contratti di locazione non registrati, i contratti di locazione con canone superiore a quello registrato o i comodati fittizi; registrare i contratti di locazione con previsione di canoni differenti per le diverse annualità; registrare i contratti di locazione a tempo indeterminato; gestire la comunicazione della risoluzione o proroga tardiva in caso di cedolare secca; registrare i contratti di locazione di pertinenze concesse con atto separato rispetto all’immobile principale.

LE NOVITÀ

Con il restyling, oltre all’inserimento di alcuni spazi che forniscono dati aggiuntivi riguardanti i soggetti interessati e il tipo di contratto, debutta il nuovo quadro E; deve essere compilato soltanto se per una o più annualità è previsto un canone differente e se la casella “Casi particolari” del quadro “A – Dati generali”, è stata valorizzata con i codici “1” o “3” che individuano, appunto, tale ipotesi. Il secondo codice, in particolare, indica che si è scelto di pagare l’imposta in un’unica soluzione per tutto il periodo del rapporto di locazione. Il canone per la prima annualità deve essere inserito nella sezione 1 del quadro A; per quelle successive, i canoni trovano posto nei campi del novello quadro E.

IMU E TASI, CONFEDILIZIA: “SERVE UN’ALIQUOTA RIDOTTA PER I CONTRATTI D’AFFITTO AGEVOLATI”

La scadenza dell’acconto 2017 di Imu e Tasi, scoccata lo scorso venerdì 16 giugno, ha portato nelle casse dei Comuni 10/11 miliardi di euro, e Confedilizia ha calcolato nell’8,8 per mille la media della somma delle aliquote Imu e Tasi deliberate dai Comuni capoluogo di provincia per gli immobili locati a “canone agevolato”, e nel 10,5 per mille l’aliquota media ordinaria.

A questo proposito, il presidente di Confedilizia, Giorgio Spaziani Testa (nella foto), ha dichiarato: “I dati sulle aliquote Imu e Tasi confermano l’urgenza di un intervento legislativo per salvare, almeno, l’affitto. Non si può lasciare ai Comuni la cura di un settore che – nell’ambito abitativo come in quello non abitativo – svolge, attraverso tante famiglie che hanno investito i propri risparmi negli immobili, una funzione economica e sociale indispensabile. Per quanto riguarda le abitazioni, quasi vent’anni fa il Parlamento introdusse una speciale categoria di contratti di locazione – i cosiddetti contratti concordati – fondata su un patto molto chiaro: canoni al di sotto di quelli di mercato in cambio di agevolazioni fiscali per i proprietari. Dopo la manovra Monti del 2011, la tassazione su questi immobili si è addirittura quadruplicata, annullando l’effetto della cedolare secca introdotta pochi mesi prima. E l’appetibilità degli affitti a canone calmierato si è di molto affievolita. Considerato che i Comuni prevedono solo raramente aliquote agevolate per le abitazioni locate attraverso questi contratti (la media dei capoluoghi di Provincia è dell’8,8 per mille e in molti casi vengono applicate addirittura le aliquote massime), è urgente la fissazione per legge di una misura massima della somma delle aliquote Imu-Tasi, che potrebbe essere individuata nel 4 per mille. Peraltro, il prossimo 31 dicembre scadrà il periodo di applicazione della misura del 10% della cedolare secca, valida per gli affitti a canone calmierato nei Comuni ad alta tensione abitativa. Considerata l’importanza – anche sociale – che riveste questa misura, è essenziale stabilizzarla, estendendo la sua applicabilità a tutta Italia”.

Ma ancora peggiore, secondo Spaziani Testa, è la situazione nel comparto delle locazioni non abitative: “I Comuni non prevedono quasi mai aliquote specifiche per la locazione di locali commerciali. Di conseguenza, in questi casi viene applicata l’aliquota ordinaria, che in media è pari al 10,5 per mille. Nel complesso, le imposte, statali e locali (ben 7: Irpef, addizionale regionale Irpef, addizionale comunale Irpef, Imu, Tasi, imposta di registro, imposta di bollo), arrivano ad erodere fino all’80% del canone di locazione, anche per via della irrisoria deduzione Irpef per le spese, pari al 5%. Senza considerare il rischio di morosità e quello di sfitto che contribuiscono ad azzerare la redditività dell’investimento. Anche qui si impone un intervento legislativo, sotto forma di estensione della cedolare secca all’affitto non abitativo ovvero di limite alla tassazione comunale”.

SE I CONDÒMINI SONO DISTURBATI DA CANI CHE ABBAIANO E PORTE CHE SBATTONO

L’attitudine dei rumori a disturbare il riposo delle persone non deve essere necessariamente accertata mediante perizia o consulenza tecnica, ben potendo il giudice fondare il proprio convincimento su elementi probatori di diversa natura, quali le testimonianze dei condòmini. È il principio di diritto richiamato dalla Cassazione con l’ordinanza 28409/2017 relativa a una vicenda di rumori molesti in condominio.

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CORTE DI CASSAZIONE

Sez. VII pen., ord. n. 28409/2017

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RITENUTO 

* che il Tribunale di Massa, con sentenza del 28 febbraio 2011, ha affermato la penale responsabilità di T.B. in ordine al reato di cui all’art. 659 cod. pen. (reato commesso ed accertato in Massa nel mese di aprile 2009); 

* che avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione – tramite il proprio difensore – l’imputato, denunziando l’insussistenza del reato e lamentando violazione della legge processuale penale e manifesta illogicità della motivazione per avere il Tribunale affermato la penale responsabilità sulla base di una superficiale ed incompleta valutazione del materiale probatorio, attraverso argomentazioni manifestamente illogiche; 

* che, contrariamente all’assunto difensivo, il giudice di merito ha valorizzato, ai fini dell’affermazione di responsabilità, il complessivo materiale probatorio acquisito agli atti processuali; 

* che, nella specie (riguardante rumori provenienti dal continuo abbaiare di cani nelle ore notturne all’interno della abitazione ove gli stessi si trovavano e dall’urto continuo di tapparelle con disturbo permanente dei residenti nel condominio), sono stati accertati sulla base delle numerose e concordi testimonianze acquisite, rumori molesti insopportabili e continui cagionati dal frequente ed incontrollato abbaiare dei cani in ore notturne lasciati soli nell’assenza del proprietario dell’appartamento, nonché dallo sbattere di continuo di porte, finestre ed inferriate dell’abitazione: rumori tutti ascrivibili al T.B., che, solo dopo essere stato convocato dal Questore di Lucca reso edotto di quanto sopra dall’Amministratore del condominio cui si erano rivolti, esasperati, numerosi condòmini, nonché altri condòmini di edificio limitrofo per fare cessare i rumori molesti, ha modificato il proprio comportamento; 

* che è consolidato l’orientamento di questa Corte in materia di configurabilità del reato di cui all’art. 659 cod. pen. nel senso che l’attitudine dei rumori a disturbare il riposo o le occupazioni delle persone non deve essere necessariamente accertata mediante perizia o consulenza tecnica, ben potendo il giudice fondare il proprio convincimento su elementi probatori di diversa natura, quali le dichiarazioni di coloro che sono in grado di riferire le caratteristiche e gli effetti dei rumori percepiti, sì che risulti oggettivamente superata la soglia della normale tollerabilità (omissis); 

* che le censure concernenti asserite carenze argomentative sui singoli passaggi della ricostruzione fattuale dell’episodio e dell’attribuzione dello stesso alla persona dell’imputato non sono proponibili nel giudizio di legittimità, quando la struttura razionale della decisione sia sorretta, come nella specie, da logico e coerente apparato argomentativo, esteso a tutti gli elementi offerti dal processo, e il ricorrente si limiti sostanzialmente a sollecitare la rilettura del quadro probatorio, alla stregua di una diversa ricostruzione del fatto, e, con essa, il riesame nel merito della sentenza impugnata; 

* che le considerazioni svolte dalla difesa del ricorrente in ordine alla dichiarazioni dei testi sono sostanzialmente di tipo fattuale e come tali inammissibili in sede di legittimità; 

* che il ricorso, conseguentemente, va dichiarato inammissibile e, poiché la inammissibilità non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione, non può tenersi conto di eventuali cause di estinzione del reato intervenute successivamente alla pronuncia della decisione impugnata (omissis); 

– che, a norma dell’art. 616 c.p.p., alla declaratoria di inammissibilità – non potendosi escludere che essa sia ascrivibile a colpa del ricorrente (Corte Cost. 7-13 giugno 2000, n. 186) consegue l’onere delle spese del procedimento, nonché quello del versamento, in favore della Cassa delle ammende, della somma, equitativamente fissata, di euro 1.000. 

P.Q.M. 

Dichrara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di euro 1.000 alla Cassa delle Ammende. 

CRONACA FLASH DALLA CASA E DAL CONDOMINIO

La cantina va a fuoco

In tre in ospedale

Un uomo di 67 anni, residente in un condominio in provincia di Alessandria, è rimasto gravemente ferito a seguito di un incendio divampato nella sua cantina. Il 67enne è stato trasportato al Cto di Torino con ustioni di secondo e terzo grado sul 30% del corpo. A soccorrerlo sono stati due condòmini, rimasti leggermente intossicati nel tentativo di spegnere le fiamme con un idrante. Sul posto sono arrivati tempestivamente anche i vigili del fuoco, che hanno estinto il rogo e verificato le condizioni di sicurezza dell’edificio. Sono in corso le indagini per accertare le cause dell’incendio. 

Tragedia domestica: 

bimbo muore folgorato

Aveva poco più di due anni il bambino rimasto ucciso dopo aver infilato un oggetto metallico nella presa di corrente. La tragedia è avvenuta in un appartamento alle porte di Parma, dove il piccolo viveva insieme alla madre, il padre e la sorellina. Da una prima ricostruzione dei fatti risulta che in casa, assieme al minore, si trovasse soltanto la madre. Purtroppo però non si era accorta che il figlio aveva preso una frusta del frullatore per poi infilarla nella presa elettrica. Sbalzato all’indietro per la potente scossa, ha perso subito conoscenza ed è stato trasportato all’ospedale, dove è spirato poco dopo. Sotto shock la mamma, è stata colpita da un malore. 

Lite per il cane

con lame e bastoni

Un giovane di 24 anni, residente al piano terra di una palazzina di Vicenza, ha deciso di affrontare i vicini di casa rumorosi arrampicandosi lungo la parete esterna del condominio, armato di una mezzaluna da cucina. Motivo: il cane degli inquilini del primo piano che non smetteva di abbaiare nonostante fosse passata la mezzanotte. Quando i padroni dell’animale si sono accorti del 24enne hanno chiamato la polizia, riprendendo la scena col cellulare. All’arrivo delle forze dell’ordine gli animi si erano calmati, ma a riaccendere la lite ci ha pensato il fidanzato della figlia del padrone del cane, giunto sul posto con un bastone. A quel punto gli agenti l’hanno bloccato e denunciato. 

Spacciatore seriale

Vendeva droga da casa

Sequestrati trenta grammi di cocaina, tre di hashish, due di marijuana e tremila euro in contanti: questo il risultato del blitz messo in atto dai carabinieri di un comune in provincia di Perugia presso l’abitazione di un 40enne, arrestato. Durante la perquisizione della casa è stato trovato anche un bilancino elettronico e tutto il necessario per il confezionamento delle dosi. A seguito delle indagini è emerso che l’uomo, dedito allo spaccio, nonostante il recente trasferimento nella zona in poco tempo, era diventato un punto di riferimento per i tossicodipendenti della città. Per questo motivo il giudice ha deciso di disporne la custodia in carcere.

Furto in casa con riscatto

Quattro persone nei guai

È stata sgominata la banda di topi d’appartamento che circa un anno fa aveva messo a segno un colpo record da 250mila euro, svaligiando un’abitazione in provincia di Foggia. Il lauto bottino, composto da oggetti d’oro, denaro contante e titoli di credito, era stato poi oggetto di una trattativa tra le vittime del furto, che volevano recuperare il malloppo, e i malviventi. L’accordo raggiunto, però, non ha soddisfatto i legittimi proprietari che hanno deciso di rivolgersi ai carabinieri. Grazie alle intercettazioni telefoniche sono finiti in manette in quattro, tutti residenti nella zona e ritenuti responsabili, a vario titolo, dei reati di estorsione aggravata e ricettazione in concorso. 

CASA “DI LUSSO”: NIENTE SANZIONI PER FALSE DICHIARAZIONI ANTE 2014

[A cura di: Ance Foggia]

Esclusione dalle sanzioni in caso di decadenza dai benefici “prima casa” ai fini dell’imposta di Registro, nell’ipotesi di acquisto, prima del 2014, di un’abitazione di lusso secondo i criteri del previgente D.M. 2 agosto 1969. Questo il principio espresso dalla Corte di Cassazione della Sentenza 11 maggio 2017, n. 11621, in materia di applicabilità dei benefici fiscali “prima casa”, ai fini dell’imposta di Registro (cfr. l’art. 1 della Tariffa, Parte Prima, allegata al D.P.R. 131/1986.).

In particolare, il caso di specie riguarda la compravendita di un’abitazione effettuata nel 2001, relativamente alla quale l’acquirente aveva fruito dei benefici “prima casa” ai fini dell’imposta di Registro (aliquota allora pari al 3%, anziché 9%), nonostante l’unità immobiliare avesse le caratteristiche c.d. “di lusso”, secondo i criteri del previgente D.M. 2 agosto 1969. Come noto, infatti, fino al 31 dicembre 2013 le agevolazioni fiscali (ai fini IVA e Registro) correlate all’acquisto di abitazioni da destinare a “prima casa”, trovavano applicazione unicamente a condizione che l’immobile fosse qualificato come “non di lusso”, sempre in base al predetto D.M. 2 agosto 1969.

Proprio con riferimento alle caratteristiche di tali abitazioni, il regime è cambiato dal 1° gennaio 2014 e la definizione “di lusso” è stata sostituita dall’accatastamento delle stesse nelle categorie A1 (abitazioni di tipo signorile), A8 (abitazioni in ville) ed A9 (castelli e palazzi con pregi artistici e storici). In sostanza, dal 2014 le agevolazioni “prima casa” (ai fini IVA e Registro) vengono riconosciute per l’acquisto di abitazioni accatastate nelle categorie diverse da A1, A8 ed A9, secondo un criterio puramente catastale.

Nella sentenza n. 11621/2017 la Cassazione, nel confermare la decadenza dai benefici “prima casa”, ha stabilito l’applicabilità dell’imposta di Registro nella misura ordinaria, sul presupposto che l’abitazione acquistata nel 2001 presentava le caratteristiche “di lusso” secondo i criteri del D.M. 2 agosto 1969, allora in vigore. Diversamente, è stata esclusa l’applicabilità della sanzione, proprio in considerazione dell’intervenuta modifica normativa che ha cancellato l’oggetto della falsa dichiarazione resa a suo tempo dal contribuente, relativa ai requisiti “non di lusso” dell’abitazione. In pratica, la Cassazione ha ritenuto che, nel caso di specie, è stato addirittura superato il principio del favor rei in materia di sanzioni amministrative per violazioni tributarie (cfr. l’art. 3, co. 2, del D. Lgs. 472/1997) poiché è cambiata proprio la disciplina sostanziale a cui è correlata la sanzione. 

In linea generale, si ricorda che la sanzione applicabile in caso di decadenza dai benefici “prima casa”, ai fini dell’imposta di Registro è pari al 30% dell’imposta ordinaria. Infatti, a prescindere dalla circostanza che la violazione sia stata commessa in passato, l’applicabilità della sanzione, ove non ancora versata, deve essere valutata tenendo conto del regime fiscale ad oggi in vigore, con la conseguenza che il comportamento che avrebbe dato luogo alla sanzione non appare più rilevante, poiché riferito a “parametri normativi non più vigenti” (ossia i requisiti “non di lusso”, ora sostituiti dal criterio catastale).

Il principio espresso dalla Cassazione, secondo il quale la sanzione è stata esclusa in osservanza del nuovo criterio catastale che individua le abitazioni “di lusso”, può essere invocato anche ai fini IVA, nell’ipotesi di acquisto di abitazioni “di lusso” da imprese di costruzioni, effettuato prima del 13 dicembre 2014, in presenza di verifiche fiscali volte ad accertare la decadenza dai benefici “prima casa”.

EREDITA TERRENO E LO RENDE EDIFICABILE: C’È PLUSVALENZA TASSABILE A FINI IRPEF

[A cura di: Emiliano Marvulli – FiscoOggi, Agenzia delle Entrate]

La vendita di un terreno sul quale, dopo l’acquisto, sono state realizzate opere intese a renderlo edificabile, che ne hanno aumentato il valore, genera sempre una plusvalenza tassabile ai fini Irpef, anche nell’ipotesi in cui il bene sia pervenuto al contribuente a seguito di successione mortis causa. Questo il principio ribadito dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 13071 del 24 maggio 2017.

IL FATTO

L’amministrazione finanziaria notificava nei confronti di un contribuente un avviso di accertamento, contenente la determinazione di una plusvalenza derivante dalla cessione di un terreno di proprietà, sul quale erano state realizzate attività edificatorie. Avverso l’atto impositivo il contribuente proponeva prima ricorso in Commissione tributaria provinciale – parzialmente vinto con la riduzione alla metà del maggior reddito accertato – e, successivamente, dinanzi alla Commissione regionale, che lo accoglieva in toto, con conseguente annullamento dell’avviso di accertamento.

L’amministrazione finanziaria proponeva ricorso alla Commissione tributaria centrale, che lo rigettava sulla base del principio per cui non può ravvisarsi una plusvalenza in capo a un soggetto “che abbia ricevuto il bene, oggetto di realizzazione edificatoria, a titolo successorio”. L’amministrazione finanziaria, quindi, ha impugnato tale decisione dinanzi alla Corte di cassazione sulla base di due motivi. I giudici della Corte hanno accolto il principale motivo di impugnazione e hanno cassato con rinvio la sentenza.

LA DECISIONE

La questione posta all’attenzione dei giudici di legittimità ruota attorno alla corretta qualificazione e determinazione delle plusvalenze derivanti dalla cessione di terreni, su cui sono state realizzate attività edificatorie, nella particolare ipotesi di acquisto per successione. In tutti i gradi del giudizio, i giudici di merito hanno escluso la qualificazione di plusvalenza imponibile perché, essendo stato acquisito l’immobile per successione mortis causa, non si genererebbe mai una plusvalenza tassabile in capo al contribuente.

I giudici della suprema Corte di cassazione hanno ribaltato il giudizio di merito e hanno accolto le doglianze dell’amministrazione finanziaria, che lamentava violazione dell’articolo 76, comma 3, del Dpr 597/1973 (vigente ratione temporis), contenente le disposizioni sui redditi derivanti da operazioni speculative. Secondo il citato articolo 76, è sempre fatta “con intenti speculativi, senza possibilità di prova contraria, l’esecuzione di opere intese a rendere edificabili i terreni inclusi in piani regolatori o in programmi di fabbricazione, e la successiva vendita anche parziale dei terreni”. Sulla base di tale principio, pertanto, il realizzo di una plusvalenza derivante dalla cessione di un terreno, su cui sono state realizzate opere edificatorie che ne hanno aumentato il valore, costituisce reddito tassabile ai fini delle imposte dirette, quand’anche il bene sia pervenuto al contribuente per successione o per divisione ereditaria.

Infatti, sulla scia di una precedente decisione assunta dai giudici di legittimità, la Corte ha ribadito che, “quando tra il momento dell’acquisto e quello dell’alienazione siano state compiute attività e operazioni intese ad aumentare il valore dei beni così pervenuti”, si genera, comunque, materia imponibile in capo al cedente, indipendentemente dalle modalità di acquisizione del cespite. In tale prospettiva, non può essere accolta la posizione delle Commissioni tributarie che, sulla base di un’erronea interpretazione del citato articolo 76, hanno affermato di voler privilegiare l’interpretazione restrittiva che porta a escludere, in ogni caso, l’esistenza di una plusvalenza tassabile “ove il bene sia pervenuto al contribuente a seguito di successione mortis causa”.
 

LA DIFESA IN GIUDIZIO DELLE DELIBERE IMPUGNATE? COMPETE ALL’AMMINISTRATORE

Rientra nelle attribuzioni dell’amministratore la difesa in giudizio delle delibere impugnate indipendentemente dal loro oggetto. Se non è stata l’assemblea a deliberare la lite ai sensi dell’art. 1132 c.c., il condomino dissenziente soggiace alla regola maggioritaria e, in tal caso, può solo ricorrere all’assemblea contro i provvedimenti dell’amministratore o al giudice contro la successiva delibera dell’assemblea.

Il riferimento è alla sentenza n. 7095/2017 della Corte di Cassazione. Di seguito la vicenda.

IL CASO

Il Tribunale annullava una delibera condominiale condannando il condominio alle spese di giudizio. In virtù del vincolo di solidarietà passiva, un condomino aveva anticipato anche la quota di un’altra condomina, verso la quale aveva in seguito attivato azione di regresso. Quest’ultima adiva il Giudice di Pace per condannare l’amministratore del condominio al risarcimento dei danni, per non aver provveduto a convocare ritualmente l’assemblea e per non aver comunicato la pendenza della lite. 

Il Giudice di Pace condannava l’amministratore, il quale appellava la decisione, riformata dal Tribunale. La condomina ricorre per la cassazione della decisione di appello, ma la Suprema Corte rigetta il ricorso.

LA DECISIONE

La Cassazione ha dapprima esaminato l’appellabilità della sentenza del Giudice di Pace: “Sull’appellabilità delle sentenze pronunciate dal giudice di pace questa Corte ha avuto modo di affermare che per stabilire se la sentenza sia stata pronunciata secondo equità, e sia quindi appellabile solo nei limiti di cui all’art. 339, comma terzo, c.p.c., occorre avere riguardo non già al contenuto della decisione, ma al valore della causa, da determinarsi secondo i principi di cui agli artt. 10 e ss. c.p.c., e senza tenere conto del valore indicato dall’attore ai fini del pagamento del contributo unificato. Pertanto, ove l’attore abbia formulato dinanzi al giudice di pace una domanda di condanna al pagamento di una somma di denaro inferiore a millecento euro (e cioè al limite dei giudizi di equità c.d. “necessaria”, ai sensi dell’art. 113, comma secondo, c.p.c.), accompagnandola però con la richiesta della diversa ed eventualmente maggior somma che “sarà ritenuta di giustizia”, la causa deve ritenersi – in difetto di tempestiva contestazione ai sensi dell’art. 14 c.p.c. – di valore indeterminato, e la sentenza che la conclude sarà appellabile senza i limiti prescritti dall’art. 339 c.p.c. (Cass. n. 9432/12; v. anche, non massimata, Cass. n. 10921/13). 

In altra occasione, invece, è stato ritenuto che qualora l’attore, oltre a richiedere una somma specifica non superiore a euro 1.032,91, abbia anche concluso, in via alternativa o subordinata, per la condanna del convenuto al pagamento di una somma maggiore o minore da determinarsi nel corso del giudizio, siffatta ultima indicazione, pur non potendosi reputare mera clausola di stile, non può, tuttavia, ritenersi di per sé sola sufficiente a dimostrare la volontà dello stesso attore di chiedere una somma maggiore – ed ancor meno una somma superiore ad euro 1032,91 – in assenza di ogni altro indice interpretativo idoneo ad ingenerare quanto meno il dubbio che le circostanze dedotte siano potenzialmente idonee a superare il valore espressamente menzionato e, in particolare, quello entro il quale è ammessa la decisione secondo equità (Cass. n. 24153/10)”.

Nel caso specifico, la domanda chiedeva la condanna dell’amministratore “al pagamento in favore dell’attrice della somma di euro 238,21 per il risarcimento dei danni; e/o comunque, anche diversamente qualifìcata la domanda, (la condanna del) convenuto al pagamento della somma maggiore o minore che sarà ritenuta di giustizia oltre interessi come per legge ivi compresi quelli sugli interessi scaduti ex art. 1283 c. c. e svalutazione oltre al risarcimento di tutti i danni e/o le spese a qualsiasi titolo dovute, patrimoniali, dirette o indirette, presenti e future, nessuno escluso nella misura che verrà provata in corso in causa e/o equitativamente liquidata nei limiti della competenza del giudice adito”.

Il Collegio ha ritenuto che la causa fosse di valore indeterminato fino al limite di valore del Giudice di Pace: “L’ampia latitudine della pretesa risarcitoria, dichiaratamente aggiuntiva rispetto al solo importo di euro 238,21, e l’espressa volontà di ottenere anche quanto eccedente tale somma purché entro il limite della competenza generale del giudice adito, lasciano intendere che nel caso in esame la parte attrice abbia inteso superare consapevolmente i limiti del giudizio di equità c.d. necessaria del giudice di pace. Con la conseguenza che, non essendo stato contestato il valore così dichiarato, la causa deve ritenersi di valore indeterminato fino al limite della competenza per valore del giudice di pace (a nulla rilevando, per il premesso riferimento alla domanda e non al decisum, che la sentenza del primo giudice avesse riconosciuto in favore dell’attrice il solo importo di euro 238,21)”.

Passando quindi a esaminare i due motivi di ricorso, la Suprema Corte li ritiene entrambi infondati.

La Cassazione precisa che “la difesa in giudizio delle delibere dell’assemblea impugnate da un condomino rientra nelle attribuzioni dell’amministratore, indipendentemente dal loro oggetto, ai sensi dell’art. 1131 c.c.”. Il collegio ha escluso che ricorresse l’ipotesi di cui all’art. 1132, primo comma, c.c.: “tale ultima disposizione, tesa a mitigare gli effetti della regola maggioritaria che informa la vita del condominio, consente al singolo condomino dissenziente di separare la propria responsabilità da quella degli altri condòmini in caso di lite giudiziaria, in modo da deviare da sé le conseguenze dannose di un’eventuale soccombenza. Dunque, ove non sia stata l’assemblea a deliberare la lite attiva o passiva ai sensi del predetto art. 1132 c.c., il condomino dissenziente soggiace alla regola maggioritaria. In tal caso egli può solo ricorrere all’assemblea contro i provvedimenti dell’amministratore, in base all’art. 1133 c.c., ovvero al giudice contro il successivo deliberato dell’assemblea stessa (nei limiti temporali, è da ritenere, previsti dall’art. 1137 c.c., richiamato dall’art. 1133 c.c.)”.

Con l’ulteriore precisazione che “in ogni caso il condomino dissenziente può far valere le proprie doglianze sulla gestione dell’amministratore in sede di rendiconto condominiale, la cui approvazione è, però, anch’essa rimessa all’assemblea e non al singolo condomino”.

Nel respingere il ricorso, il Collegio sottolinea la natura collettiva del mandato attribuito dalla legge all’amministratore: il condomino dissenziente “al di fuori dei descritti percorsi legali, non ha la facoltà di agire in proprio contro l’amministratore (salvo il ben diverso caso dell’iniziativa di revoca giudiziale ex art. 1129 c.c.) ogni qual volta ritenga la condotta di lui non consona ai propri interessi, perché ciò contrasta con la natura collettiva del mandato ex lege che compete all’amministratore”.

OSSERVAZIONI

La Cassazione ha ribadito la natura collettiva del mandato attribuito direttamente dalla legge all’amministratore, con il corollario che nei casi in cui il condominio sia parte in giudizio senza delibera dell’assemblea, il condomino dissenziente non può invocare l’operatività dell’art. 1132 codice civile per sottrarsi alle conseguenze della lite.

DISPOSIZIONI RILEVANTI

Codice Civile – Art. 1131 – Rappresentanza

Nei limiti delle attribuzioni stabilite dall’articolo 1130 o dei maggiori poteri conferitigli dal regolamento di condominio o dall’assemblea, l’amministratore ha la rappresentanza dei partecipanti e può agire in giudizio sia contro i condòmini sia contro i terzi.

Può essere convenuto in giudizio per qualunque azione concernente le parti comuni dell’edificio; a lui sono notificati i provvedimenti dell’autorità amministrativa che si riferiscono allo stesso oggetto.

Qualora la citazione o il provvedimento abbia un contenuto che esorbita dalle attribuzioni dell’amministratore, questi è tenuto a darne senza indugio notizia all’assemblea dei condòmini.

L’amministratore che non adempie a quest’obbligo può essere revocato ed è tenuto al risarcimento dei danni.

Art. 1132 – Dissenso dei condomini rispetto alle liti

Qualora l’assemblea dei condòmini abbia deliberato di promuovere una lite o di resistere a una domanda, il condomino dissenziente, con atto notificato all’amministratore, può separare la propria responsabilità in ordine alle conseguenze della lite per il caso di soccombenza. L’atto deve essere notificato entro trenta giorni da quello in cui il condomino ha avuto notizia della deliberazione.

Il condomino dissenziente ha diritto di rivalsa per ciò che abbia dovuto pagare alla parte vittoriosa.

Se l’esito della lite è stato favorevole al condominio, il condomino dissenziente che ne abbia tratto vantaggio è tenuto a concorrere nelle spese del giudizio che non sia stato possibile ripetere dalla parte soccombente.