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SUNIA: SÌ ALLA RIFORMA DELL’IMPOSIZIONE FISCALE SULLA CASA. MA CON ALCUNI PALETTI

[A cura di: Aldo Rossi – segretario nazionale Sunia]


L’ennesimo cambiamento preannunciato dal Governo in materia di tassazione sulla casa in occasione dell’avvio di discussione sul Def, sembrerebbe orientare le decisioni verso una unificazione dei molteplici tributi che riguardano oggi l’abitazione, con la assegnazione ai Comuni di una competenza piena in materia di imposizione patrimoniale immobiliare .

Questo orientamento, ad oggi solo frutto di sommari intendimenti e scarsi contenuti di reale riforma, va associato al percorso avviato per la riforma del catasto e quindi può far prevedere per il prossimo biennio sostanziali modifiche dell’attuale assetto impositivo sulla casa. Certo, i tempi sono molto più lunghi di quanto sino a qualche mese fa si era ipotizzato, quando si pensava di intervenire sul groviglio Imu – Tasi già con la Legge di stabilità 2015 e non se n’è poi fatto niente. Vedremo che misure concrete seguiranno agli annunci e soprattutto che esiti potrà avere il “contenzioso” Stato-Comuni in materia.

Nella sostanza, un progetto di unificazione della imposizione sulla casa e quindi di semplificazione e una diversa accentuazione delle competenze comunali in materia di tassazione sulla casa ci trova da tempo favorevoli, come pure la indifferibile riforma del catasto. Il problema però, secondo noi, sono i reali contenuti e risultati dell’impianto cui si darà vita, che non può prescindere da alcuni obiettivi: una maggiore equità nell’imposizione, una forte erosione dei livelli attuali di evasione fiscale nel settore, un sistematico utilizzo della leva fiscale in tutte le sue componenti, statale e locale, per supportare con un impianto di aliquote, detrazioni e agevolazioni lo sviluppo dell’affitto. 

Saranno questi, in definitiva, gli indicatori capaci di misurare la bontà delle misure da introdurre, posto che da troppo tempo la crisi delle politiche abitative ha, tra le concause, quella di una politica fiscale nel settore che ha privilegiato l’alloggio in proprietà a scapito della locazione agevolata e contrattata.

In questo senso, vogliamo porre alcune accentuazioni di assoluta urgenza su questioni aperte e che non potranno essere eluse in sede di prospettata riforma:

* il problema della reintroduzione di una norma specifica che colpisca l’evasione fiscale nella locazione, dopo la dichiarata incostituzionalità della norma introdotta dall’art. 3, commi 8 e 9 del Decreto Legislativo 23/2011 che ha lasciato scoperto il contrasto necessario al fenomeno persistente;

* la necessaria sinergia tra cedolare secca con aliquota ridotta e imposizione comunale unificata (attuale Imu-Tasi) per  un reale sostegno e incentivo alla locazione contrattata;

* un intervento fiscalmente mirato ad abbattere il fenomeno degli alloggi sfitti e invenduti, con misure di contrasto e disincentivo e di premialità alla destinazione all’affitto;

* sanare le anomalie tuttora persistenti nel sistema come la quota Tasi a carico dell’inquilino e le contraddittorie misure sulla tassazione degli alloggi Iacp che vanno esentati.

C’e’ poi il tema, non esclusivamente legato alla futura imposta unificata sulla casa, del sistema delle detrazioni per l’inquilino che merita una revisione almeno ispirato alla analogo sistema di detrazione degli interessi sui mutui per l’acquisto della prima casa.

IL TESORETTO? “SI CANCELLI LA TASI PER GLI IMMOBILI GIÀ SOGGETTI AD IMU”

[A cura di: Gabriele Bruyère e Jean-Claude Mochet – Uppi]


L’UPPI, appreso che a seguito dell’approvazione da parte del Consiglio dei Ministri del documento di economia e finanze per il 2015 (DEF) è emerso un tesoretto di 1,6 miliardi di euro, chiede al Governo di cancellare la Tasi per tutti gli immobili già assoggettati ad Imu.

Nel 2014, il gettito della Tasi ha raggiunto complessivamente 4,6 miliardi di euro, di cui 3,3 miliardi di euro derivanti dall’abitazione principale e 1,3 miliardi di euro per tutti i fabbricati diversi dall’abitazione principale, per le aree edificabili e per i fabbricati rurali ossia per tutti gli immobili già assoggettati ad Imu con aliquote molto elevate.

Consapevole che le risorse aggiuntive derivano certamente dall’incremento della pressione fiscale sugli immobili che, nel 2014, ha raggiunto i 42 miliardi di euro per oltre 63 milioni di immobili, l’Uppi ritiene corretto cancellare dalla tassazione della Tasi gli immobili già assoggettati ad Imu, in quanto le tasse locali sugli immobili sono state aumentate negli ultimi tre anni del 160%: dai 9,2 miliardi del 2011 ai 23,9 miliardi del 2014.

L’aumento della pressione fiscale sugli immobili ha fortemente danneggiato il settore dell’edilizia e delle costruzioni, e non ci sarà una vera ripresa in Italia senza una riduzione delle tasse sugli immobili, soprattutto di quelle locali. Con alle porte l’introduzione della Local Tax dal 2016, che andrà a sostituire l’Imu e la Tasi, l’Uppi si chiede se il Governo non abbia davvero intenzione di continuare a mettere mano nelle tasche dei piccoli proprietari immobiliari e se la promessa che le tasse saranno ridotte sia ancora credibile.

VERSO LA LOCAL TAX CON UN FARDELLO DI IMPOSTE LOCALI QUADRUPLICATE NEL GIRO DI 20 ANNI

In giorni in cui si fa un gran parlare di imposizione fiscale comunale, nell’ottica di prospettiva dell’introduzione della local tax (che dal 2016 dovrebbe accorpare le tasse sulla casa e una serie di balzelli locali) è un vero e proprio grido d’allarme quello che arriva dal Codacons, secondo cui tra il 1994 e il 2014 i tributi locali richiesti ai cittadini sono aumentati del 277%, portando ogni singola famiglia a spendere in 20 anni mediamente 3.205 euro in più a livello di tasse.

Come ricostruisce l’associazione in difesa dei diritti dei consumatori, nel 1994 i contribuenti italiani hanno versato il corrispettivo in lire di 27,776 miliardi di euro a titolo di tasse locali. Nel corso degli anni, però, la pressione fiscale si è inasprita a livelli insopportabili, al punto che nel 2014 le famiglie hanno sborsato per i tributi locali complessivamente 104,7 miliardi di euro (per una media di 4.362 euro a famiglia). In soli 20 anni, quindi, i cittadini hanno pagato quasi 77 miliardi di euro in più solo per tasse e imposte locali.

“È una vergogna – attacca il presidente Codacons Carlo Rienzi -. Gli enti locali, invece di ridurre sprechi e di intervenire sui costi, hanno reagito ai tagli decisi dell’amministrazione centrale semplicemente aumentando la pressione fiscale. Al contempo, però, i servizi resi ai cittadini non solo sono diminuiti, ma sono anche peggiorati. In sostanza, si paga di più per ricevere sempre meno. Per tale motivo lanciamo oggi un grido d’allarme, e chiediamo al Governo di intervenire per evitare che gli enti locali proseguano nella folle corsa al rialzo delle tasse, attuando un federalismo fiscale dissennato che ha portato ad un grave impoverimento delle famiglie”.

CRONACA FLASH

Alloggio va in fiamme 

Due persone intossicate

A causa di un incendio sviluppatosi in un appartamento all’ultimo piano di uno stabile livornese, due persone sono rimaste intossicate dal fumo. Portati al pronto soccorso di Livorno, i due sono stati poi trasferiti all’ospedale di Pisa per il trattamento in camera iperbarica. L’allarme è scattato nella prima mattinata, intorno alle 6,30. Sul luogo dell’incendio sono accorse due squadre dei vigili del fuoco, che hanno fatto sgomberare lo stabile.


Attrezzi da arrampicata

per svaligiare gli alloggi

A Genova, è stata sgomitata una gang di ladri che, per riuscire a entrare negli appartamenti, usavano attrezzi da arrampicata, con tanto di corde, moschettoni e imbracature. Il materiale per mettere a segno i furti è stato trovato nell’abitazione genovese di uno dei topi d’alloggio (tre albanesi, di età compresa tra 22 e 29 anni), arrestato con i presunti complici dagli agenti della squadra mobile con l’accusa di avere messo a segno una serie di colpi in città nel mese di gennaio. A quanto pare, i tre organizzavano sopralluoghi per individuare i palazzi ideali dai quali calarsi in tutta tranquillità. 



Serra marija in camera, 

Arrestato dalla polizia

Aveva trasformato la sua camera da letto in una serra per coltivare marijuana. La polizia, svolgendo un controllo nella casa abitata da una famiglia “insospettabile” di Perugia, ha quindi arrestato un ventenne, nella cui stanza le forza dell’ordine hanno scoperto una struttura organizzata per la coltivazione delle piantine, composta da cabina in tela riscaldata con una lampada a raggi ultravioletti, un impianto di aerazione collegato alla finestra, apparecchi per misurare il livello di umidità e il tasso di acidità del terreno. 



Moglie minacciata

e aggredita con coltello 

L’aveva minacciata per telefono dicendole che l’avrebbe uccisa con un coltello. Poi, un uomo di 45 anni, residente in provincia di Pescara, ha provato a passare dalle parole ai fatti, ma è stato bloccato dalla polizia mentre, prendendo a calci la porta, tentava di entrare in casa della donna, dalla quale è separato. Il 45enne è stato arrestato per detenzione abusiva di arma, minaccia grave e atti persecutori. La donna ha raccontato di avere già sporto querela a febbraio per ingiurie, minacce e percosse nei confronti del marito. Nella propria auto, l’uomo nascondeva un coltello a serramanico. 


Ladri senza cuore

Rubano un salvadanaio

Neanche una remora. In provincia di Napoli, due malviventi sono entrati all’interno di un appartamento portando via un televisore, svariati capi di biancheria e persino il salvadanaio dei figlioletti del padrone di casa. I due presunti ladri sono stati però bloccati dai carabinieri, intervenuti sul posto. I militari hanno recuperato la refurtiva, che è stata restituita. 


LOCAL TAX, FIAIP E ASSOEDILIZIA CONCORDI: “BISOGNA ABBATTERE LE TASSE SUL MATTONE”

Nel dibattito innescato dall’approvazione della bozza del Def e dalla previsione dell’introduzione della local tax a partire dal 2016, si inseriscono altre due autorevoli voci del comparto immobiliare: quella della Fiaip e quella di Assoedilizia.


COSÌ LA FIAIP

“Avremmo bisogno di una manovra di segno espansivo, che parta dall’immobiliare per rilanciare l’economia. Per il settore immobiliare, come per tutta l’economia, serve quanto prima un’azione decisa sul fronte della riduzione delle tasse”. È la posizione espressa dal presidente nazionale della Federazione immobiliaristi, Paolo Righi: “Nel provvedimento manca purtroppo l’indicazione di un obiettivo chiaro per la ripresa economica. Aumentare il potenziale di crescita del sistema Paese partendo dall’immobiliare, che rappresenta il 20% del Pil, è indispensabile, visto che il trend di crescita tornerà a fatica ai livelli di pre-crisi. Ma al momento non si parla di riduzione della pressione fiscale, anzi si sostiene che su questo fronte è stato già fatto molto e bisognerà quindi attendere la Legge di stabilità del 2016. La stessa semplificazione sulla tassazione immobiliare: un’unica imposta sulla casa e la preannunciata riduzione della pressione fiscale sugli immobili vengono quindi rimandate a tempi migliori”.

Quindi, Fiaip pone l’accento sul fatto che Palazzo Chigi non ha abbassato le tasse negli ultimi anni: “In Italia la tassazione è al 42,6% per l’Ocse, mentre nel 2014 la pressione fiscale è arrivata al 43,5%, come di recente è stato certificato, perfino dall’Istat. E finora abbiamo visto un vergognoso aumento del 178% delle imposte sulla casa, che ha prodotto conseguenze disastrose per gli italiani in termini di impoverimento e di riduzione dei consumi”.

Quindi, tornando allo specifico della local tax, Righi commenta: “La tassazione unica non può ridursi al mero accorpamento di Imu e Tasi. Dopo il pasticcio del 2012 sarebbe auspicabile l’introduzione di un tributo unico che, semplificando il caos fiscale sulle imposte immobiliari, diminuisca sensibilmente la pressione fiscale sulla casa. Ci auguriamo che il governo non stia per confezionare un altro aumento di imposte a carico dei cittadini e delle imprese con una super tassa comunale che si potrebbe configurare come l’ennesima aggressione fiscale sugli immobili. Sarebbe inaccettabile alzare ancora le imposte sulla casa, dopo che negli ultimi anni i governi Monti, Letta e ora Renzi hanno già triplicato gli stessi prelievi. Gli italiani, le famiglie e i cittadini non vogliono più veder la casa trattata come un bancomat per far cassa per lo Stato e gli Enti locali”.


COSÌ ASSOEDILIZIA

“Dato il pregresso, c’è inevitabilmente il sospetto che la revisione allo studio, con la local tax che dovrebbe sostituire l’Imu, la Tasi e possibilmente altri tributi locali per semplificare e razionalizzare il sistema, sia l’occasione per ritoccare in peggio la fiscalità immobiliare”. Ad esprimere scetticismo è il presidente di Assoedilizia, Achille Colombo Clerici. 

“Certo, una bella rimescolata di carte può servire a confondere le acque a questi fini. La vera riforma della local tax dovrebbe viceversa portare, più che all’accorpamento dei diversi tributi esistenti, alla revisione del presupposto impositivo. Le imposte locali sono destinate a finanziare i servizi comunali. E quindi debbono esser poste a carico non di chi possiede l’immobile, ma di colui che, occupando lo stesso, fruisce in pratica dei servizi stessi. Questo meccanismo consentirebbe anche una maggior corrispondenza del gettito del tributo all’entità del fabbisogno finanziario dei comuni. Così avviene all’estero, dove, ad esempio in Inghilterra con la Council Tax, si ottengono gettiti fiscali assai congruenti con la spesa pubblica”.



IN ATTESA DELLA LOCAL TAX, L’IMPIETOSO CONFRONTO TRA LE IMPOSTE DEL 2011 E QUELLE (TRIPLICATE) DEL 2014

[Fonte: Confedilizia]


Quale sarà l’impatto della futura local tax è ancora da ponderare. Di certo, l’imposta sulla casa onnicomprensiva, si andrà ad inserire in un contesto caratterizzato, negli ultimi anni, dalla progressiva imposizione fiscale sul mattone.

Una stangata dalle proporzioni ragguardevoli, stando al dossier pubblicato da Confedilizia, di cui riportiamo un ampio stralcio.


INTRODUZIONE

Con il 2015, la proprietà immobiliare si troverà, per il quarto anno consecutivo, a subire un livello di imposizione tributaria insostenibile. Ad aumentare vertiginosamente, come noto, è stata una specifica componente della tassazione sugli immobili, quella di natura patrimoniale. Quella – giova ricordarlo – che colpisce gli immobili al di là di qualsiasi reddito dagli stessi prodotto. E che si aggiunge (anche questo è bene rammentarlo) ad altre forme di imposizione, come quella sui redditi e quella sui trasferimenti.


DATI PRINCIPALI 

* Nel 2014, il gettito di IMU e TASI (imposte entrambe sostanzialmente patrimoniali,ì nonostante la seconda venga nominalmente qualificata come tributo sui servizi) è stato di circa 25 miliardi di euro. 

* Fino al 2011, il gettito dell’ICI era stato di circa 9 miliardi di euro.

* Le imposte locali sugli immobili si sono quasi triplicate rispetto al 2011.

* Fra il 2012 e il 2014, la proprietà immobiliare ha versato complessivamente circa 69 miliardi di euro di imposte di natura patrimoniale. 

* Dal 2012, i proprietari versano ai Comuni 15/16 miliardi di euro in più ogni anno (il 50% in più rispetto all’entità dello sgravio degli “80 euro”). 

* Il carico fiscale sugli immobili del 2014 (Governo Renzi), dato da IMU e TASI, è stato di oltre 1 miliardo superiore rispetto a quello dell’IMU 2012 (Governo Monti).


Tasse casa (2011 – 2014)

Ecco la progressione delle imposte sulla casa:

2011: 9,2 miliardi (Ici)

2012 (Governo Monti): 23,8 miliardi (Imu)

2013 (Governo Letta): 20,4 miliardi (Imu e mini-Imu)

2014 (Governo Renzi): 25 miliardi (Imu e Tasi). 


È necessario partire da questi dati – e da quelli, altrettanto significativi, relativi ad esempi di tassazione in capo a singoli proprietari – per effettuare qualsiasi valutazione dell’attuale situazione del comparto immobiliare e per ipotizzare i possibili scenari futuri, anche in vista della local tax. La necessità di ridurre la tassazione sugli immobili non è dovuta solo ad un’esigenza di equità. I riflessi che il carico fiscale genera sul settore immobiliare e sull’intera economia sono stati a lungo sottovalutati da molti. La miope e acritica ripetizione di modelli teorici sconfessati dai fatti – modelli secondo i quali le imposte ricorrenti sugli immobili risulterebbero meno “distorsive” per la crescita economica – ha impedito per molto tempo di far emergere ciò che gli operatori economici (del settore immobiliare, ma anche delle decine e decine di comparti che all’immobiliare sono collegati) avevano sperimentato sulla propria pelle sin dall’inizio della offensiva fiscale di fine 2011. E cioè che gravare gli immobili – in modo repentino, marcato e, ormai, ripetuto – di un carico di tasse come quello abbattutosi in Italia negli ultimi anni, produce conseguenze negative a catena, con riflessi evidenti e innegabili sulla crescita del Paese: 

* crollo delle compravendite;

* diminuzione degli interventi sulle singole unità immobiliari per ristrutturazione e arredamento;

* fallimento di innumerevoli piccole imprese del settore; 

* perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro in edilizia;

* crisi delle locazioni e progressiva riduzione della relativa offerta, con gli immaginabili risvolti sociali;

* caduta dei consumi generata dalla perdita di valore degli immobili (stimata in circa 2.000 miliardi) e dall’effetto che tale riduzione ha prodotto su milioni di proprietari ai quali è venuta improvvisamente a mancare quella sorta di copertura assicurativa che da sempre ha rappresentato, per ciascuno di loro, la consapevolezza di poter contare su un bene che mai prima si era svalutato.


OPERAZIONI FIDUCIA

È dal Fisco che bisogna ripartire per dare vita ad una grande “operazione fiducia” per il settore immobiliare. Solo attraverso un segnale concreto, tangibile – e, soprattutto, percepibile dalla proprietà diffusa – nel senso di una riduzione della morsa fiscale sugli immobili, si potrà sperare nell’attivazione di un circolo virtuoso, capace di diffondere un ottimismo “contagioso”, che non mancherebbe di riflettersi sui grandi numeri della nostra economia. E, per farlo, non ci si può di certo limitare ad operazioni di restyling delle attuali imposte locali. Bisogna fare molto di più: avere coraggio e capacità di innovare. Occorre abbandonare la pigra (e ingiusta) tassazione su base catastale/patrimoniale e creare un sistema che preveda la tassazione degli immobili esclusivamente per il reddito che essi producono e per i servizi – certi, verificabili, quantificabili – che ricevono, a beneficio sia dei loro proprietari sia dei loro utilizzatori. Con effetti positivi (anche in termini di riduzione della spesa pubblica e di eliminazione degli sprechi) per l’intera collettività.


CASE IN AFFITTO

Ecco un raffronto della tassazione locale del 2011 con quella del 2014.


Contratto libero (4 + 4) 

Città: Roma 

Immobile: A2 con rendita catastale di 1.000 euro 

Anno 2011: aliquota Ici 7 per mille 

Anno 2014: aliquota Imu: 10,6 per mille; aliquota Tasi: 0,8 per mille

Importo 2011: 735 euro 

Importo 2014: 1.889 euro 

Variazione importo: + 1.154 euro 

Variazione percentuale: +157%


Contratto agevolato (3 + 2) 

Città: Roma 

Immobile: A2 con rendita catastale di 1.000 euro 

Anno 2011: aliquota Ici 4,6 per mille 

Anno 2014: aliquota Imu: 10,6 per mille; aliquota Tasi: 0,8 per mille

Importo 2011: 483 euro 

Importo 2014: 1.889 euro 

Variazione importo: + 1.406 euro 

Variazione percentuale: +291%


ATTENZIONE: La tassazione – su base puramente patrimoniale – si aggiunge a quella che colpisce il reddito da locazione. È sconcertante notare come dall’aggravio fiscale sugli immobili non siano stati risparmiati, in ossequio alla funzione sociale che essi tradizionalmente svolgono, neppure gli immobili dati in affitto, neanche nel caso in cui la locazione sia a canone calmierato, attraverso i cosiddetti contratti “concordati”.


UNITÀ NON ABITATIVA 

Si è preso in esame a titolo esemplificativo il caso di un immobile situato a Roma. Aliquota Imu: 10,6 per mille; aliquota Tasi: 0,8 per mille.

Le imposte, statali e locali (ben sette), raggiungano un livello tale da erodere – come accade nel caso di un immobile di Roma preso ad esempio, fino all’80% del canone di locazione. Percentuale che arriva a sfiorare il 100% se alle tasse si aggiungono le spese (di manutenzione, assicurative ecc.) alle quali il proprietario-locatore deve comunque far fronte (senza considerare il rischio morosità). Tale spropositato livello di tassazione è dovuto, a livello locale, all’introduzione dell’Imu e della Tasi, e, a livello statale (non essendo applicabile la cedolare secca) a una imposizione IRPEF che di fatto colpisce persino le spese, essendo queste considerate – come deduzione fiscale – nella irrisoria misura forfetaria del 5% a partire dal 2013 (rispetto alla quota del 15%, frutto di una precedente diminuzione dell’originaria misura del 25%).



ABITAZIONE SFITTA 

Nella fattispecie l’immobile si trova ancora una volta a Roma. È di categoria A2, situato nello stesso Comune in cui si trova l’abitazione principale. Rendita catastale: 1.000 euro; aliquota Imu: 10,6 per mille; aliquota Tasi: 0,8 per mille.

In questo caso, occorre evidenziare il carico fiscale, inspiegabilmente punitivo, cui è soggetto un appartamento destinato alla locazione, ma per il quale il proprietario non riesce a trovare un inquilino. Le imposte dovute per un immobile di questo tipo – che non produce alcun reddito e che è, anzi, fonte di spese (condominiali, di manutenzione, assicurative ecc.) – sono ben cinque: 

* Irpef; 

* addizionale regionale Irpef; 

* addizionale comunale Irpef; 

* Imu; 

* Tasi. 

Per un appartamento medio di Roma, con rendita catastale di 1.000 euro, la somma delle 5 imposte dovute varia tra 2.094 e 2.238 euro, in funzione dello scaglione di reddito Irpef in cui si colloca il contribuente-proprietario. Somme che il contribuente in questione deve necessariamente trarre dai propri risparmi ovvero da eventuali redditi derivanti da altra fonte (lavoro, pensione ecc.). 

LOCAZIONI COMMERCIALI: I GRAVI MOTIVI DI RECESSO ANTICIPATO DEL CONDUTTORE

[A cura di: avv. Ermenegildo Mario Appiano – Segretario ALAC Torino]


Come noto, i contratti di locazione relativi ad immobili urbani ad uso diverso dall’abitazione hanno una durata minima fissata dalla legge, che è di sei anni (nove se i locali sono adibiti ad attività alberghiera).

Ciò ai sensi dell’art.27 della legge 392/1978.

Il locatore non ha possibilità alcuna di recedere anticipatamente da tale contratto, mentre il conduttore può farlo in due diverse situazioni. In primo luogo, qualora tale facoltà gli sia stata riconosciuta mediante un’apposita clausola contrattuale. In secondo luogo, anche in assenza di qualunque pattuizione sul recesso anticipato del conduttore, se sussistono “gravi motivi”, tali cioè da non rendere più ragionevole che il conduttore stesso continui ad essere vincolato dal rapporto di locazione (ultimo comma della norma citata).


I GRAVI MOTIVI

Con riferimento allora a questa seconda ipotesi, ci si è posti il problema di capire in cosa consistano i “gravi motivi” in questione. In effetti, se si consentisse al conduttore di addurre in qualsiasi circostanza la presenza di un “grave motivo”, ciò gli consentirebbe – di fatto – di recedere a piacimento dal contratto di locazione, cosa invece non consentitagli in mancanza di un’apposita previsione contrattuale, come poc’anzi spiegato. 

Allo stesso vietato risultato si addiverrebbe se si consentisse comunque al conduttore di determinare egli stesso il venire in essere delle circostanze che verrebbero poi addotte a fondamento degli stessi “gravi motivi”.


LA CASSAZIONE

Questo principio è ormai pacifico nella giurisprudenza della Cassazione. Al riguardo, basti richiamare una delle decisioni più recenti in materia (Sez. VI, ordinanza 11/03/2011, n. 5911), dove si ribadisce che “i gravi motivi in presenza dei quali l’art. 27, ultimo comma, della legge 27 luglio 1978, n. 392, indipendentemente dalle previsioni contrattuali, consente in qualsiasi momento il recesso del conduttore dal contratto di locazione devono collegarsi a fatti estranei alla volontà del conduttore, imprevedibili e sopravvenuti alla costituzione del rapporto”.

Andando però più nello specifico, ci si può domandare come tale principio funziona in situazioni complesse, e cioè quando i locali locati non rappresentino l’unico immobile nel quale il conduttore esercita la propria attività. 


GRANDE DISTRIBUZIONE

Caso emblematico è quello della grande distribuzione, dove la stessa società può gestire diversi ipermercati, locando da soggetti diversi più immobili in differenti località.

A dirimere la situazione, soccorre una decisione della Cassazione (sezione III, sentenza 3/12/2011, n.26711), avente per oggetto il caso in  cui un simile conduttore – cambiata la propria compagine sociale e modificata di conseguenza la propria politica aziendale – invocava la presenza dei “gravi motivi” di recesso per liberarsi dal rapporto di locazione relativo ad un immobile che più non gli interessava, mentre continuava a svolgere la propria attività commerciale in tutti gli altri punti vendita. In pratica, “a fronte di un piano di riqualificazione aziendale promosso dal nuovo gruppo proprietario (della società conduttrice: n.d.r.), che aveva consentito, su scala nazionale, un considerevole aumento del guadagno, soltanto l’esercizio per cui è causa non aveva invece risposto alle attese” e, conseguentemente, si cercava di dismettere. 

Nella fattispecie la Cassazione ha negato la sussistenza dei “gravi motivi” di recesso.

Per stabilirlo, la Suprema Corte è partita dalla premessa “che, secondo l’orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, le ragioni che consentono al locatario di liberarsi del vincolo contrattuale devono essere determinate da avvenimenti estranei alla sua volontà, imprevedibili e sopravvenuti alla costituzione del rapporto, tali da rendere oltremodo gravosa per il conduttore la sua prosecuzione”. Inoltre, con riferimento all’andamento dell’attività aziendale, è altresì principio consolidato che “può integrare grave motivo, legittimante il recesso del conduttore, un andamento della congiuntura economica (sia favorevole che sfavorevole all’attività di impresa), sopravvenuto e oggettivamente imprevedibile (quando fu stipulato il contratto), che lo obblighi ad ampliare o ridurre la struttura aziendale in misura tale da rendergli particolarmente gravosa la persistenza del rapporto locativo” (cfr. Cass. n.10980/1996, n.3418/04, n.9443/2010). 

Ma è utile precisare a riguardo – e tale rilievo non è di poco conto – che i fatti, per essere tali da rendere oltremodo gravosa la prosecuzione del contratto, devono presentare una connotazione oggettiva, non potendo risolversi nella unilaterale valutazione effettuata dal conduttore in ordine all’opportunità o meno di continuare a occupare l’immobile locato, poiché, in tal caso, si ipotizzerebbe la sussistenza di un recesso ad nutum, contrario all’interpretazione letterale, oltre che allo spirito della suddetta norma (cfr. Cass. n.5293/08, n.5328/07) e che la gravosità della prosecuzione del rapporto locativo deve essere valutata in rapporto alla dimensione globale dell’azienda, specialmente se sia di rilievo nazionale o multinazionale, verificandosi a tal fine se il sopravvenuto squilibrio tra le prestazioni originarie sia tale da incidere significativamente sull’andamento dell’azienda del conduttore, considerata nel complesso delle sue varie articolazioni territoriali”.

Applicando tali principi al caso di specie, la Cassazione ha quindi avvallato quanto deciso dalla Corte d’Appello di Brescia, la quale aveva negato la sussistenza dei “gravi motivi” di recesso per la ragione che “se anche si volesse circoscrivere il discorso al singolo punto di vendita di Brescia, non risulterebbe dimostrato l’elemento della prosecuzione gravosa non avendolo il conduttore provato – attraverso una comparazione con gli altri punti vendita che il negozio di (omissis) raggiungesse un fatturato cosi basso rispetto agli altri negozi da renderne necessaria la chiusura, per non ostacolare l’espansione del gruppo, anche perché i minori (in resi) ricavi potrebbero essere stati determinati da contingenze non necessariamente legate all’ubicazione dei locali (ad esempio, dall’incapacità del personale o dai prezzi praticati). Ed allora è evidente che il solo confronto fra i due negozi di (omissis) (quello chiuso e quello successivamente aperto in corso (omissis)) non può dare un’oggettiva contezza – per aver operato in periodi certamente diversi, con personale forse diverso ed in una condizione probabilmente diversa – del fatto che mantenere aperto il negozio appartenente agli odierni appellanti, piuttosto che trasferirlo ad un centinaio di metri, costituisce un grave handicap per la società. E questo a voler sottacere che, neppure del progetto di riqualificazione della via (omissis) e dell’affidamento di esso concretamente avuto, il conduttore ha fornito un’adeguata prova, non essendo all’uopo rilevante un documento che si limita ad uno studio unilaterale e parziale sullo stesso fabbricato”.

In conclusione, per dette ragioni nella fattispecie la Cassazione ha escluso la sussistenza dei “gravi motivi” di recesso alla luce del principio di diritto secondo cui “in tema di recesso del conduttore in base al disposto di cui alla L. n. 392 del 1978, art. 27, u.c. le ragioni che consentono al locatario di liberarsi del vincolo contrattuale, devono essere determinate da avvenimenti sopravvenuti alla costituzione del rapporto, estranei alla sua volontà ed imprevedibili, tali da rendere oltremodo gravosa per il conduttore la sua prosecuzione. La gravosità della prosecuzione, che deve avere una connotazione oggettiva non potendo risolversi nella unilaterale valutazione effettuata dal conduttore in ordine alla convenienza o meno di continuare il rapporto locativo, deve essere, non solo tale da eccedere l’ambito della normale alea contrattuale, ma deve altresì consistere in un sopravvenuto squilibrio tra le prestazioni originarie tale da incidere significativamente sull’andamento dell’azienda del conduttore globalmente considerata”.


UN CASO DIFFERENTE

Merita però osservare che in una successiva pronuncia (sezione III, sentenza 27/03/2014, n.7217), la Cassazione ha invece ravvisato la presenza dei “gravi motivi” di recesso qualora i locali locati siano dedicati all’esercizio di un ramo dell’azienda del conduttore che viene chiuso, sebbene gli altri rami d’azienda del conduttore continuino la loro attività in altri locali.

La Corte d’Appello di Trieste – la cui decisione è stata annullata dalla Cassazione – aveva negato la sussistenza dei “gravi motivi” addotti dalla conduttrice a fondamento del recesso anticipato osservando “che la chiusura del ramo di azienda per cui veniva utilizzato il capannone non era “stata una scelta necessitata dell’imprenditore, bensì una scelta di opportunità”, determinata “da motivi strategici e non gravi” (visto che, pur a fronte di un’indubbia riduzione del fatturato relativo allo specifico ramo d’azienda della produzione di sedute in legno, la società aveva registrato – nel complesso – un aumento del volume di affari)”. 

Per contro, la Cassazione ha ritenuto “che l’accertamento della ricorrenza dei suddetti requisiti non possa che essere condotto in riferimento allo specifico contratto di locazione per cui viene esercitato il recesso e che, ove venga addotta la non remuneratività dell’attività o addirittura la chiusura del ramo di azienda che utilizzava l’immobile interessato dal recesso, non possa tenersi conto dell’aumentata redditività di altre attività, tale da assorbire le perdite o anche da determinare un miglioramento complessivo delle condizioni economiche del conduttore. 

Nell’ottica di un bilanciamento fra l’interesse del locatore alla prosecuzione del rapporto fino alla sua naturale scadenza e quello del conduttore a non essere vincolato dal contratto ove l’attività per cui l’immobile è stato locato divenga antieconomica, la valutazione imposta dall’art. 27 ult. co. non può che concernere la specifica attività per cui l’immobile è stato locato, al fine di accertare se persista – oggettivamente – quell’interesse che aveva determinato l’assunzione degli obblighi contrattuali. 

Considerato, infatti, che i richiamati requisiti della involontarietà, sopravvenienza ed imprevedibilità forniscono adeguata tutela agli interessi del locatore, impedendo che lo scioglimento del rapporto sia rimesso alla mera volontà del conduttore, l’opzione interpretativa che – a fronte di una situazione di complessiva floridità aziendale – richiedesse al conduttore di restare vincolato ad un contratto rivelatosi antieconomico ne comprimerebbe le ragioni oltre la misura necessaria a garantire la posizione del locatore, finendo col penalizzare il conduttore sino al punto di veder ridotti – o addirittura azzerati – i risultati positivi conseguiti in altri rami dell’attività aziendale”.

Sembrerebbe allora che la diversa tipologia dell’attività esercitata nei diversi rami d’azienda (fabbricazione sedie in legno in quello che veniva cessato e fabbricazione sedie in metallo in quello che continuava) rappresenti l’elemento a suffragio della decisione assunta in questa più recente sentenza dalla Cassazione. 

Ma forse questo non è il punto dirimente.

Nella prima decisione, infatti la Cassazione ha esaminato un caso in cui il conduttore svolgeva la medesima attività mediante diversi punti vendita, che verosimilmente facevano tutti parte della stessa azienda. In altre parole, sembrerebbe che l’organizzazione aziendale in questione fosse unitaria, e cioè che i singoli punti vendita non costituissero ciascuno uno specifico ramo d’azienda del conduttore. Se invece così fosse stato, ci si domanda allora a quale soluzione sarebbero pervenuti i giudici. 

In definitiva, la questione non può dirsi chiusa. 

Visto il crescere esponenziale che la grande distribuzione ha avuto negli ultimo anni ed essendo sempre più forte la concorrenza al suo stesso interno, considerata altresì l’attuale difficile congiuntura economica nel nostro Paese, molto verosimilmente la materia tornerà presto all’attenzione della Cassazione.


CONDOMINIO: SENZA UNANIMITÀ NON È POSSIBILE LIMITARE IL DIRITTO DI PROPRIETÀ

[A cura di: Confappi]


“Nell’ambito dei regolamenti condominiali, vanno distinte le clausole con contenuto tipicamente regolamentare dalle clausole contrattuali, le quali devono essere approvate all’unanimità. È fuori discussione che una clausola, che limita ad un determinato uso un immobile escludendo gli altri possibili, costituisce limitazione del diritto di proprietà”. È quanto scrivono i giudici della Corte di Cassazione nella sentenza n. 5657 del 20 marzo 2015. 

Il protagonista della vicenda è un condomino, che decide di impugnare una delibera assembleare con la quale è stato approvato (a maggioranza e con il suo voto contrario) un regolamento di condominio, che priva alcuni condòmini dell’utilizzo di parti comuni. Nello specifico, l’utilizzo delle ultime rampe di scale di un palazzo che quindi, secondo la delibera incriminata, appartengono solo ad alcuni condòmini i quali possono vietarne l’accesso agli altri. 

Dice la Suprema Corte: “Le norme del regolamento condominiale che incidono sulla utilizzabilità e sulla destinazione delle parti dell’edificio, in particolare sullo stato giuridico di una cosa comune, come nella specie le scale, hanno carattere convenzionale e, se predisposte dall’originario proprietario dello stabile, debbono essere accettate dai condòmini nei rispettivi atti di acquisto ovvero con atti separati, e, se invece deliberate dall’assemblea condominiale, debbono essere approvate all’unanimità (cfr. tra le tante, Cass. 11 febbraio 1977 n. 621)”. 

Quindi, continuano i giudici, “non potendo formare oggetto di decisione assembleare a maggioranza, sono assolutamente nulle le deliberazioni delle assemblee condominiali lesive dei diritti di proprietà comune. Ciò posto, non vi è dubbio che la clausola (del regolamento condominiale approvato dall’assemblea a maggioranza) che destina alla proprietà esclusiva dei proprietari dell’appartamento posto al piano terzo ed attico dello stabile le scale di collegamento fra i due piani, costituisce “di per sé” lesione del diritto di proprietà comune dei condòmini, comprimendo in maniera eccessiva e ingiustificata l’esercizio di facoltà connesse all’uso o al godimento delle parti comuni dell’edificio – divieto di accedere in una parte delle scale – escludendo alcune destinazioni dall’uso che avrebbe potuto altrimenti farsi della cosa comune”.

OPERE SU PARTI COMUNI DEL CONDOMINIO: IL CONDOMINO ESCLUSO DALL’ISTITUTO DELL’ACCESSIONE

[A cura di: avv. Chiara Magnani – Ass. Foro Nazionale]


Con la sentenza n. 4901 dell’11/03/2015 la Corte di Cassazione esclude che il condomino, che abbia realizzato opere seppur ingenti e di valore sul bene comune, possa richiedere la restituzione delle somme spese per materiali e manodopera, così come previsto dall’ istituto dell’accessione. 

Nel caso in esame, infatti, il singolo condomino richiedeva al Condominio, avendo il medesimo costruito sul terreno di proprietà comune un impianto sportivo, il pagamento delle somme sostenute per l’edificazione dell’opera ai sensi e per gli effetti dell’art. 936 c.c. Il Tribunale di Milano e la Corte di Appello rigettavano le domande dell’attore rilevando l’inapplicabilità dell’istituto dell’accessione, escludendo il diritto dell’attore all’ indennizzo di cui all’art. 936 c.c, per essere – il medesimo – condomino dello stabile, e pertanto comproprietario del bene sul quale era stato realizzato l’impianto sportivo. I giudicanti escludevano, pertanto, l’operatività dell’art. 936 c.c. per non essere l’attore/appellante soggetto terzo rispetto al bene oggetto di intervento.

L’istituto dell’accessione prevede, infatti, che in caso di opere fatte da un terzo con materiali propri, questi possa richiedere al proprietario del fondo il valore dei materiali e manodopera, oppure l’aumento di valore recato al fondo. È consolidato l’orientamento della Cassazione in forza del quale le norme sull’accessione retrocedono a favore di quelle sulla comunione in caso di interventi realizzati dal condomino sulla cosa comune, posto che è escluso, in questi casi, che il comproprietario del fondo – proprio perché soggetto non estraneo al fondo medesimo – possa richiedere l’indennizzo di cui all’art. 936 c.c.

Nel caso in esame, inoltre, non solo il ricorrente è condomino dello stabile – condizione che di per sé esclude in capo al medesimo la qualità di terzo rispetto al bene oggetto di intervento essendone al contrario, comproprietario – ma bensì anche titolare di un contratto di affitto stipulato con l’originario proprietario, in forza del quale il condomino si era obbligato a costruire sul terreno due piscine ovvero di un impianto per lo svolgimento di qualsiasi attività sportiva sul terreno con costi a carico dell’affittuario.

La Corte, pertanto, rigettava il ricorso per essere il ricorrente privo della qualità di terzo rispetto al bene sul quale aveva costruito l’impianto sotto il duplice profilo sia dello status di condomino sia di parte del contratto di affitto: circostanze che rendono inapplicabili le norme sull’accessione così come invece invocate dal condomino ricorrente.  

CRONACA FLASH

Gli svaligiano l’alloggio 

e lo chiudono in bagno

In provincia di Lucca, un uomo, dopo essere rientrato a tarda sera nella propria abitazione, ha scoperto due ladri che vi avevano fatto irruzione per svaligiarla. I due malviventi, dopo avergli strappato l’orologio dal polso, lo hanno rinchiuso nel bagno. Poi sono scappati portando via anche due vassoi d’argento e un cellulare. Riuscito a liberarsi, il malcapitato padrone di casa ha subito avvertito i carabinieri, ma i banditi avevano già fatto perdere le proprie tracce.


Chiama i carabinieri,

ma ha droga in casa

Aveva chiamato i Carabinieri per denunciare un furto in casa. I militari, una volta arrivati nell’appartamento per fare il sopralluogo, sono stati incuriositi da un forte odore di erba. A quel punto, è cominciato un controllo approfondito dell’abitazione che ha permesso di trovare e sequestrare 4 piantine di marijuana più 15 rami in essiccazione dal peso complessivo di 20 grammi e 6,2 grammi di hashish, suddivisi in dosi pronte per lo spaccio. Così l’uomo, un agente assicuratore 40enne residente in provincia di Rimini, è stato arrestato. 



Incendio nell’alloggio

A morire è un cane

I fumi dell’incendio sono stati fatali e per lui non c’è stato nulla da fare. È il caso della morte per asfissia di un cagnolino, che ha perso la vita a causa di un rogo divampato al primo piano di un appartamento sito nel quartiere napoletano di Posillipo. Il cane si trovava proprio nella stanza in cui è scattata la scintilla che ha generato le fiamme. Intervenuti per sedare le fiamme, i vigili del fuoco hanno dichiarato inagibili due camere: quella interessata dall’incendio e quella di un appartamento al piano superiore. 


Anziani rapinati in casa

È caccia alla banda

Le forze dell’ordine sono sulle tracce di una banda di malviventi che ha terrorizzato una coppia di anziani in provincia di Cuneo. Quattro rapinatori hanno fatto irruzione nella casa dei coniugi, hanno li hanno malmenati e si sono fatti consegnare oggetti in oro e contanti. Soltanto dopo la fuga dei banditi gli anziani sono riusciti a dare l’allarme e poi sono stati trasportati in ospedale. 


Animali abbandonati in casa

Proprietaria denunciata 

Maltrattamenti nei confronti degli animali (tre cani e quattro gatti) che teneva in casa. È questa l’accusa della quale dovrà rispondere una donna di 58 anni, residente in provincia di Perugia. I carabinieri, entrati nell’alloggio della donna insieme a tecnici dell’Asl, vigili del fuoco e polizia municipale, si sono trovati di fronte a condizioni igieniche definite disastrose. Pare infatti che la proprietaria di casa fosse da giorni lontana dalla cittadina umbra, e che avesse abbandonando a se stessi i cani e i gatti. Gli animali sono stati affidati a strutture idonee. La donna è stata denunciata.