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SUPERCONDOMINIO: QUANDO SUSSISTONO I REQUISITI GIURIDICI

D. I condòmini di un condominio – composto da oltre 100 unità immobiliari – hanno sollevato un problema di interpretazione delle norme contenute nella riforma del condominio in materia di supercondominio. Vi sottopongo la problematica che presumo possa essere estesa ad una pluralità di condòmini che si trovano nella medesima situazione di quello in argomento. 

Il condominio è stato costruito agli inizi degli anni Ottanta da un’unica impresa, ed è formato da: 

* un grosso fabbricato di sei piani fuori terra formato da due corpi – cinque scale il primo e due il secondo – edificati in tempi diversi e su mappali diversi; 

* tre corpi di villette a schiera costruiti in due tempi congiuntamente al fabbricato principale e sugli stessi mappali; 

* una grande piazza di circa mq. 3.000 – privata ad uso pubblico – sotto la quale sono state costruite circa 80 autorimesse previste congiuntamente ad altre 80 ubicate sotto il fabbricato principale e sotto le villette ed aventi i corselli in comune come pure in comune sono gli stessi accessi alle vie principali. 

È necessario precisare che i giardini delle villette coprono in tutta lunghezza – e per quasi tutta la larghezza – l’intero corsello di accesso alle autorimesse interrate. 

I fabbricati hanno in comune oltre alla piazza anche l’impianto di adduzione dell’acqua comprese le due autoclavi, l’impianto antincendio, l’illuminazione dei corselli al piano interrato ed i passaggi pedonali per l’accesso alla piazza, la sala riunioni, quattro scale che uniscono la piazza all’interrato e sono state imposte come vie di fuga dai vigili del fuoco per tutte le autorimesse dell’interrato. A seguito della difficoltà di ricevere segnali televisivi l’antenna a servizio delle villette è installata sul tetto del corpo principale di sei piani. 

Nell’anno 2007 i condòmini – nel corso di apposita assemblea – hanno formalmente confermato il regolamento condominiale e le tabelle millesimali, entrambi in uso da tempo per tutto il condominio. Con l’avvento della nuova normativa sui condomini, alcuni condòmini ritengono di fatto smembrato il complesso sopradescritto e trasformato in un supercondominio di vari fabbricati che, secondo loro, dovrebbero essere autonomi pur con parti accessorie. 

Le argomentazioni da loro addotte troverebbero fondamento nell’interpretazione della formulazione del nuovo art. 1117/bis del c.c. e dell’art. 67 delle disposizioni di attuazione del codice civile. In buona sostanza gli interessati – sia i proprietari delle villette a schiera e sia quelli delle varie scale – sono dell’avviso che la riforma considera una situazione come quella sopra descritta inequivocabilmente come supercondominio senza dover interpretare ed applicare gli art. 61 e 62 delle disposizioni di attuazione. 

Rispondono gli avvocati Massimiliano Bettoni e Giandomenico Graziano (Studio Legale MaBe) 

R. Il condominio viene in essere “ipso iure et facto”, ovverosia senza bisogno d’apposite manifestazioni di volontà o altre esternazioni, quali approvazioni assembleari, solo che singoli edifici, costituiti in altrettanti condomini, abbiano in comune alcuni impianti e servizi legati, attraverso la relazione di accessorietà, con gli edifici medesimi e per ciò appartenenti, pro quota, ai proprietari delle singole unita immobiliari comprese nei diversi fabbricati (cfr., Cassazione n. 17332 del 2011). 

Secondo il principio di accessorietà, un bene è condominiale “allorché sussista un collegamento funzionale tra il bene stesso e la singola unità immobiliare” (cfr. Cass., 27145/2007; Cass., 17993/2010). Il singolo, quindi, ha il diritto di condominio pro quota sulla parte in questione se quella parte risulti funzionale alla singola unità immobiliare di cui è proprietario, ovvero se tra le parti comuni e le singole unità esiste un legame materiale di incorporazione che rende le prime indissolubilmente legate alle seconde. 

Il bene, al contrario, non è comune quando per le sue caratteristiche funzionali o strutturali serva in modo esclusivo all’uso o al godimento di una sola singola unità immobiliare, o perché non sia necessaria per l’esistenza dell’edificio stesso o perché sia perpetuamente destinata all’uso particolare. 

Quando una parte comune è accessoria a più edifici contigui tra loro e strutturalmente autonomi si parla di supercondominio. Per meglio dire, i singoli edifici costituiti in altrettanti condomini vengono a formare un supercondominio quando alcuni impianti e servizi comuni sono già contestualmente legati dalla relazione di accessorio a principale con più edifici. La figura del supercondominio è, quindi, compatibile con la contestuale esistenza di condomini autonomi, afferenti ai singoli edifici. 

Fino al recente passato era dibattuto se la normativa dei condomini degli edifici potesse applicarsi anche al supercondominio o se per tali fattispecie dovesse rilevare la normativa della comunione. Questo interrogativo sorgeva per la fatica ad abbandonare l’idea, riferibile al Legislatore del 1942, ancorata unicamente al concetto di condominio in senso verticale. Oggi, è fuori dubbio che le realtà immobiliari sviluppate in senso orizzontale presentano fattispecie di condominialità da trattare alla stregua del condominio tradizionale. Tale affermazione, oltre al disposto di cui all’art. 1117 bis cod. civ., è altresì consolidata dal mutamento terminologico cui si è avvalso il Legislatore della riforma il quale ha modificato la locuzione “i proprietari dei diversi piani o porzioni di piano” con il sintagma “i proprietari delle singole unità immobiliari”. 

Orbene, gli artt. 61 e 62 disp. att. c.c. permettono ai condòmini di “sciogliere il condominio” dividendolo in parti che abbiano le caratteristiche di edifici autonomi, intervenendo così sulla situazione di fatto. (Cass. 05 ottobre 2001 n. 12290). 

Tutto ciò porta ad affermare che al supercondominio si applica la normativa condominiale anche se non vi e alcuna volontà dei condòmini e se non vi è titolo contrario. 

La suprema Corte di Cassazione 2305/2008, ha affermato che ai fini della costituzione di un supercondominio non è necessaria né la manifestazione di volontà dell’originario costruttore né quella di tutti i proprietari delle unità immobiliari di ciascun condominio, essendo sufficiente che i singoli edifici abbiano, materialmente, in comune alcuni impianti o servizi, ricompresi nell’ambito di applicazione dell’articolo 1117 del cc, in quanto collegati da un vincolo di accessorietà necessaria a ciascuno degli stabili, spettando, di conseguenza, a ciascuno dei condòmini dei singoli fabbricati la titolarità pro quota su tali parti comuni e l’obbligo di corrispondere gli oneri condominiali relativi alla loro manutenzione. 

Ciò premesso, la divisione del condominio avviene con la divisione delle parti comuni ex art. 1119 cod. civ. e qualora la divisione non possa attuarsi senza modificare lo stato delle cose ed occorrano opere per la sistemazione diversa dei locali o delle dipendenze tra i condòmini, lo scioglimento deve essere deliberato con le più stringenti maggioranze di cui all’art. 1136, quinto comma, cod. civ. 

Questo perché attraverso un intervento sulle parti comuni, si andrebbe ad incidere sulla relazione di accessorietà di cui sopra. 

Qualora, a seguito della divisione, dovessero ancora restare in comune alcune parti, perché ad esempio, non suscettibili di utilizzazione separata ovvero indivisibili, su queste dovrà continuare ad essere applicata la fattispecie del supercondominio, quindi con la convocazione di un’apposita superassemblea, con la ripartizione delle spese tra i supercondòmini, ecc. 

Ciò che rileva, in conclusione, è proprio lo stato di fatto (relazione di accessorietà) di cui all’art. 1117 cod. civ.. I condòmini possono decidere di interferire su detta relazione, ma qualora ciò sia materialmente o giuridicamente impossibile, saranno ancora soggetti alla fattispecie supercondominiale. 

Né una diversa interpretazione può rilevarsi attraverso la Riforma del Condominio, la quale, limitandosi a recepire il precedente e copioso orientamento giurisprudenziale, altro non ha fatto che normativizzare la situazione previgente.  Nel caso di specie, quindi, riteniamo che la nuova disciplina normativa in materia condominiale sancisca ipso iure et facto tale fattispecie e pertanto la situazione è già considerabile quale super condominio senza che sia necessario un passaggio e dar corso alle azioni prescritte agli articoli 61e 62 delle disposizioni di attuazione del codice civile. 

IL PORTICATO VIOLA IL DECORO CONDOMINIALE? VA RIMOSSO ANCHE SE L’ASSEMBLEA LO HA APPROVATO

[A cura di: avv. Chiara Magnani – Ass. Foro Immobiliare]

Con la sentenza n. 12582/15  la Corte di Cassazione conferma come la violazione della norma del regolamento condominiale che stabilisce il divieto effettuare interventi modificativi della struttura architettonica del fabbricato – norma di natura contrattuale o perché predisposta dall’originario proprietario e poi accettata dai singoli condominio per il tramite dei singoli atti di acquisto o perché deliberata all’unanimità in sede assembleare – legittimi la richiesta di risarcimento del danno anche nelle forme della reintegrazione in forma specifica.

Nel caso in esame due condòmini avevano adito il Tribunale per chiedere la rimozione del porticato realizzato da altro condomino (un albergo) nell’ambito delle opere di ristrutturazione della propria unità, in quanto ritenuto intervento violativo della disposizione del regolamento condominiale che sanciva il divieto di modificare la struttura architettonica del fabbricato.

Il giudice di prime cure ordinava la rimozione del porticato e anche la corte di Appello confermava la correttezza della sentenza di primo grado.

Nella sentenza n. 12582 la Corte di Cassazione ribadisce come siano legittime le convenzioni mediante le quali i partecipanti al condominio decidano di porsi dei limiti – sia con riferimento all’esercizio dei  propri diritti sui beni comuni sia con riferimento ai beni di proprietà esclusiva – e ricorda come, mediante le disposizioni del regolamento di condominio, si possano dettagliare e/o integrare e/o specificare nonché derogare alle disposizioni di legge. Nel caso di specie, infatti, prevedendo in modo regolamentare il divieto per i singoli partecipanti al condominio di effettuare qualsivoglia intervento – tanto sulle parti comuni quanto su quelle private – se lesivo della struttura estetica dell’edificio, si è chiaramente operata una deroga all’art. 1120 c.c.: si è, infatti, esteso il divieto di innovazione a qualsiasi intervento in grado di modificare la linea architettonica dello stabile e ciò senza che potesse avere rilievo il rispetto degli altri requisiti di legge quali, ex art. 1120 4° co. c.c., la sicurezza, stabilità del fabbricato ecc…

Il porticato installato dall’hotel, pur non minando la stabilità, staticità, struttura o sicurezza dell’edificio è stato ritenuto un intervento in grado di incidere sulla simmetria e sul decoro del palazzo e destinato, pertanto, a mutarne l’estetica – ovviamente la struttura architettonica va riferita o al momento della costruzione del caseggiato o al momento della convenzione negoziale a seconda che la disposizione regolamentare sia presente nel regolamento redatto dal primo proprietario o sia frutto di successiva delibera assembleare – e da ciò l’accoglimento della domanda dei due condòmini e la conseguente condanna, per l’hotel, alla rimozione dell’opera. 

Di nessun pregio è risultata l’esistenza di una preventiva delibera assembleare autorizzativa dell’installazione del porticato in quanto delibera contraria al regolamento e pertanto chiaramente nulla, così come la circostanza che il porticato non creasse alcun problema di staticità e/o sicurezza all’edificio: è stato “sufficiente” accertare come il porticato andasse ad alterare l’aspetto architettonico dell’edificio andando così a costituire violazione del regolamento condominiale, per aversi condanna alla rimozione del manufatto.

CRONACA FLASH DALLA CASA E DAL CONDOMINIO

Lasciano il figlio da solo 

Condannati i genitori

Una mamma di 23 anni e il suo compagno di 27, entrambi originari del Sud America, sono stati condannati dal gup del tribunale di Udine a 8 mesi di carcere, con il beneficio della condizionale, con l’accusa di abbandono di minore. La sentenza si riferisce a un episodio avvenuto nel 2013, quando il bambino si era svegliato alle 6 del mattino e, non trovando nessuno in casa, aveva bussato alla porta del vicino. Respinta dunque la tesi difensiva secondo cui i due si sarebbero allontanati per raggiungere il pronto soccorso a causa di un malore improvviso della madre. 



13enne accoltella la madre

che non vuole farlo uscire

Un ragazzino di 13 anni ha ferito all’addome la madre di 37 anni perché non voleva lasciarlo uscire di casa. La donna è stata trasportata in ospedale in codice rosso, ma i medici non hanno riscontrato lesioni gravi e la hanno dimessa poco dopo. Secondo le dichiarazioni del 13enne, la madre era solita ubriacarsi e perdere il controllo, sfogando la sua rabbia su di lui. Dalla ricostruzione della polizia, pare che anche quella sera la donna avesse alzato il gomito, dando in escandescenza e scagliandosi contro il figlio che voleva uscire di casa.


Incendio in appartamento

Due persone intossicate

Ci sarebbe un banale corto circuito all’origine dell’incendio che ha semidistrutto un appartamento in un comune della provincia di Genova. Secondo i rilievi effettuati dai vigili del fuoco, le fiamme si sarebbero propagate a partire da un guasto elettrico, avvolgendo i mobili e riempiendo di fumo le stanze della casa. I due occupanti, un uomo e una donna, sono stati trasportati al pronto soccorso, ma le loro condizioni non hanno destato preoccupazione.


Con i vigili urbani in casa

getta marija dal balcone

Un uomo di 49 anni è stato arrestato in provincia di Torino per avere coltivato una pianta di marijuana in casa. L’uomo era stato raggiunto in casa dagli agenti della polizia municipale per una semplice notifica giudiziaria. Spaventato dall’arrivo dei vigili, era corso in balcone per liberarsi della piantina, buttandola dal terzo piano. Ma l’escamotage non è bastato. Dopo una perquisizione dell’appartamento, infatti, sono stati rinvenuti semi di marijuana e droga già confezionata. Il 49enne, già noto alle forze dell’ordine per produzione e spaccio, è stato arrestato.


Pellet per stufa a legna

Intossicati e ricoverati 

Si stava trasformando in tragedia la breve vacanza di una famiglia di Torino, in villeggiatura in una località montana alle porte del capoluogo piemontese. Un uomo di 36 anni, la moglie di 32 e i tre figli, il più piccolo di appena 11 mesi, sono finiti in ospedale prima e in camera iperbarica poi, per una lieve intossicazione da monossido di carbonio. Dai primi rilevamenti dei vigili del fuoco sembra che la stufa a legna usata per riscaldarsi fosse stata alimentata erroneamente con pellet.


MUTUO ESORBITANTE RISPETTO AL PREZZO DI VENDITA DICHIARATO DELLA CASA: C’È EVASIONE FISCALE

[A cura di: Salvatore Tiralongo – Nuovo FiscoOggi, Agenzia delle Entrate]


La Corte di cassazione, con sentenza n. 23954 del 4 giugno 2015, ha statuito che “È pienamente corrispondente a logica il criterio che un bene non può costituire garanzia al di là del proprio valore. Pertanto, se è perfettamente concepibile che un finanziamento possa essere chiesto, oltre che per l’acquisto di un immobile, anche per le ulteriori spese, certamente a fronte del finanziamento dovranno esservi ulteriori garanzie, quali fideiussioni o altre”.


La vicenda

Con sentenza del 18 luglio 2012, il Tribunale giudicava il ricorrente colpevole del reato previsto dall’articolo 4, D. lgs 74/2000, perché, in qualità di amministratore, al fine di evadere le imposte, indicava nella dichiarazione dei redditi, relativa agli anni d’imposta 2004, 2005 e 2006, elementi attivi per un ammontare inferiore a quello reale.

Nel caso di specie, la società che alienava appartamenti conveniva, con gli acquirenti degli immobili, l’indicazione nell’atto di un prezzo inferiore a quello realmente corrisposto.

L’amministratore ricorreva avverso la sentenza del Tribunale. Ma la Corte di appello di Roma, con sentenza del 16 giugno 2014, confermava la decisione del Tribunale.

Alla condanna conseguivano le pene accessorie dell’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese, l’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione, l’interdizione dalle funzioni di rappresentanza e assistenza in materia tributaria e l’interdizione perpetua dall’ufficio di componente di Commissione tributaria.

Contro il provvedimento, l’imputato ha proposto ricorso per cassazione, tra gli altri, per i seguenti motivi: 

* erronea applicazione della legge; mancanza di motivazione ex articolo 606 c.p.c., lettera e, perché la Corte di appello si sarebbe limitata a confermare la sentenza di primo grado senza esprimersi sui singoli motivi di appello;

* la sentenza avrebbe dichiarato l’inderogabilità del disposto previsto dall’articolo 38 del D. lgs 385/1993 (Tub), ritenendo che la somma erogata a titolo di mutuo non possa essere superiore al valore dell’immobile;

* le pene accessorie non potrebbero avere una durata superiore a quella della pena principale.


La Cassazione

Quanto al primo motivo, la Corte di cassazione, investita della questione, ha dichiarato il ricorso inammissibile, poiché fondato su motivi che riproducono le medesime ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, valutando esauriente la motivazione della sentenza impugnata.

Circa la doglianza del ricorrente in merito all’ammontare del mutuo concesso agli acquirenti, che determinerebbe una rideterminazione del reale prezzo del trasferimento in aumento rispetto al dichiarato, a giudizio della suprema Corte, “è pienamente corrispondente a logica il criterio che un bene non può costituire garanzia al di là del proprio valore. Pertanto se è perfettamente concepibile che un finanziamento possa essere chiesto oltre che per l’acquisto di un immobile, anche per le ulteriori spese, che siano per l’acquisto, la ristrutturazione o altro, certamente a fronte del finanziamento dovranno esservi ulteriori garanzie, quali fideiussioni o altre, che, nel caso di specie, non risultano mai essere state prestate”.

Pertanto, in riferimento alla presenza di ricavi in nero, secondo i giudici di legittimità, la Corte d’appello ha ben operato. È stato, infatti, correttamente evidenziato come l’ammontare massimo dei finanziamenti di credito fondiario non possa superare l’80% del valore del bene ipotecato, valore che può essere aumentato fino al 100% solo laddove siano prestate garanzie integrative rappresentate da fideiussioni bancarie e assicurative o da altre idonee garanzie previste dalla banca.

La Corte d’appello ha comunque valutato ispirandosi alla logica e alla comune esperienza, secondo cui l’erogazione di una somma sensibilmente superiore al valore dell’immobile, se anche fosse possibile, priverebbe la banca di adeguata garanzia nel caso in cui il credito entrasse in sofferenza.

Da qui, l’avallo del ragionamento della Guardia di finanza, secondo cui il reale corrispettivo pagato dagli acquirenti nelle compravendite degli immobili ceduti dalla società, rappresentata dall’imputato, doveva essere determinato in misura almeno uguale all’entità del mutuo erogato (valore da ritenersi determinato per difetto, posto che dagli atti non era emersa alcuna presentazione di garanzie aggiuntive tali da consentire l’erogazione al 100% del valore dell’immobile).

A fronte di questo, la difesa non ha saputo spiegare “per quale motivo un imprenditore dovrebbe vendere degli immobili per una somma inferiore alla metà del loro reale valore”.

Inoltre, il convincimento del giudice di merito è stato determinato anche da altre circostanze probatorie, come il finanziamento della società, da parte dell’imputato e della moglie, indice di una rilevante disponibilità di liquidità non altrimenti giustificata.

L’irrisorietà del reddito Irpef dichiarato dai coniugi, per gli anni in contestazione, è comunque non compatibile con i 398mila euro conferiti dai soci per i medesimi anni.

In sede penale, il valore dei mutui erogati dalla banca agli acquirenti degli immobili e le incongruenze emergenti dalle dichiarazioni fiscali dell’imprenditore sono elementi che giustificano la condanna per il reato di dichiarazione infedele, con applicazione delle pene accessorie, anche per una durata superiore alla pena principale inflitta.

Per quanto riguarda la quantificazione delle pene accessorie irrogate, la Cassazione respinge ogni doglianza di parte ricorrente, che deduce la loro illegalità solo perché quantificate in misura superiore alla pena principale.

La parte ricorrente aveva invocato l’applicabilità dell’articolo 37 del codice penale, secondo cui: “Quando la legge stabilisce che la condanna importa una pena accessoria temporanea, e la durata di questa non è espressamente determinata, la pena accessoria ha una durata eguale a quella della pena principale inflitta, o che dovrebbe scontarsi, nel caso di conversione, per insolvibilità del condannato. Tuttavia, in nessun caso essa può oltrepassare il limite minimo e quello massimo stabiliti per ciascuna specie di pena accessoria”.

Mentre, secondo i Giudici supremi, nel caso di specie, si applica l’articolo 12 del D. lgs 74/2000.

La Corte suprema, a sezioni unite, con sentenza 6240/2014, aveva affermato che “sono riconducibili al novero delle pene accessorie, la cui durata non sia espressamente determinata dalla legge penale, quelle per le quali sia previsto un minimo e un massimo edittale, ovvero uno soltanto dei suddetti limiti, con la conseguenza che la loro durata deve essere dal giudice uniformata, ai sensi dell’art. 37 c.p., a quella della pena principale inflitta”.

La sentenza non risolve il contrasto giurisprudenziale esistente, ma certamente consente di trarre un ulteriore principio interpretativo, per cui “può parlarsi di pena ‘espressamente determinata’ solo quando il legislatore fissi in concreto la durata, mentre in tutti gli altri casi (sia che venga indicato il minimo e il massimo, ovvero il solo minimo o il solo massimo), trova applicazione l’art. 37 c.p. e quindi la pena accessoria va determinata con riferimento a quella principale inflitta”.

Pertanto, ove il legislatore abbia indicato i limiti minimi e massimi delle pene, queste non possono essere ricondotte alle pene accessorie a durata non espressamente prevista.

Non può, dunque, trovare spazio, a giudizio della suprema Corte, un’interpretazione della norma che, sostanzialmente, riduca la portata applicativa dell’articolo 12, D. lgs 74/2000, norma peraltro introdotta nella consapevole vigenza da parte del legislatore dell’esistenza dell’articolo 37 c.p., individuando solo dei limiti, minimo e massimo, della pena accessoria da irrogare, soglie al di sopra o al di sotto delle quali non si potrebbe andare qualora la pena principale irrogata fosse al di sotto o al di sopra delle stesse.

Il conflitto apparente tra l’articolo 12 e l’articolo 37 c.p. deve essere risolto, nel caso di specie, a favore dell’articolo 12, norma di dettaglio che espressamente prevede la durata delle pene accessorie. 

IMU E TASI, L’ANCI: GETTITO INSUFFICIENTE A COLMARE IL TAGLIO DEI TRASFERIMENTI

A chi va e come è distribuito il gettito afferente alle imposte sulla casa. È quanto ha inteso spiegare una nota dell’Anci, secondo i cui calcoli i Comuni hanno incassato circa 10 miliardi di euro, parte dei quali verranno poi ripartiti sulla base di criteri di riequilibrio, a meno di oltre 600 milioni che verranno acquisiti al bilancio dello Stato, per effetto dei ulteriori tagli decisi con la Legge di stabilità 2015.

L’Anci puntualizza che “si tratta di risorse essenziali per il funzionamento dei Comuni, che quest’anno non hanno ricevuto alcun anticipo delle assegnazioni statali, come invece sempre avvenuto intorno al mese di marzo”. Quindi, una nota polemica: “Molti commentatori evidenziano il peso dell’imposizione immobiliare, fortemente aumentato dal 2012, con il passaggio dall’Ici all’Imu, identificandolo come il segno dell’incapacità del sistema dei Comuni di contenere le proprie spese e con il conseguente ricorso incontrollato all’aumento delle aliquote. Ma l’aumento dei principali gettiti comunali (tributo immobiliare e addizionale Irpef) tra il 2010 e il 2014 è direttamente dovuto al drastico ridimensionamento delle risorse deciso dai governi che si sono succeduti negli ultimi anni”.

Secondo i calcoli dell’Anci, a valori correnti i trasferimenti statali ai Comuni sono diminuiti per 12,5 miliardi di euro, risultando ormai pressoché azzerati; il gettito dei principali tributi è aumentato di 11,1 miliardi, mentre le risorse complessivamente disponibili per i Comuni sono diminuite di quasi 4 miliardi di euro, considerando anche l’effetto dei vincoli da patto di stabilità. Gli aumenti del prelievo fiscale comunale sono stati determinati in grande misura da decisioni dello Stato, attraverso i continui cambiamenti dell’assetto delle entrate dei Comuni. Nella stragrande maggioranza dei casi, l’aumento del prelievo deciso dai Comuni non è arrivato a compensare la dimensione drammatica dei tagli subiti nel quadriennio.

L’associazione dei Comuni sottolinea anche che in valori pro-capite costanti (2010), le variazioni 2010/2014 mostrano che per tutte le diverse fasce demografiche i recuperi fiscali non bilanciano le riduzioni di risorse decise nel quadriennio.

“Il contributo che i Comuni hanno apportato al risanamento della finanza pubblica è ormai riconosciuto – commenta l’Anci -. La Corte dei Conti ha recentemente sottolineato la sproporzione della stretta finanziaria imposta agli enti locali dalle manovre di questi anni, rispetto alle amministrazioni centrali. Purtroppo, per scelte in larga parte non dipendenti dai Comuni, i cittadini sono stati gravati da un prelievo maggiore senza corrispondenti benefici sui servizi locali. Una parte cospicua delle tasse comunali è andata allo Stato per sostenere il risanamento della finanza pubblica, insieme alle riduzioni di spesa operate dai sindaci. Ricordiamo inoltre che il pagamento dell’acconto Imu e Tasi è calcolato sulla base del regime vigente nel 2014 nel Comune di ubicazione dell’immobile. L’acconto è pari al 50% di quanto dovuto per lo scorso anno. Pertanto, non era necessario conoscere le eventuali variazioni che i Comuni possono aver già deliberato, ma il cui termine ultimo è quello del bilancio di previsione, attualmente fissato al 30 luglio”.

Come pro-memoria per chi non avesse ancora pagato la prima rata di Imu e Tasi, l’Anci precisa che “il contribuente è in regola se versa l’acconto sulla base delle aliquote e delle detrazioni stabilite dal Comune per il 2014 (e risultanti sul sito del Ministero dell’economia e delle finanze), salvo poi procedere ad eventuale conguaglio in sede di saldo nel caso di variazioni delle aliquote e delle detrazione dei citati tributi, che dovranno essere pubblicate dai Comuni sul sito Mef, entro il 28 ottobre 2015. Nulla vieta, naturalmente, che, nel caso in cui il Comune abbia già deliberato in materia di aliquote e detrazioni Imu e Tasi, magari determinando condizioni più favorevoli rispetto al 2014, il contribuente possa far riferimento alle delibere relative a quest’anno anche per il pagamento dell’acconto”.

Tasi: a quanto ammontano sanzione e interessi sul pagamento in ritardo

Se è stata sforata la scadenza del 16 giugno per il pagamento della Tasi (e dell’Imu), c’è comunque ancora la possibilità di rimediare, facendosi carico anche di sanzioni ed interessi. Altroconmsumo ricorda a quanto ammontano, e qual è l’iter per mettersi in regola.

PAGARE IN RITARDO
Il 16 giugno è scaduto l’ultimo termine utile per pagare la prima rata di acconto per la Tasi, la tassa sui servizi indivisibili, che è una delle tre voci d’imposta che compongono la Iuc (Imposta unica comunale), insieme all’Imu (Imposta municipale propria) e alla Tari (Tassa sui rifiuti). Spetta sia ai proprietari di immobili (adibiti ad abitazione principale e non) che agli inquilini. 
Se non si è pagato nei termini previsti, oppure si sono commessi errori pagando meno del dovuto, si può utilizzare il ravvedimento operoso. In pratica, sempre tramite il modello F24 o l’apposito bollettino postale, si può versare la rata dovuta al Comune aggiungendo sanzioni e interessi. Gli interessi vanno calcolati sui giorni di effettivo ritardo, dal giorno successivo alla scadenza al giorno di effettivo versamento. Il tasso da applicare è dello 0,5% annuo, tuttavia i Comuni possono modificarlo con apposito regolamento.

QUANTO PAGARE
La Tasi è dovuta da chiunque possieda o comunque detenga un immobile adibito ad abitazione principale. Sugli altri immobili, invece, si somma all’Imu, a meno che il Comune non abbia deliberato che l’Imu esclude la Tasi. Lo Stato ha fissato le aliquote minime e massime applicabili, lasciando però molta libertà alle amministrazioni comunali nel fissare sconti e agevolazioni. Ad ogni buon conto, la base imponibile per il calcolo della Tasi è la stessa utilizzata per l’Imu: quindi bisogna rivalutare del 5% la rendita catastale e moltiplicarla per 160. Le linee guida fissate dallo Stato per la Tasi sono queste:
* Abitazione principale: l’aliquota minima è dello 0,1%, quella massima invece può arrivare allo 0,25%. I Comuni possono alzarla di un ulteriore 0,08%, portandola allo 0,33%.
* Altri immobili: la somme delle aliquote di Tasi e Imu non può superare l’1,06%. Anche in questo caso i Comuni possono applicare uno 0,08% aggiuntivo, portando la tassazione all’1,14%.

PAGAMENTO IN RITARDO
Facciamo un esempio: se si pagano 100 euro con 10 giorni di ritardo, si devono calcolare gli interessi in questo modo:
* 100 x 0,5% = 50 centesimi annui;
* 50 x 10/365 = 1 centesimo
Ai 100 euro di imposta si deve quindi sommare 1 centesimo di interesse. Ovviamente, prima si paga, meglio è, dato che le sanzioni aumentano con il passare del tempo così come gli interessi.
– Se si versa entro 14 giorni dalla scadenza, si deve applicare calcolare lo 0,2% giornaliero di sanzione sulla somma dovuta. Per esempio, per 100 euro di imposta non versata si dovranno aggiungere 20 centesimi per ogni giorno di ritardo, oltre agli interessi (cd. ravvedimento sprint).
– Se si versa dal 15° giorno al 30° giorno successivo alla scadenza, si deve calcolare la sanzione del 3% di quanto non pagato, senza rapportarla ai giorni di ritardo. Quindi, per i 100 euro d’imposta da pagare, si devono aggiungere 3 euro di sanzione oltre agli interessi, questi si calcolati su base giornaliera (cd. ravvedimento brevissimo).
– Se si versa dal 31° giorno al 90° giorno successivo alla scadenza, si deve calcolare la sanzione fissa del 3,33% di quanto non pagato. Quindi per i 100 euro d’imposta da pagare si devono aggiungere 3,33 euro di sanzione oltre agli interessi, da calcolare su base giornaliera (cd. ravvedimento breve).
– Superati i 30 giorni dalla scadenza, e fino al 30 giugno 2016, ci si può ravvederti pagando la sanzione del 3,75% oltre agli interessi (cd. ravvedimento lungo). Superata tale data, si sarà passibili di una sanzione amministrativa pari al 30% dell’imposta non pagata o pagata in ritardo.
IL SALDO
Il saldo della Tasi va versato entro il 16 dicembre. Per determinarlo, occorre riliquidare il tributo per l’intera annualità poiché le aliquote deliberate dal Comune potrebbero essere variate. Quindi bisogna sottrarre dall’importo ottenuto quanto versato entro a giugno a titolo di acconto.
Ma la Tasi può anche essere versata in un’unica soluzione, a giugno. In tal caso, si calcola l’intera imposta in base alle aliquote e le detrazioni relative al 2014. Se successivamente il Comune modifica le aliquote, occorre riliquidare il tributo per l’intero anno applicando le nuove aliquote e sottraete quanto versato a giugno. Il conguaglio va pagato entro il 16 dicembre.

PARTI COMUNI: QUALI DIFFERENZE TRA LE INNOVAZIONI E IL MAGGIOR UTILIZZO

[A cura di: avv. Enrico Morello – resp. centro studi AGIAI]

Per quanto riguarda le cose comuni, che si tratti di maggior utilizzo da parte di un condomino o di innovazione, il criterio è sempre quello di rispettare il pari diritto degli altri condòmini a utilizzarle a propria volta nonché di salvaguardare il decoro architettonico e la stabilità dell’innovazione. 

Il caso: intervenendo in merito a diverse questioni riguardanti i rapporti fra un condomino ed il condominio di appartenenza, la Corte di Cassazione ha avuto modo di ribadire, nel “correggere” le sentenze emesse da Tribunale e Corte di Appello, i seguenti condivisibili principi di diritto (e prima ancora di buon senso):

AMPLIAMENTO

Ogni condomino può ampliare una preesistente apertura sul muro condominiale purché non venga alterata la destinazione del muro stesso e non venga impedito agli altri condòmini di farne parimenti uso.

La prima questione sottoposta al vaglio della Corte riguardava un ampliamento della apertura che permette alla condomina di attraversare il muro condominiale per accedere alla propria parte esclusiva di immobile: ampliamento (ovviamente) ritenuto lecito dalla condomina che lo aveva praticato, e (altrettanto ovviamente) ritenuta nefasta dal condominio in quanto ne risultava “ alterato il decoro architettonico e reso impossibile il pari uso agli altri condòmini.

La Suprema Corte, intervenendo sul punto, dava ragione alla condomina osservando come l’errore del giudice di secondo grado fosse stato quello di ritenere tale opera semplicemente illegittima in quanto, trattandosi di innovazione, “non era stata sottoposta a delibera condominiale per l’approvazione”. 

Il giudice di Appello, viceversa, osserva opportunamente la Corte di Cassazione, avrebbe dovuto limitarsi ad accertare se l’opera in questione (che trattandosi semplicemente di un “uso più intenso di una cosa comune” e non di innovazione non necessitava di alcuna decisione assembleare) ledeva o meno in qualche modo i diritti degli altri condòmini.

La distinzione, in effetti piuttosto evidente, in altre parole è fra utilizzo di una cosa comune in modo da trarne un maggior vantaggio da parte di un singolo condomino, e la modifica stessa della destinazione della parte comune: nel primo caso andranno rispettati i presupposti già detti in precedenza (e cioè il pari diritto degli altri condòmini), mentre nel secondo sarà l’assemblea a doversi pronunciare.

Quale ulteriore (forse persino superflua a questo punto) specificazione, la Corte Suprema ricorda anche alcune sue precedenti decisioni, con le quali si era ritenuto che non dovessero essere sottoposte al vaglio dell’assemblea decisioni inerenti: la trasformazione da parte di un condomino di luci in vedute su un cortile comune; il taglio parziale del tetto per ricavarne un terrazzo; l’apertura nell’androne condominiale di un nuovo ingresso a favore dell’immobile di un condominio.

In tutti questi casi, si ripete, il limite da rispettare è quello del diritto degli altri condòmini a farne parimenti uso, e non quello previsto per la validità delle delibere assembleari in materia di innovazioni.

IL DECORO

Collegamento fra la previsione dell’art. 1120 cod. civ. relativo alle innovazioni e l’art. 1102 relativo all’utilizzo da parte del singolo delle parti comuni: la lesione del decoro architettonico.

La Corte, infine, dedica una ultima (utile) annotazione ad un punto di contatto esistente fra le due norme citate del codice civile: che seppure riferite a fattispecie diverse, comporta che il principio espresso dall’art. 1120 relativo al divieto di innovazioni illecite (o perché ledono il decoro architettonico del fabbricato, o perché addirittura ne mettono a repentaglio la sua stessa stabilità) trovi applicazione anche nelle fattispecie inerenti all’articolo 1102.

In altre parole, è del tutto ovvio che non è che quello che non si può fare con le innovazioni (tipo per utilizzare un esempio assurdo deliberare di togliere tutti i muri maestri a rischio di far crollare il palazzo) possa essere consentito al singolo condomino che voglia trarre un migliore utilizzo della cosa comune.

Quale conclusione di questa premessa, la Corte di Cassazione ha pertanto concluso che i giudici di merito hanno errato nel non accertare se di fatto l’opera (famoso ampliamento della apertura sul muro condominiale) posta in essere dalla condomina  fosse o meno opera tale da mettere a repentaglio la sicurezza del fabbricato o comunque da alterarne il decoro architettonico.

Da qui la decisione della Suprema Corte di rinviare la causa (ritenuta evidentemente e per i motivi detti non sufficientemente istruita) ad altro giudice, al quale viene espressamente dato mandato di attenersi al seguente principio di diritto: ogni condomino, nel caso in cui il cortile esclusivo o comune sia munito di recinzione confinante con area pubblica o altra area dello stesso condominio, può apportare a tale recinzione, se di proprietà condominiale, senza bisogno del consenso degli altri partecipanti alla comunione, tutte le modifiche che gli consentono di trarre dal bene comune una particolare utilità aggiuntiva rispetto a quella goduta dagli altri condòmini e, quindi, procedere anche all’apertura o all’ampliamento di un varco di accesso al cortile condominiale o alla sua proprietà esclusiva, purché tale varco non alteri la destinazione del muro e delle altre cose comuni, non comprometta il diritto al pari uso e non arrechi pregiudizio alla stabilità, alla sicurezza e decoro architettonico del fabbricato.

CRONACA FLASH DALLA CASA E DAL CONDOMINIO

Rogo in appartamento

Si sfiora la tragedia

Se l’è cavata con qualche ustione sul corpo e tanto spavento. Una donna di 49 anni in provincia di Palermo è stata tratta in salvo dai vigili del fuoco insieme alla figlia di 28 e al nipote di appena un anno, dopo che nella sua abitazione si era sviluppato un incendio. Coinvolti nelle operazioni di spegnimento anche una ventina di appartamenti adiacenti alla casa della donna, che sono stati sgomberati per precauzione.

Si risveglia dal coma

bimbo caduto in garage 

Ha riaperto gli occhi e ha riconosciuto i famigliari. Dopo un mese di coma si è risvegliato il bimbo di 4 anni che lo scorso maggio era precipitato da una grata di un parcheggio coperto in provincia di L’Aquila, mentre stava giocando sotto gli occhi della madre. Trasportato in un primo momento all’ospedale di Pescara, era stato trasferito in elisoccorso al Bambin Gesù di Roma.

Esplode bombola di gas

Una donna rimane ferita 

Una donna è rimasta gravemente ustionata a causa dello scoppio di una bombola di metano nella sua abitazione in provincia di Cosenza. Lievemente feriti anche il marito e il figlio, presenti in casa durante la deflagrazione. Dal sopralluogo dei vigili del fuoco sono emersi ingenti danni alla parete frontale dell’abitazione e al tetto. In seguito alle ferite riportate su tutto il corpo, la donna è stata trasportata al centro grandi ustionati di Bari.

Picchia la moglie incinta

Arrestato un 24enne 

Un giovane di 24 anni è stato arrestato dagli agenti del nucleo Prevenzione Generale di Napoli con l’accusa di aggressione aggravata nei confronti della moglie, all’ottavo mese di gravidanza. Durante un giro di pattuglia, i poliziotti avevano notato una donna incinta chiedere aiuto per la strada e si erano fermati. Una volta soccorsa è cominciata la ricerca del marito che poco prima l’aveva malmenata, minacciando di morte anche la prima figlia, di appena due anni. La caccia all’uomo si è conclusa in serata quando il 24enne è stato rintracciato nell’appartamento di un parente in provincia di Salerno.

Abitazione svaligiata 

Bottino da 40 mila euro

I ladri sono entrati in azione approfittando dell’assenza del padrone di casa – un imprenditore friulano fuori per il week end – portando via oggetti in oro e gioielli per un valore complessivo di 40 mila euro. A dare l’allarme, al rientro, è stato lo stesso imprenditore, dopo aver notato l’infisso della porta del suo appartamento perforato, sembra da un piccolo trapano. Sulla vicenda stanno indagando i carabinieri del nucleo di Udine.

RENT TO BUY: LA TUTELA GIURISDIZIONALE SE IL CONDUTTORE NON RISPETTA IL CONTRATTO

“Rent to buy, titolo esecutivo per il rilascio dell’immobile ed effettività della tutela giurisdizionale”. Questo il titolo dello studio n. 283-2015/C Approvato lo scorso 28 maggio dal Consiglio Nazionale del Notariato.

Nella relazione, l’autore analizza la nuova disciplina, introdotta dal legislatore del 2014, dei “contratti di godimento in funzione della successiva alienazione di immobili” (cd. rent to buy) sotto il profilo della effettività della tutela giurisdizionale e con particolare riferimento ad una delle maggiori criticità della stessa – cui sono legate le sorti stesse del nuovo istituto – che attiene alla restituzione dell’immobile in ipotesi di inadempimento del conduttore. 

In tale prospettiva, una volta esclusa la possibilità di ricorrere alla tutela sommaria (e segnatamente al procedimento di convalida di sfratto), l’autore si sofferma diffusamente sulla disciplina del titolo esecutivo e, più in particolare, sui requisiti che il diritto ivi consacrato deve possedere (certezza, liquidità ed esigibilità). 

All’esito di questa indagine, l’autore conclude nel senso di ritenere che, in ipotesi di inadempimento del conduttore, se il contratto di rent to buy ha la forma dell’atto pubblico e contiene una clausola risolutiva espressa, nel nostro sistema processuale esiste la possibilità per il proprietario/concedente dell’immobile di agire legittimamente in sede esecutiva per ottenere il rilascio dell’immobile sulla base di un titolo esecutivo stragiudiziale (se del caso, movendosi in una prospettiva di estremo rigore, ricorrendo anche ad un successivo atto pubblico, complementare rispetto al primo, contenente la dichiarazione del proprietario/concedente dell’immobile di volersi avvalere della clausola risolutiva espressa – cd. titolo esecutivo complesso) e, dunque, senza passare per un preventivo accertamento giurisdizionale (sia esso a cognizione piena o sommaria) del suo diritto. 

In senso analogo, l’autore dello studio conclude anche con riferimento all’atto pubblico di rent to buy quale titolo esecutivo per il rilascio dell’immobile alla scadenza del contratto.

La versione completa dello studio del Notariato può essere consultata cliccando qui.

L’ASPORTO DI BENI MOBILI NELL’ESECUZIONE PER RILASCIO

[di Corrado Sforza Fogliani pres Centro studi Confedilizia]

Il d.l. n. 132/14 (così come convertito in legge), meglio noto come “Decreto giustizia”, nell’introdurre una serie di misure volte a semplificare e ad accelerare il processo di esecuzione forzata, ha anche – all’art. 19, comma 1, lett. i – riscritto l’art. 609 cod. proc. civ. in materia di provvedimenti relativi a mobili estranei all’esecuzione.
Per effetto della nuova formulazione ora è previsto, in particolare, che, quando nell’immobile oggetto di esecuzione si trovino beni mobili, l’ufficiale giudiziario intimi alla parte tenuta al rilascio (ovvero a colui al quale gli stessi risultino appartenere) di asportarli, entro un termine perentorio all’uopo assegnato e che, laddove tale termine trascorra infruttuosamente, lo stesso ufficiale giudiziario, su richiesta e a spese della parte istante, determini “il presumibile valore di realizzo dei beni” ed indichi “le prevedibili spese di custodia e di asporto”.
Nel caso in cui il valore dei beni in questione appaia superiore ai costi di custodia e di asporto, l’ufficiale giudiziario, sempre a spese della parte istante, dovrà nominare un custode incaricandolo di trasportare gli oggetti lasciati dall’esecutato in altro luogo. In difetto di istanza e di pagamento anticipato delle spese, i beni verranno considerati abbandonati e, salva diversa richiesta della parte istante, ne dovrà essere disposto “lo smaltimento o la distruzione”. Tutto questo a condizione, tuttavia, che non appaia evidente “l’utilità” di procedere ad un tentativo di vendita senza incanto, secondo le modalità stabilite dal giudice dell’esecuzione. Ove così fosse si dovrà, infatti, procedere ad esperire tale tentativo e, nel caso la vendita andasse a buon fine, la somma ricavata dovrà essere impiegata per il pagamento delle spese inerenti la custodia, l’asporto e la vendita.
L’art. 609 cod. proc. civ., così come riformulato, si applica ai procedimenti iniziati a far data dall’11.12.2014.