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LA DISCIPLINA FISCALE E LE DIVERSE TIPOLOGIE DEI CONTRATTI DI LOCAZIONE

[A cura di: Andrea Cartosio – Ist. naz. Tributaristi]


Questa quarta ed ultima guida fiscale di Quotidianodelcondominio.it è mirata a presentare il panorama dei contratti di locazione, al fine di istruire il futuro locatore e guidarlo nella scelta contrattuale.

Il contratto di locazione è la scrittura nella quale il proprietario dell’immobile (di seguito denominato locatore) si impegna a concedere in godimento lo stesso ad un altro soggetto che intende usufruire dell’unità abitativa (di seguito denominato conduttore), il quale dovrà attenersi ad obblighi stabiliti dal contratto di affitto e, qualora l’immobile faccia parte di un complesso condominiale, conformarsi alle regole imposte dal regolamento di condominio. Il Codice Civile regola la locazione degli immobili ma concede forma libera nella sua stipula, cioè non richiede una forma contrattuale specifica e tipica.


I contratti di locazione

Come detto in precedenza, il contratto di locazione è la scrittura che sancisce l’accordo tra le parti, pertanto ogni contratto d’affitto può essere differente in considerazione della durata o della somma spettante a titolo di locazione corrisposta dal conduttore. I contratti di seguito elencati, maggiormente utilizzati in materia locativa, verranno analizzati nelle parti fondamentali che li caratterizzano:

* canone libero, ossia il 4+4 nell’abitativo, 6+6 nel commerciale e 9+9 nell’alberghiero;

* canone concordato, con durata di 3+2 anni;

* locazione ad uso transitorio concessa per un periodo breve da 1 a 18 mesi;

* contratti di tipo promiscuo.

Premesso ciò, benché i contratti appena elencati differiscano tra loro nella durata e applicabilità, in tutti devono necessariamente essere iscritti determinati dati:

* indicazioni anagrafiche dei locatore/i o conduttore/i allegando al suddetto, in fase di registrazione, copia cartacea dei documenti inseriti;

* identificativi catastali dell’unità abitativa oggetto del contratto;

* l’importo del canone richiesto dal locatore, sul quale verranno versate le imposte, sia in cifre che in lettere: inoltre, qualora venga inserito in contratto il rimborso delle spese di amministrazione, le due somme percepite dal locatore dovranno essere specificate onde evitare finiscano in conto canoni e dunque soggette ad imposta;

* l’ammontare del deposito cauzionale che verrà versato dal conduttore al momento della stipula del contratto a fronte di eventuali danni che potrà subire il locatore nel periodo di locazione, da restituirsi qualora non sorgano problematiche al momento della rescissione della locazione maggiorata degli interessi legali. Ancora, dovranno essere stabiliti i termini di rescissione anticipata da parte del conduttore ed i termini di legge perché possa fare lo stesso il locatore;

* iscrizione in contratto dell’Ape (attestato di prestazione energetica), deve essere obbligatoriamente redatto da un professionista abilitato prima della stipula dell’accordo tra le parti. Qualora tale documentazione non fosse presente al momento della firma dello stesso, il locatore e il conduttore sono soggetti entrambe ad una sanzione amministrativa, fermo restando l’obbligo di ottemperare alla stesura dell’Ape entro 45 giorni.


Il canone libero

Questa tipologia di contratto è quella maggiormente utilizzata. La durata varia a seconda dell’immobile locato: qualora fosse a destinazione abitativa, la locazione sarà concessa per quattro anni rinnovabili per gli stessi successivi.

Il contratto di locazione deve avere forma scritta a pena di nullità, contenere tutte le clausole sopra riportate e dovrà essere registrato presso l’Agenzia delle Entrate entro 30 giorni dalla stipula. Tale tipologia di contratto non può essere applicata nei suddetti casi:

* immobili accatastati come A/1, A/8, A/9, per i quali farà fede la disciplina prevista per legge dal codice civile;

* gli alloggi di edilizia popolare pubblica;

* unità non abitative quali garage, cantine, magazzini ecc.;

Nella fattispecie contrattuale, la prima scadenza viene indicata al termine dei primi quattro anni; ciò non manleva le parti, qualora il contratto non fosse in regime di cedolare secca, ad adempiere al pagamento delle imposte annuali (a patto che non venga scelto al momento della stipula di corrisponderle per l’intera durata) presentando il modello RLI con la specifica dell’annualità successiva. Successivamente, al termine dei primi quattro anni, il contratto si rinnova automaticamente per i successivi quattro; in tal caso il locatore dovrà presentare una proroga all’Agenzia delle Entrate attraverso il modello RLI entro il trentesimo giorno dalla scadenza.

Viene concesso dalla legislazione il diritto a recedere dal contratto di locazione sia al locatore, che dovrà rispettare i termini stabiliti dalla giurisprudenza, che al conduttore il quale potrà svincolarsi dal vincolo contrattuale con le metodologie presenti nel suddetto accordo.


Il canone concordato

I contratti di locazione a canone concordato vengono applicati nei Comuni annoverati tra quelli ad alta densità abitativa. La particolarità di questa forma, oltre che nella durata, (3 anni + 2), è nella pattuizione del canone di affitto, poiché esso dovrà rientrare negli accordi territoriali locali stipulati tra il Comune e le associazioni di categoria. Questa tipologia di contratto gode di sconti impositivi per il locatore a fronte del “mancato realizzo” inteso come affitto percepito dovendo sottostare a cifre imposte.


L’uso transitorio

La presente tipologia viene utilizzata quando l’elemento cardine del presente accordo tra le parti è la brevità della locazione. Difatti viene concessa una durata da 1 mese a massimo 18 mesi non rinnovabile; tale transitorietà dell’accordo tra le parti dovrà essere specificata all’interno del contratto. Qualora l’esigenza di locare l’immobile eccedesse i 18 mesi, si dovrà riformulare un nuovo contratto o a canone libero o concordato. Viene espressamente negata dalla legge la possibilità di rinnovo oltre i 18 mesi, pertanto non vi è la necessita delle parti di dare disdetta al termine della locazione poiché il contratto decade automaticamente.


Studenti universitari

Il suddetto contratto viene annoverato tra le particolarità dei contratti di locazione ad uso transitorio, poiché l’immobile locato viene concesso in uso a studenti universitari fuori sede, per un periodo limitato di tempo identificato tra i tre e i trentasei mesi.


L’uso promiscuo

Il contratto di affitto può avere natura promiscua quando l’unità immobiliare locata abbia destinazione diversa in parte dall’abitativo, venga concessa anche per uso ufficio, laboratorio. Tale forma ne detterà anche la durata, poiché l’attività prevalente farà ricadere il contratto in una formula in prevalenza abitativa o commerciale.


La cedolare secca

La cedolare secca è un regime di tassazione opzionale che consente al locatore di applicare al reddito percepito da locazione un’imposta sostitutiva alternativa alla tassazione ordinaria IRPEF, concedendo un ulteriore annullamento dell’imposta di registro e dell’imposta di bollo. Pertanto il reddito percepito da locazione non verrà inglobato nel reddito complessivo del locatore. Tengo a precisare che su tale somma non possono essere applicati oneri deducibili o detrazioni ma il reddito percepito farà comunque cumulo per quanto riguarda benefici fiscali, deduzioni o detrazioni in riferimento ai requisiti reddituali come la detrazione per figli a carico o nella formazione dell’ISEE. La cedolare può essere applicata a contratti già in essere oppure di nuova stesura; una volta aderito all’opzione, essa verrà assimilata alla durata contrattuale con possibilità di rescissione, da comunicarsi all’inquilino a mezzo raccomandata A/R, alla scadenza di ogni singolo anno di contratto.

L’aliquota della cedolare secca è:

*  21%, nel caso di contratto libero;

*  10%, nel caso di contratto concordato.

L’applicazione di tale regime consiste in uno sgravio di imposte per il locatore, ma allo stesso tempo anche il conduttore beneficia di tale scelta poiché il proprietario dell’unità abitativa non potrà aggiornare il canone finché tale opzione risulta in essere ed effettuare gli adeguamenti ISTAT; esso dovrà essere informato di tale adesione al suddetto regime fiscale da parte del locatore a mezzo raccomandata o con iscrizione di apposita clausola nel contratto di locazione, pena la validità dell’opzione cedolare secca.

Tutti i locatori privati possono applicare tale regime. Sono escluse dalla possibilità di opzione: le società di persone (incluse le società semplici), le società di capitali, gli enti commerciali, gli enti non commerciali. L’opzione cedolare secca dovrà essere comunicata in fase di registrazione del contratto all’Agenzia delle Entrate attraverso il modello RLI


L’uso commerciale

Per concludere, ritengo opportuno analizzare la forma di contratto d’affitto di natura commerciale, poiché presenta caratteristiche differenti dalle tipologie fino ad ora analizzate. 

Tale tipologia di locazione fa riferimento alla Legge n. 392 del 1978 a correlazione degli articoli dedicati nel Codice Civile art. 1572 e 2643. La locazione di natura commerciale ha durata minima di sei anni rinnovabile per i successivi sei, mentre presenta una durata di nove anni qualora abbia come oggetto una struttura teatrale o alberghiera. Analogamente ai contratti ad uso abitativo, al termine della prima scadenza, qualora il locatore e il conduttore non comunichino espresso diniego nel proseguire la locazione, si intende rinnovata automaticamente per i successivi anni previsti dalla legislazione. Al contratto potrà essere applicato un aggiornamento ISTAT massimo nella misura del 75%, mentre risulta inapplicabile l’opzione cedolare secca. 

Talvolta può accadere che il conduttore decida di recedere dal contratto d’affitto; ciò è possibile in caso di gravi motivi. La giurisprudenza risulta lacunosa nella loro determinazione, pertanto una sentenza della Corte di Cassazione nel 2012 ha cercato di chiarire la dicitura appena riportata, indicando quali gravi motivazioni la riduzione del fatturato che non permette di adempiere all’obbligazione, oppure il caso in cui il locale non risulti più idoneo per lo svolgimento dell’attività. Il locatore anch’esso analogamente al conduttore, potrà recedere dal contratto di affitto alla prima scadenza (6 anni attività commerciale, 9 anni attività teatrale/alberghiera) nel caso che abbia necessità per sé o per la propria famiglia dell’immobile oggetto di locazione, oppure qualora debba adibirlo come locale a servizio della propria attività.

La comunicazione necessaria per la risoluzione del contratto dovrà essere inviata al conduttore con raccomandata A/R con 12 mesi di preavviso nel commerciale 18 mesi in caso di locazione alberghiera/teatrale.

DISCIPLINA FISCALE DEI CONTRATTI DI RENT TO BUY: LE PRECISAZIONI DEI NOTAI

[Fonte: Consiglio Nazionale del Notariato]


Lo scorso 19 febbraio, con la circolare numero 4 l’Agenzia delle Entrate aveva finalmente fornito i primi chiarimenti ufficiali sul trattamento fiscale da applicare – agli effetti delle imposte dirette e indirette – al rent to buy, cioè ai contratti di godimento in funzione della successiva alienazione di immobili di cui all’art. 23 del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133, convertito con la legge 11 novembre 2014, n. 164.

Ora, sulla questione è intervenuto nuovamente anche il Consiglio Nazionale del Notariato, secondo il quale “la scelta di fondo operata dall’Agenzia delle entrate è stata quella di diversificare il trattamento fiscale da applicare al canone corrisposto dal conduttore in considerazione della funzione (godimento dell’immobile e acconto prezzo) per la quale dette somme sono corrisposte, cioè da un lato assimilando, ai fini fiscali, l’immediata concessione del godimento dell’immobile a fronte del pagamento dei canoni alla locazione, per cui alla quota di canone “imputata” al godimento dell’immobile trovano applicazione le disposizioni previste, sia ai fini delle imposte dirette che delle imposte indirette, per i contratti di locazione; da un altro lato, assimilando ai fini fiscali e fin da subito la quota di canone destinata ad essere imputata al corrispettivo del trasferimento – la quale ad avviso dell’Agenzia ha natura di anticipazione del suddetto corrispettivo – agli acconti sul prezzo della successiva vendita dell’immobile”.

Come precisa quindi il Notariato, in caso di esercizio del diritto di acquisto dell’immobile trova applicazione la normativa prevista, sia ai fini delle imposte dirette che delle imposte indirette, per i trasferimenti immobiliari. Pertanto i chiarimenti contenuti nella circolare si riferiscono in particolare al trattamento fiscale applicabile:

* alla quota di canone corrisposta per il godimento dell’immobile;

* alla quota di canone corrisposta a titolo di anticipazione del corrispettivo;

* al successivo trasferimento dell’immobile;

* alle somme restituite in caso di mancata conclusione del contratto di compravendita.

CONDOMINIO E INFILTRAZIONI DALLA TERRAZZA A LIVELLO: EXCURSUS GIURIDICO SULLE RESPONSABILITÀ

[A cura di: avv. Rodolfo Cusano – presidente onorario A.C.A.P.] 


PREMESSA

A prima vista sembra essere in presenza di un accadimento di facile interpretazione. Così non è.

Spesso in condominio il proprietario dell’immobile sottostante lamenta infiltrazioni provenienti dalla soprastante  terrazza a livello che – come è noto – viene equiparata al lastrico solare qualora assuma anche funzione di copertura (Cass. civ., Sez. II, 27/07/2004, n. 15702; Cass. civ., Sez. II, 15/07/2003, n. 11029).  Di tale fattispecie si è occupata di recente la Corte di Cassazione con la sentenza n. 1674 del 29 gennaio 2015.  La lettura della stessa ha dato l’occasione per diverse considerazioni, esaminiamole una ad una:



1. In giudizio va citato il condominio

In primo luogo vi è da dire che il proprietario dell’appartamento sottostante, danneggiato dalle infiltrazioni, che intenda ottenere il risarcimento dei danni, ovvero l’ordine di esecuzione dei lavori necessari per eliminarne le cause, deve in ogni caso proporre la sua domanda nei confronti del condominio in persona dell’amministratore (Cass. civ., sez. II, sent. 15/07/2002, n. 10233). 

Inoltre, poiché il lastrico solare (equiparato alla terrazza a livello) svolge la funzione di copertura del fabbricato, anche se appartiene in proprietà superficiaria o è attribuito in uso esclusivo ad uno dei condòmini, a provvedere alla sua riparazione o alla sua ricostruzione sono tenuti tutti i condòmini, in concorso con il proprietario superficiario o con il titolare del diritto di uso esclusivo; ed alle relative spese, nonché al risarcimento del danno, essi concorrono secondo le proporzioni stabilite dall’art. 1126 c.c. 

La relativa azione, pertanto, va proposta nei confronti del condominio, in persona dell’amministratore – quale rappresentante di tutti i condòmini obbligati – e non già del proprietario o titolare dell’uso esclusivo del lastrico, il quale può essere chiamato in giudizio a titolo personale soltanto ove frapponga impedimenti all’esecuzione dei lavori di manutenzione o ripristino ed al solo fine di sentirsi inibire comportamenti ostruzionistici od ordinare comportamenti di indispensabile cooperazione, non anche al fine di sentirsi dichiarare tenuto all’esecuzione diretta dei lavori medesimi (Cassazione civile, sez. II, sent. 22/03/2012, n. 4596). 


2. Il condomino danneggiato è terzo e condomino contemporaneamente

Il singolo proprietario che subisce un danno da un bene condominiale ex art. 1117 c.c.  si trova ad assumere la duplice veste di danneggiato dal bene condominiale e di soggetto che deve custodire e riparare lo stesso bene condominiale. In tale duplice veste egli ha da un lato l’obbligo di  partecipare sia alle spese di riparazione che a quelle di risarcimento del danno, e dall’altro di ottenere l’integrale risarcimento dei danni subiti dal proprio cespite immobiliare. È quanto ha stabilito la Corte di Cassazione a Sezioni Unite con la sentenza n. 24406 del 21/11/2011.


3.  Nel caso di infiltrazioni il condominio ne risponde ex art. 2051 c.c.

Ciò posto, va aggiunto che la norma da applicare nel caso di specie è l’art. 2051 c.c. Infatti, ai fini dell’attribuzione della responsabilità prevista dall’art. 2051 cod. civ., sono necessarie e sufficienti una relazione tra la cosa in custodia e l’evento dannoso nonché l’esistenza dell’effettivo potere fisico su di essa da parte del custode, sul quale incombe l’obbligo di vigilarla e di mantenere il controllo onde evitare che produca danni a terzi. Ne consegue che il custode convenuto è onerato di offrire la prova contraria alla presunzione iuris tantum della sua responsabilità mediante la dimostrazione positiva del caso fortuito, cioè del fatto estraneo alla sua sfera di custodia, avente impulso causale autonomo e carattere di imprevedibilità e di assoluta eccezionalità. 

Nell’eventualità della persistenza dell’incertezza sull’individuazione della concreta causa del danno, rimane a carico del custode il fatto ignoto, in quanto non idoneo ad eliminare il dubbio in ordine allo svolgimento eziologico dell’accadimento (Cass. civ., Sez. III, sent. 10/03/2009, n. 5741). La richiamata responsabilità, quindi, si fonda non su un comportamento o un’attività del custode, bensì sulla relazione intercorrente tra questi e la res in custodia, cui corrisponde un effettivo potere fisico al quale si connette il dovere di custodire la cosa stessa, inteso nel senso di vigilanza e mantenimento del controllo sulla stessa al fine di evitare che produca danni a terzi (Trib. Roma Sez. XIII Sent., 21/07/2009); ne consegue che per applicazione della disciplina stabilita dalla norma occorre che la cosa dalla quale è derivato il danno, sia, nel momento in cui l’evento si è verificato, nella custodia del soggetto chiamato a risponderne. La responsabilità ex art. 2051 c.c. è, infatti, basata sulla presunzione di colpa nei confronti di colui che ha il dovere di custodia sulla cosa, sia esso proprietario, usufruttuario, enfiteuta, conduttore, etc. e può riguardare anche i danni che dipendono dall’insorgere nella cosa in custodia di un agente dannoso (Trib. Cassino, 07/10/2008; cfr. anche Cass. n. 16231/2005; Trib. Monza Sez. IV, 07/04/2008). 


4. Nel caso di infiltrazioni vi è responsabilità solidale di tutti i condòmini

La premessa dell’argomentazione è da porsi nel dettato della ormai famosa sentenza n. 9148/08  con cui la Suprema Corte a Sezioni Unite ha affermato che in rapporto a obbligazioni assunte dall’amministratore in rappresentanza del condominio nei confronti di terzi, in difetto di un’espressa previsione normativa che stabilisca il principio della solidarietà, la responsabilità dei condòmini nel caso di obbligazioni pecuniarie è retta dal criterio della parziarietà. Per cui le obbligazioni assunte nell’interesse del condominio si imputano ai singoli componenti soltanto in proporzione delle rispettive quote, secondo criteri simili a quelli dettati dagli artt. 752 e 1295 c.c..   Tale pronuncia delle SS.UU., emessa con riguardo ad un’obbligazione contrattuale che un condominio tramite il suo amministratore aveva assunto verso un terzo, ricollega dunque la solidarietà nelle obbligazioni divisibili ad una previsione legislativa che imponga l’esecuzione congiunta della prestazione.

Nel caso in esame va osservato che in materia di responsabilità per fatto illecito, l’espressa previsione della solidarietà passiva è contenuta nell’art. 2055,  primo comma c.c., in base al quale se il fatto dannoso è imputabile a più persone, tutte sono obbligate in solido al risarcimento del danno. A ciò va aggiunto che la stessa struttura della responsabilità per danni prevista dall’art. 2051 c.c. presuppone l’identificazione di uno o più soggetti cui sia imputabile la custodia. Il custode non può essere identificato né nel condominio, interfaccia idoneo a rendere il danneggiato terzo rispetto agli altri condòmini, ma pur sempre ente di sola gestione di beni comuni, né nel suo amministratore, essendo questi un mandatario dei condòmini. Solo questi ultimi, invece, possono considerarsi investiti del governo della cosa, in base ad una disponibilità di fatto e ad un potere di diritto che deriva loro dalla proprietà piena sui beni comuni ex art. 1117 c.c. (sui requisiti in generale della custodia ai fini dell’applicazione dell’art. 2051 c.c., cfr. Cass. S.U. n. 12019/91).

Ciò posto, l’applicabilità dell’art. 2055 c.c. (che opera un rafforzamento del credito evitando al creditore di dover agire coattivamente contro tutti i debitori pro quota) ai danni da cosa condominiale in custodia trova una prima conferma, innanzi tutto, in altre  precedenti pronunce della Suprema  Corte, come Cass. n. 6665/09, che ha ritenuto il condomino danneggiato quale terzo rispetto allo stesso condominio cui è ascrivibile il danno stesso (con conseguente inapplicabilità dell’art. 1227, primo comma c.c.); Cass. n. 4797/01, per l’ipotesi di danni da omessa manutenzione del terrazzo di copertura cagionati al condomino proprietario dell’unità immobiliare sottostante; Cass. n. 6405/90, secondo cui i singoli proprietari delle varie unità immobiliari comprese in un edificio condominiale sono, a norma dell’art. 1117 c.c. (salvo che risulti diversamente dal titolo), comproprietari delle parti comuni, tra le quali il lastrico solare, assumendone la custodia con il correlativo obbligo di manutenzione, con la conseguenza, nel caso di danni a terzi per difetto di manutenzione del detto lastrico, della responsabilità solidale di tutti i condòmini, a norma degli artt. 2051 e 2055 c.c.. 

Per cui si può concludere con il ritenere che il risarcimento del danno da cosa in custodia di proprietà condominiale non si sottrae alla regola della responsabilità solidale ex art. 2055, 1 comma c.c., individuati nei singoli condòmini i soggetti solidalmente responsabili.


5. Esclusione della responsabilità nel caso in cui il condominio sia il mero utilizzatore della cosa per espressa disposizione in tale senso prevista nel regolamento di condominio contrattuale o altra disposizione negoziale


I problemi che spesso si affacciano sono quelli che si verificano quando il condominio è mero utilizzatore del bene per essersi il  costruttore riservato la proprietà del lastrico solare, del cortile ovvero di quel bene cioè da cui le infiltrazioni provengono.

La  Corte di Cassazione, con una mirabile sentenza, ha chiarito i limiti della responsabilità per danni da omessa custodia nel caso in cui il condominio sia solo  un mero detentore per cui lo stesso obbligo di custodia sia rimasto in capo al proprietario e lo ha fatto con la sentenza n. 15096 del 17/06/2013.

La massima può così essere riassunta: “In tema di danni da cose in custodia, ai fini della configurabilità della responsabilità ex art. 2051 cod. civ. è sufficiente la sussistenza del rapporto di custodia con la cosa che ha dato luogo all’evento lesivo, rapporto che postula l’effettivo potere sulla cosa, e cioè la disponibilità giuridica e materiale della stessa, che comporti il potere/dovere di intervento su di essa, e che compete al proprietario o anche al possessore o detentore. La disponibilità che della cosa ha l’utilizzatore non comporta, invece, necessariamente il trasferimento in capo a questi della custodia, da escludere in tutti i casi in cui, per specifico accordo delle parti, o per la natura del rapporto, ovvero per la situazione fattuale determinatasi, chi ha l’effettivo potere di ingerenza, gestione ed intervento sulla cosa, nel conferire all’utilizzatore il potere di utilizzazione della stessa, ne abbia conservato la custodia. (Nella specie, la S.C. ha annullato la decisione della corte territoriale che aveva affermato la responsabilità per i danni subiti dal terzo proprietario di un immobile sottostante un giardino, in capo al condominio che ne godeva in forza di un titolo negoziale, quest’ultimo ponendo a carico del condomino la sola manutenzione ordinaria dello spazio verde e lasciando la manutenzione straordinaria al proprietario costruttore).”

In pratica, il condominio contestava  sia di essere tenuto alla custodia del giardino ex art. 2051 c.c., sia che l’obbligo di manutenzione posto a suo carico dagli accordi negoziali con il soggetto proprietario comprendesse incondizionatamente “le riparazioni straordinarie”.

Sostiene pertanto che, stante il proprio obbligo limitato a mantenere la destinazione del bene oggetto di godimento, era la società proprietaria a dover vigilare sulla struttura della cosa e a dover impermeabilizzare i locali sottostanti, ponendo una guaina di protezione.

Rilevava inoltre, che tali protezioni non erano state previste a causa della diversa destinazione originaria dei locali interrati, abusivamente trasformati in appartamenti.

Chiedeva  pertanto che venisse affermato che era tenuto alle sole opere di ordinaria manutenzione e non anche alle riparazioni straordinarie, peraltro relative non al godimento del giardino ma delle parti sottostanti: piano di calpestio, guaina e solaio dei locali interrati.

In realtà, la sentenza impugnata in Cassazione si era limitata a fare applicazione dei principi giurisprudenziali già espressi dalla Suprema Corte, tra le altre, con le sentenze: Cass. 1477/99 e soprattutto Cass. 2861/95 secondo le quali nel caso in cui il cortile di un condominio funga da copertura di un locale interrato di un terzo, se la cattiva manutenzione del cortile provoca infiltrazioni d’acqua nel sottostante locale, l’obbligazione risarcitoria del condominio trova la sua fonte nel disposto dell’art. 2051 cod. civ.,  e non aveva considerato che i presupposti di fatto erano nella specie del tutto diversi.

Infatti,  diverso è il regime applicabile qualora il condominio si trovi nel godimento di un bene in forza di un titolo negoziale, fosse anche il regolamento di condominio. In tal caso occorre attribuire conseguentemente le responsabilità di eventuali danni subiti dal terzo proprietario dell’immobile sottostante. 

Ferma la responsabilità del proprietario dell’area soprastante, è necessario configurare la responsabilità di chi ha in uso il bene nei limiti degli obblighi che questi ha acquisito nei confronti del concedente. Per cui nel caso in esame la Corte accoglieva il ricorso perché il costruttore si era riservata la proprietà del giardino ed aveva lasciato al condominio solo “l’obbligo di mantenere a proprie spese tale destinazione”.

Al condominio era quindi espressamente sottratto il potere dovere di custodire la consistenza immobiliare, dovendo soltanto curare il mantenimento della destinazione a giardino. Quindi, il principio in base al quale  è sufficiente la sussistenza del rapporto di custodia con la cosa che ha dato luogo all’evento lesivo, ai fini della configurabilità della responsabilità ex art. 2051 cod. civ. presuppone l’effettivo potere sulla cosa che l’utilizzatore potrebbe non avere.  

Infatti, la disponibilità che della cosa ha l’utilizzatore non comporta necessariamente il trasferimento in capo a questo della custodia, che va quindi esclusa in tutti i casi in cui, per specifico accordo delle parti, o per la natura del rapporto, ovvero per la situazione fattuale determinatasi, chi ha l’effettivo potere di ingerenza, gestione ed intervento sulla cosa, nel conferire all’utilizzatore il potere di utilizzazione della stessa, ne abbia conservato la custodia. (Cass. 1948/03).

CRONACA FLASH

Presi ladri d’alloggio,

bottino di 100mila euro

Arrestati dalla polizia per aver messo a segno circa una trentina di furti in case della provincia di Perugia. È finita così (almeno per il momento) la carriera di due topi d’appartamento: due albanesi di 32 e 33 anni. I malviventi entravano in azione nel tardo pomeriggio, forzando le finestre e barricandosi dentro casa per impedire ai proprietari di rientrare mentre era in atto il furto. Una tecnica che ha portato buoni frutti: la refurtiva recuperata complessivamente ammonta a circa 100 mila euro, tra consolle di videogiochi, orologi, monili, profumi, borse, motoseghe e perfino un prosciutto. 


Fuoco distrugge casa 

Un’anziana intossicata

Dal terzo piano di una palazzina in provincia di Venezia è divampato un incendio che ha fatto scattare l’allarme tra i residenti per il fumo nero, che si è sviluppato invadendo il vano delle scale. I vigili del fuoco del capoluogo lagunare sono intervenuti immediatamente con 4 automezzi – tra cui un’autoscala – e ben 14 operatori. Nessun ferito grave. Ma una donna anziana soccorsa dai pompieri è stata presa in cura dal personale del 118 per una probabile intossicazione da fumo. 


Lava vetri in alloggio 

Cade nel vuoto e muore

Si dice che gli incidenti domestici siano una delle prime cause di morte. Statistiche alla mano è vero. E purtroppo non fa eccezione il caso di una donna di 54 anni, che ha perso la vita dopo essere precipitata dal quarto piano di un condominio mentre puliva le finestre di casa. Sul posto sono intervenuti i medici del 118 e le volanti della polizia. Inutili però i tentativi di rianimarla. Secondo una prima ricostruzione, pare che la donna si trovasse da sola nell’alloggio e che stesse preparando da mangiare in attesa del rientro a casa dei figli. Probabilmente, allo stesso tempo la vittima stava anche pulendo i vetri quando ha perso l’equilibrio. 


Ladri di gioielli e peluche,

arrestati dalla polizia

Tra gli oggetti rubati, anche dei monili d’oro e dei pupazzetti di peluche. Così, tre uomini originari dell’est Europa, sospettati di essere gli autori di una serie di furti avvenuti nel nord d’Italia, sono stati fermati dalla polizia. I malviventi sono in particolare accusati di aver compiuto quattro furti nella zona tra la provincia di Treviso ed il Friuli. Al momento, si sospetta che possano avere qualcosa a che fare anche con una rapina in un’abitazione, nel corso della quale era rimasto ferito un agente fuori servizio.


Ricoverato per caduta

da finestra dopo lite 

A Padova, si è sfiorata la tragedia: un uomo di 28 anni è caduto da una finestra a tre metri d’altezza. Non è in pericolo di vita, ma è stato trasportato al pronto soccorso. Le indagini degli inquirenti sono ancora in corso, ma pare che la caduta sia stata provocata da una lite. I militari dell’Arma hanno infatti portato in caserma un ragazzo di 20 anni, compagno della vittima, con cui stava discutendo della fine della loro relazione. 


DOVE SONO CONSERVATI GLI ATTI DI ROGITO? COME (E QUANTO COSTA) CONSULTARLI?

[A cura di: Confedilizia]


Gli atti che il notaio riceve vengono conservati nel suo studio fino a quando questi svolge la propria attività nel distretto notarile al quale è assegnato. Il distretto notarile è l’ambito territoriale entro il quale il notaio può esercitare le proprie funzioni: attualmente, i distretti sono 94 ed ognuno di essi comprende un determinato numero di sedi alle quali vengono assegnati i notai. Se il notaio è ancora in esercizio nello stesso distretto, pertanto, l’atto si trova ancora conservato presso il suo studio, e sarà quindi al medesimo notaio rogante che occorrerà indirizzare la richiesta di lettura dell’atto o di rilascio di una copia dello stesso. 

Si precisa che la richiesta in questione può essere effettuata da chiunque (quindi anche da terzi estranei all’atto) purché si diano indicazioni specifiche per la ricerca (es.: il nominativo di almeno una della parti) e trova il suo fondamento nell’art. 743 c.p.c. e nell’art. 67 della legge notarile (l. n. 89 del 1913). La prima di queste due norme prevede che “qualunque depositario pubblico, autorizzato a spedire copia degli atti che detiene, deve rilasciarne copia autentica, ancorché l’istante o i suoi autori non siano stati parte nell’atto, sotto pena dei danni e delle spese”. La seconda stabilisce, invece, che “il notaro, finché risiede nel distretto dello stesso Consiglio notarile, e continua nell’esercizio del notariato, ha egli solo il diritto di permettere l’ispezione e la lettura, di rilasciare le copie, gli estratti e i certificati degli atti da lui ricevuti, o presso di lui depositati” (il chiarimento è stato fornito dal Notariato che, in relazione a quest’ultima norma, ha anche precisato che l’espressione “diritto di permettere l’ispezione e la lettura” non è da intendersi come una semplice facoltà in tal senso da parte del notaio, ma come un vero e proprio obbligo. Lo stesso ha però anche tenuto a precisare che ove la richiesta che ci occupa non sia accompagnata da indicazioni specifiche – ad esempio, come detto, il nominativo di almeno una delle parti – ma sia generica, cioè, sia indirizzata, in ipotesi, a leggere tutti i rogiti stipulati nell’ultimo anno o a ricevere copia degli stessi con riguardo a tale periodo, allora detta richiesta il notaio non ha l’obbligo di accoglierla).

Quanto ai costi per il rilascio di una copia (autentica), questi variano a seconda del valore dichiarato in atto e della lunghezza dello stesso. In media, per un atto di lunghezza standard e del valore di 250mila euro, si paga attorno ai 30/40 euro. Per la semplice visione di un atto di compravendita la somma dovuta – secondo il tariffario di cui al d.m. 27.11.2001 – è, invece, di 7 euro (4 euro per la ricerca e 3 euro per la lettura). 

Venendo al caso, invece, del notaio che cessi definitivamente dall’esercizio, ovvero si trasferisca in una sede di altro distretto notarile, si osserva che gli atti, i repertori ed i registri conservati nello studio del notaio in questione debbono essere depositati nell’archivio notarile del distretto ove lo stesso esercitava. In tale ipotesi, quindi, gli interessati a visionare un atto di compravendita o a richiedere copia dello stesso devono rivolgersi a detto archivio. Si precisa che l’amministrazione degli archivi notarili costituisce un’unità organica incardinata nel Ministero della giustizia, con ordinamento e gestione finanziaria separati. 

Negli archivi notarili sono conservate anche le copie degli atti pubblici e delle scritture private autenticate e gli atti privati originali, trasmessi dagli uffici del registro decorsi dieci anni dalla registrazione. Per conoscere presso quale archivio notarile è stato depositato l’atto di interesse si può consultare ARCHINOTA. La copia di un atto depositato presso un archivio notarile può essere richiesta, oltreché recandosi presso la sede dell’archivio, anche per posta ordinaria, a mezzo fax e in via telematica. La richiesta tanto di visione di un rogito quanto di rilascio di una copia dello stesso può essere effettuata da chiunque (parti coinvolte nell’atto così come terzi estranei). I costi per il rilascio di una copia sono gli stessi di quelli che si hanno, di norma, rivolgendosi ad un notaio. Per la semplice lettura di un atto di compravendita, custodito presso l’archivio, il costo è, invece, di 10 euro.

APPALTO CONDOMINIALE: RUOLO DEL DIRETTORE DEI LAVORI E RESPONSABILITÀ DELL’AMMINISTRATORE

[A cura di: avv. Ermenegildo Mario Appiano – segretario Alac Torino]


Quando un condominio deve appaltare l’esecuzione di un lavoro di notevole entità è decisamente opportuno affidarsi ad un direttore dei lavori che rediga prima un capitolato, sulla cui base uniforme le ditte interessate presenteranno le loro offerte (così rendendo facile la loro comparazione) e poi segua l’esecuzione dei lavori svolti dall’impresa incaricata. Per evitare ovvi conflitti di interesse, è parimenti vitale che il direttore dei lavori sia un soggetto terzo rispetto all’impresa che si aggiudica l’appalto. 

Purtroppo la cecità è regina in molte assemblee condominiali. Evitare la spesa per un  direttore dei lavori indipendente è scelta decisamente infelice: il risparmio viene quasi sempre eroso dai maggiori costi dei lavori appaltati (si sceglie un preventivo redatto su una base non armonizzata, per cui poi insorgono le “sorprese”) ovvero dalle conseguenze negative discendenti dal fatto di non far eseguire il lavoro più appropriato ovvero da quelle derivanti da un’esecuzione d’opera non adeguatamente sorvegliata.

Tuttavia, se la presenza del direttore dei lavori indipendente è solitamente una saggia decisione, ciò non vale sempre ad evitare ogni problema. Può infatti accadere che, pur in sua presenza, i lavori non vengano eseguiti a regola d’arte dall’appaltatore e, conseguentemente, insorga un danno a carico del condominio committente. In tali spiacevoli circostanze, chi è responsabile? Sicuramente l’appaltatore. Ma ciò vale anche per il direttore dei lavori, ovvero vi sono dei casi in cui egli va esente da responsabilità? Qual è poi la posizione dell’amministratore del condominio committente i lavori mal eseguiti?

Il quadro della situazione è offerto da una recente quanto interessante sentenza della Cassazione  (7 luglio – 30 settembre 2014, n. 20557), i cui passi fondamentali sono i seguenti.

“Costituisce pacifica giurisprudenza di questa Corte l’affermazione secondo cui in tema di appalto, è di regola l’appaltatore che risponde dei danni provocati a terzi ed eventualmente anche dell’inosservanza della legge penale durante l’esecuzione del contratto, attesa l’autonomia con cui egli svolge la sua attività nell’esecuzione dell’opera o del servizio appaltato, organizzandone i mezzi necessari, curandone le modalità ed obbligandosi a fornire alla controparte l’opera o il servizio cui si era obbligato. Il controllo e la sorveglianza del committente, invece, si limitano all’accertamento e alla verifica della corrispondenza dell’opera o del servizio affidato all’appaltatore con quanto costituisce l’oggetto del contratto. In tale contesto, una responsabilità del committente nei riguardi dei terzi risulta configurabile solo allorquando si dimostri che il fatto lesivo sia stato commesso dall’appaltatore in esecuzione di un ordine impartitogli dal direttore dei lavori o da altro rappresentante del committente stesso, tanto che l’appaltatore finisca per agire quale nudus minister privo dell’autonomia che normalmente gli compete (sentenze 23 marzo 1999, n. 2745, 20 aprile 2004, n. 7499, 2 marzo 2005, n. 4361, e 29 marzo 2007, n. 7755). È stata poi riconosciuta una responsabilità del committente anche quando sia configurabile in capo al medesimo una culpa in eligendo, per aver affidato il lavoro ad un’impresa che palesemente difettava delle necessarie capacità tecniche, ovvero in base al generale principio del neminem laedere di cui all’art. 2043 c.c. (sentenze 6 agosto 2004, n. 15185, e 27 maggio 2011, n. 11757, e 15 novembre 2013, n. 25758).

(omissis)

 L’amministratore, però, non costituisce un’entità diversa dal condominio del quale è rappresentante, perché il condominio è un ente di gestione privo di personalità giuridica diversa da quella dei singoli condòmini (ordinanza 11 gennaio 2012, n. 177). Ciò significa che il condomino che ritenga di essere stato danneggiato, come nella specie, da un’omessa vigilanza da parte del condominio nell’esecuzione di lavori sulle parti comuni non può considerare l’amministratore come un soggetto terzo ed estraneo; dovrà comunque rivolgere la propria pretesa risarcitoria nei confronti del condominio il quale, a sua volta, valuterà se esistono gli estremi di una rivalsa nei confronti dell’amministratore. Del resto, anche la sentenza 16 ottobre 2008, n. 25251, di questa Terza Sezione, che pure ha riconosciuto una sorta di responsabilità allargata in capo all’amministratore di condominio, ha tuttavia escluso che il potere di controllo sui beni comuni permanga quando l’appaltatore sia posto in condizioni di “esclusivo custode delle cose sulle quali si effettuano i lavori”.

Né può pervenirsi a differenti conclusioni in considerazione del ruolo di direttore dei lavori, (quando affidato all’amministratore stesso: n.d.r.).  Il direttore dei lavori per conto del committente, infatti, presta un’opera professionale in esecuzione di  un’obbligazione di mezzi e non di risultati ma, essendo chiamato a svolgere la propria attività in situazioni involgenti l’impiego di peculiari competenze tecniche, deve utilizzare le proprie risorse intellettive ed operative per assicurare, relativamente all’opera in corso di realizzazione, il risultato che il committente si aspetta di conseguire, onde il suo comportamento deve essere valutato non con riferimento al normale concetto di diligenza, ma alla stregua della diligentia quam in concreto; rientrano pertanto nelle obbligazioni del direttore dei lavori l’accertamento della conformità sia della progressiva realizzazione dell’opera al progetto, sia delle modalità dell’esecuzione di essa al capitolato e/o alle regole della tecnica, nonché l’adozione di tutti i necessari accorgimenti tecnici volti a garantire la realizzazione dell’opera senza difetti costruttivi (v. sentenze 20 luglio 2005, n. 15255, e 24 aprile 2008, n. 10728). Il direttore dei lavori, in sostanza, assume la specifica funzione di tutelare la posizione del committente nei confronti  dell’appaltatore, vigilando che l’esecuzione dei lavori abbia luogo in conformità a quanto stabilito nel capitolato di appalto.

Da questo, tuttavia, non deriva a suo carico né una responsabilità per cattiva esecuzione dei lavori imputabile alla libera iniziativa dell’appaltatore, né un obbligo continuo di vigilanza anche in relazione a profili – tutto sommato marginali – come quello della copertura con teloni di plastica durante i lavori di scopertura e successiva ricostruzione del tetto.  

(omissis)

In altre parole, in assenza di un qualche indice che faccia supporre che l’appaltatore sia stato sottoposto dal committente a direttive così stringenti da sottrargli qualsiasi possibilità di autodeterminazione, in conformità alla giurisprudenza in tema di appalto sopra ricordata deve ribadirsi che l’appaltatore rimane esclusivo responsabile dell’esecuzione dei lavori, nonché dei relativi danni conseguenti a negligenza nell’esecuzione”.

Ecco dunque un utile quadro della situazione.



RIFORMA DEL CONDOMINIO E REVOCA DELL’AMMINISTRATORE: CON E SENZA GIUSTA CAUSA

[A cura di: Silvio Rezzonico – presidente Confappi]


La revoca dell’amministratore è di due tipi: quella senza giusta causa e quella con giusta causa. La prima può avvenire interrompendo anche bruscamente l’incarico durante il suo corso, oppure alla fine del mandato (ma in questo ultimo caso più che di revoca sarebbe giusto parlare di mancata nomina). 


Revoca senza giusta causa 

La revoca senza giusta causa nel corso del mandato non ha bisogno di essere in alcun modo giustificata, ma ha un inconveniente: costa. Infatti, l’art. 1725 c.c. recita: “la revoca del mandato oneroso … obbliga il mandante a risarcire i danni, se fatta prima della scadenza del termine … salvo che ricorra a giusta causa”. Ovviamente, esiste un limite massimo per la somma prevista per il risarcimento del danno, cioè l’onorario non più riscosso dall’amministratore revocato. 

Se non è stabilito diversamente dal regolamento, le maggioranze per la revoca sono uguali a quelle previste per la nomina, e cioè metà più uno degli intervenuti in assemblea e almeno metà del valore dell’edificio. Poiché i quorum più bassi previsti dal regolamento sono applicabili solo alla revoca e non alla nomina, ci si trova di fronte all’assurdo che si possa validamente revocare un professionista senza però riuscire a nominare un altro professionista in sua sostituzione. Perciò il professionista revocato resterà comunque in carica finché non verrà qualcun altro al suo posto. 


Revoca con giusta causa 

La riforma ha riconfermato che l’amministratore può essere revocato anche per “gravi irregolarità”, dal giudice su ricorso anche di un solo condomino. Le novità sono due. La prima è che la revoca per giusta causa può essere fatta anche dall’assemblea. La seconda è che sono stati moltiplicati e soprattutto resi più chiari i motivi per cui scatta la “giusta causa”, mentre in precedenza i giudici avevano considerato efficaci solo quelli penalmente rilevanti. L’elenco fornito dal codice non esaurisce tutte le possibilità ma è esemplificativo. Infatti, la norma recita: “costituiscono tra le altre, gravi irregolarità …”. Eccole, comunque: 

– l’omessa convocazione dell’assemblea per approvare il rendiconto o il rifiuto ripetuto di convocarla per la nomina o la revoca dell’amministratore; 

– la non esecuzione delle delibere assembleari, dei provvedimenti del giudice o delle autorità amministrative; 

– la mancata apertura o uso di un conto corrente dedicato al singolo condominio; 

– la confusione nella gestione tra il patrimonio del condominio e quello personale dell’amministratore di altri palazzi o singoli condomini; 

– l’aver permesso la cancellazione delle formalità per un credito insoddisfatto, come un pignoramento o un’ipoteca, dai registri immobiliari; 

– la mancata cura delle azioni giudiziarie contro i morosi e delle conseguenti esecuzioni coattive; 

– la mancata tenuta del registro di anagrafe condominiale, del registro dei verbali delle assemblee, del registro di nomina e revoca dell’amministratore e di quello di contabilità; 

– non aver fornito al condomino che ne faccia richiesta la documentazione sul pagamento delle spese condominiali e su eventuali giudizi in corso; 

– l’omessa, incompleta o inesatta comunicazione dei dati dell’amministratore (anagrafici, professionali, fiscali), nonché dei giorni e delle ore in cui si può prendere visione della documentazione; la mancata comunicazione all’assemblea delle citazioni o dei provvedimenti con contenuto che esorbita le attribuzioni dell’amministratore (per esempio un’ingiunzione da parte dell’amministrazione comunale); 

– la mancata comunicazione ai condomini della convocazione in giudizio per la revisione dei millesimi ai sensi dell’art. 69, comma 2, disp. att. c.c.. 

A differenza di quanto accade per la revoca davanti al giudice dell’amministratore per irregolarità, quella fatta dall’assemblea può essere motivata solo da gravi irregolarità fiscali o dalla mancata apertura o uso del conto corrente condominiale. Che cosa si intenda per irregolarità, fiscali resta un mistero. È probabile che contino solo motivi importanti e non semplici infrazioni o inesattezze. L’assemblea deciderà come per la nomina, con le maggioranze dei presenti e almeno metà dei millesimi. Purtroppo, l’elenco dei motivi previsti per la revoca per giusta causa ne contempla anche alcuni decisamente “deboli” come, per esempio, il mancato aggiornamento dell’anagrafe o la non esecuzione di delibere che possono essere di scarsissimo conto. 

AUTODENUNCIA DELL’AFFITTO IN NERO: QUALI SCADENZE DOPO LA SENTENZA DI INCOSTITUZIONALITÀ?

[A cura di: avv. Giovanni Carini – Uppi]


Con gli articoli 8-9 dell’art. 3 del d.lgs. n. 23/2011, il legislatore aveva introdotto, nell’ambito della normativa della c.d. “cedolare secca”, una particolare sanzione fiscale stabilendo che: “ai contratti di locazione degli immobili ad uso abitativo, comunque stipulati, che, ricorrendone i presupposti, non sono registrati entro il termine stabilito dalla legge, si applica la seguente disciplina:

a) la durata della locazione è stabilita in quattro anni a decorrere dalla data della registrazione, volontaria o d’ufficio;

b) al rinnovo si applica la disciplina di cui all’articolo 2, comma 1, della citata legge n. 431 del 1998;

c) a decorrere dalla registrazione il canone annuo di locazione è fissato in misura pari al triplo della rendita catastale, oltre l’adeguamento, dal secondo anno, in base al 75 per cento dell’aumento degli indici Istat dei prezzi al consumo per le famiglie degli impiegati ed operai. Se il contratto prevede un canone inferiore, si applica comunque il canone stabilito dalle parti”.

d) Le disposizioni di cui all’articolo 1, comma 346, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, ed al comma 8 del presente articolo si applicano anche ai casi in cui:

1) nel contratto di locazione registrato sia stato indicato un importo inferiore a quello effettivo;

2) sia stato registrato un contratto di comodato fittizio.

La disciplina di cui ai commi 8 e 9 non si applica ove la registrazione sia effettuata entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto”.


Tale norma, dunque, prevedeva, anche con riferimento ai contratti in corso ed in assenza della sanatoria prevista dall’ultima parte della norma, la possibilità di ottenere la imposizione di un contratto su delazione della parte conduttrice a diverse (ed in genere peggiorative) condizioni, rispetto a quelle pattuite, e precisamente la costituzione di ufficio (o “volontaria” ipotesi invero piuttosto remota) di un contratto ex novo della durata di 4 + 4 anni e ad un corrispettivo annuo pari a tre volte la rendita catastale.

Con sentenza del 14.03.2014, gli art. 8-9 del d.lgs 23/2011 sono stati dichiarati illegittimi dalla Corte Costituzionale, per cui detta norma ha perso “ab origine” qualsivoglia efficacia. Senonché il legislatore, con successivo decreto legge 28.3.2014 n. 47, convertito con legge 23.5.2014 n. 80, pubblicato in G.U. n. 121 del 27.5.2014 ed entrato in vigore il giorno dopo, ossia il 28.5.2014, ha inteso adottare una specie di “gestione” dei normali effetti conseguenti ad una norma dichiarata incostituzionale, introducendo all’art. 5 comma 1 ter una sorta di protrazione degli effetti della norma dichiarata incostituzionale, stabilendo che restano salvi “sia gli effetti che i rapporti giuridici”, sorti sulla base dei “contratti di locazione” registrati secondo le procedure di cui alle richiamate norme (incostituzionali): “sono fatti salvi fino alla data del 31.12.2015 gli effetti prodottisi ed i rapporti giuridici sorti sulla base dei contratti di locazione registrati ai sensi dell’art. 3 comma 8 e 9 del decreto legislativo 14.03.2011 n. 23”.


Ciò posto, in primo luogo, pur risultando piuttosto oscuro quali siano gli effetti ed i rapporti “prodottisi” sulla base del contratto di locazione ricostruito, dobbiamo immaginare che il legislatore abbia voluto procrastinare la possibilità, per i conduttori che avessero attivato la procedura “sanzionatoria”, di non subire immediatamente gli effetti della pronuncia di incostituzionalità, per cui occorre esaminare quali siano la portata e le conseguenze della “proroga” introdotta a seguito della denunzia formulata con la procedura di cui all’art. 3 d.lgs 23/2011. Premesso, infatti, che la sanzione di incostituzionalità, ha indubbiamente travolto la validità ed efficacia del contratto secondo lo schema ipotizzato dal legislatore nella norma abrogata dalla Corte Costituzionale (4+4 anni di durata ad un corrispettivo pari a tre volte la rendita catastale diviso 12), va correttamente interpretata la successiva norma definita di “salvaguardia” (art. 5 comma 1 ter D.L. 28.3.2014 n. 47), analizzandone la portata. 

E, al riguardo vi è una prima considerazione. “Gli effetti ed i rapporti giuridici” relativi ai contratti di locazione registrati ricorrendo al procedimento del d.lgs. 23/2011, sono “fatti salvi” per un tempo limitato, e cioè fino al 31.12.2015, essendo questo un dato estremamente chiaro perché letterale.

La norma è, invece, piuttosto ambigua laddove fa riferimento all’oggetto del “salvataggio”, ossia gli effetti ed i rapporti giuridici, sorti sulla base dei contratti di locazione, forzosamente imposti. In particolare, bisogna domandarsi se il legislatore abbia voluto prorogare il contratto in quanto tale, lasciandolo in vigore fino al 31.12.2015, oppure abbia inteso, più semplicemente, preservare il conduttore dal pagamento immediato degli oneri già maturati, per avere illegittimamente violato la pattuizione contrattuale originaria ma in maniera incolpevole, avendo fatto affidamento e (corretta) applicazione di una norma, poi dichiarata incostituzionale.

Delle due interpretazioni la seconda appare – a parere dello scrivente – indubbiamente più conforme ed in linea con il contenuto letterale e con la ratio della legge e, senz’altro ne fornisce una lettura costituzionalmente orientata (la norma in questione è già stata rimessa dal Tribunale di Napoli con ordinanza del Dr. Rosario Caiazzo del 18.06.2014, al vaglio della Corte Costituzionale).

Difatti, la disposizione prevede chiaramente e letteralmente, la salvezza degli effetti e rapporti già “prodotti e sorti”, al momento della sua entrata in vigore e non regolamenta affatto quelli che dovranno maturare successivamente, a seguito del venir meno della legge per la dichiarata incostituzionalità. 


Ciò trova conforto anche nella ratio legis. È infatti evidente che chi aveva fatto ricorso al procedimento fidando sulla validità della originaria disposizione, poi cancellata in virtù del noto effetto retroattivo della statuizione costituzionale, si sarebbe trovato di punto in bianco in una situazione sensibilmente gravosa sia sotto il profilo abitativo, tenuto conto che la riduzione del canone, come è noto, comporta la risoluzione automatica del rapporto locativo per inadempimento, sia sotto l’aspetto economico, tenuto conto che effetto automatico della illecita autoriduzione del corrispettivo, è l’obbligo di pagamento immediato delle differenze già maturate. Ne consegue che, il legislatore, con la norma che egli stesso definisce di salvaguardia, ha inteso evitare che il conduttore incolpevole, potesse subire tutto di un colpo gli effetti della errata scelta legislativa, dichiarando la possibilità di porvi rimedio entro un termine che ha indicato per la fine dell’anno 2015.

Del resto, se avesse voluto prorogare l’efficacia del contratto per il futuro, egli avrebbe fatto espresso riferimento ad esso e non di certo agli effetti ed ai rapporti già maturati (in base a detto contratto) e ciò senza tener conto della circostanza, altrettanto rilevante, che il contratto o è valido o non lo è, per cui mai la durata di esso potrebbe essere temporalmente ridotta e procrastinata al 31.12.2015.


Tale lettura della norma in esame, è avallata anche dalla relazione introduttiva ad essa e, in particolare, da quanto riferito in Senato dal relatore in occasione della seduta pubblica di giovedì 8 maggio 2014 (la 243^): “La commissione ha introdotto infine una norma che salvaguarda fino al 31 dicembre 2015 gli effetti della legge contro gli affitti in nero che la Corte Costituzionale ha cancellato. Si è trovata una soluzione che non mette in discussione la sentenza, ma riconosce che coloro che ne hanno beneficiato oggi non possono subire le conseguenze di aver applicato la legge, e garantisce loro un tempo congruo per non dover sopportare un aggravio ingiusto delle proprie condizioni”.

Dunque dal semplice esame di tale relazione risulta confermato che:
– la norma produce i suoi effetti fino al 31.12.2015;

– essa ha lo scopo di “salvaguardare gli effetti della legge contro gli “affitti in nero” che la Corte Costituzionale avrebbe cancellato ma è comunque “una soluzione che non mette in discussione la sentenza”.


Questo passaggio merita una ulteriore considerazione. In primo luogo, in esso si fa espresso riferimento alla salvaguardia degli effetti pregressi ossia già maturati, ma nulla dispone per le vicende successive al prosieguo del rapporto, tant’è che conferma la piena validità della sentenza che non “mette in discussione”, volendo soltanto evitare che chi ha applicato la norma dichiarata illegittima, possa subire “un aggravio ingiusto delle proprie condizioni di vita”. In secondo luogo, la salvaguardia di cui trattasi non è definitiva ma è limitata, allo spirare del termine fissato per il 31.12.2015. Del resto, sempre nella relazione, si legge che si è voluto evitare un “aggravio ingiusto”. Nel caso in esame l’ingiustizia dell’aggravio non può di certo essere riferita all’applicazione della sentenza del Giudice delle leggi, che in quanto tale non può che possedere il crisma della legittimità, ma tuttalpiù, alle difficoltà in cui si viene a trovare il conduttore se deve in un’unica soluzione, provvedere a reintegrare la decurtazione di canone, accumulato in applicazione della norma incostituzionale. Pertanto tale ingiustizia sarebbe debellata, con la concessione di un congruo termine per sanare il debito pregresso maturato.


Al riguardo si ricorda che la Suprema Corte, nell’analizzare gli effetti delle pronunce della Corte Costituzionale, ha avuto modo di precisare che: “la retroattività delle pronunce di illegittimità costituzionale riguarda l’antigiuridicità delle norme investite, non più applicabili neanche ai rapporti pregressi non ancora “esauriti” ma non consente di configurare retroattivamente, quanto fittiziamente, la colpa del soggetto, che prima della declaratoria di incostituzionalità abbia conformato il proprio comportamento alle norme solo successivamente investite da quella declaratoria (così Cass. n. 355/2013; conf. Cass. n. 6744/1996: “l’efficacia retroattiva delle sentenze dichiarative dell’illegittimità costituzionale di una norma, se comporta che tali pronunzie abbiano effetto anche in ordine ai rapporto svoltisi precedentemente (eccettuati quelli definiti con sentenza passata in giudicato e le situazioni comunque definitivamente esaurite) non vale a far ritenere illecito il comportamento realizzato, anteriormente alla sentenza di incostituzionalità, conformemente alla norma successivamente dichiarata illegittima, non potendo detto comportamento ritenersi caratterizzato da dolo o colpa” (Cass. n. 15879/2002; Cass. n. 941/1999; Cass. n. 194/1996).”


Quindi, tirando le fila del discorso, a partire dalla data di decisione della Corte Costituzionale, essendo venuta indubbiamente meno l’esigenza di tutela della “incolpevolezza” del conduttore, quest’ultimo è tenuto all’immediato pagamento del corrispettivo pieno mentre, per le differenze pregresse maturate dalla data della riduzione fino alla sentenza della Corte Costituzionale le stesse, pur essendo regolarmente dovute, potranno essere corrisposte entro la data del 31.12.2015.

Il locatore, pertanto, potrà agire per la risoluzione del contratto, qualora il conduttore – anche dopo la pronunzia della Corte Costituzionale – avesse continuato a corrispondere il canone ridotto per il periodo che va dalla pronuncia della Corte Costituzionale in poi, mentre per la differenze pregresse il giudizio di morosità potrà essere incardinato solo dopo lo spirare del termine dilatorio del 31.12.2015.

Tale chiave di lettura, a parere dello scrivente, fugherebbe anche il sospetto di illegittimità costituzionale sollevato dal Giudice con l’ordinanza di rimessione del 18.06.2014. Tuttavia è opportuno, comunque, precisare che la pendenza di tale questione non impedisce al locatore di potere agire per la risoluzione definitiva del contratto in ragione del mancato pagamento delle differenze di canone a partire dalla data di riduzione del corrispettivo fino all’attualità, posta in essere in attuazione del procedimento ex d.lgs. 23/2011. In tal caso dovrà formulare una specifica domanda, rinviandone la definizione alla pronuncia della Corte Costituzionale.

LOCAL TAX: STANGATA DA 26 MILIARDI IN UN’UNICA SOLUZIONE

Per i contribuenti italiani una stangata da 26 miliardi di euro. Per le casse dei Comuni, sempre in affanno, una boccata d’ossigeno di pari importo, con il vantaggio dipoterla “aspirare” in un solo colpo. Due facce della stessa medaglia: quella della cosiddetta “local tax” di cui è fatto un gran parlare nei mesi scorsi ma che, dopo le indiscrezioni emerse a seguito del question time alla Camera tenuto mercoledì scorso dal ministro, Padoan, dovrebbe effettivamente scattare a partire dal 2016, inglobando l’Imu, la Tasi, l’addizionale comunale Irpef e una serie di piccole imposte minori.

Ma a quanto ammonterà, in dettaglio, il salasso? A fare i conti in tasca al “nuovo” balzello è stata la Cgia di Mestre, che ha elencato le principali imposte/tasse comunali e i relativi gettiti che potrebbero essere sostituiti dalla “tassa unica” che i Sindaci saranno chiamati ad applicare.

Ebbene, tra Imu e Tasi (21,1 miliardi di euro), l’addizionale comunale Irpef (4,1 miliardi di euro), l’imposta sulla pubblicità (426 milioni di euro), la tassa sull’occupazione degli spazi e aree pubbliche (218 milioni di euro), l’imposta di soggiorno (105 milioni di euro) e l’imposta di scopo (14 milioni di euro), il gettito totale si aggira appunto sui 26 miliardi.

Ovviamente, fanno notare dalla CGIA, siamo ancora nel campo delle ipotesi. Tuttavia lo scenario che si profila non dovrebbe essere molto lontano da quello disegnato dalla Camera degli Artigiani. “L’eventuale semplificazione della tassazione comunale – segnala il segretario della Cgia, Giuseppe Bortolussi – renderebbe certamente più facile pagare le tasse: una richiesta che i cittadini e le imprese invocano da tempo. Ma, oltre a semplificare, bisogna anche ridurne il peso, visto che a partire dal 2011, ultimo anno in cui gli italiani hanno pagato l’Ici, la tassazione su botteghe, piccoli negozi e uffici ha subito un’impennata spaventosa, a causa dell’introduzione dell’Imu e, successivamente, della Tasi”.

In particolare, su botteghe e negozi, fa sapere l’Ufficio studi della Cgia, il gettito complessivo è più che raddoppiato: + 108 per cento. Se nel 2011 ammontava a 796 milioni di euro, nel 2014 ha toccato 1,65 miliardi di euro. Altrettanto pesante è stato l’aggravio fiscale subito dagli uffici: sempre tra il 2011 e il 2014, il gettito incassato dai Comuni è salito del 105 per cento; se 4 anni fa i Comuni avevano incassato 533 milioni di euro, nel 2014 hanno riscosso poco più di un miliardo di euro. I laboratori, invece, hanno visto aumentare il peso fiscale dell’81 per cento: se con l’Ici i primi cittadini avevano incassato 229 milioni di euro, nel 2014 hanno “alleggerito” le tasche degli imprenditori di 414 milioni di euro. Sui capannoni, infine, l’incremento del prelievo è stato del 66 per cento: a fronte di 3,3 miliardi di euro riscossi dai Sindaci nel 2011, tre anni dopo il gettito complessivo è salito a 5,5 miliardi di euro.

 

SE IL CONIUGE È ASSENTE AL ROGITO PERDE IL SUO 50% DI BONUS PRIMA CASA

[A cura di: Nunziata Masiello e Filomena Scarano (FiscoOggi)
– Agenzia delle Entrate
]

 

È legittima la revoca, per la metà, dell’agevolazione
fiscale “prima casa” se, al momento del rogito, era presente solo uno dei due
coniugi che ha acquistato il bene in comunione legale. Le dichiarazioni
prescritte dalla norma agevolativa devono essere rese al notaio da entrambi i
coniugi acquirenti e l’eventuale dichiarazione integrativa deve essere redatta
con le stesse formalità giuridiche del precedente [atto] ed entro i
termini di decadenza
”.

È quanto ha stabilito la Corte di cassazione con la sentenza
1988 del 4 febbraio 2015.

 

VICENDA PROCESSUALE

L’Amministrazione finanziaria aveva notificato un avviso di
liquidazione con il quale era stata revocata, per la metà, l’agevolazione
fiscale per l’acquisto della prima casa. Detta agevolazione era stata così
riconosciuta nei confronti del solo coniuge, che aveva acquistato l’immobile in
regime di comunione legale, presente al momento del rogito.

Il ricorso proposto dal notaio rogante veniva rigettato, sia
in primo sia in secondo grado.

In particolare, i giudici d’appello ritenevano che le
dichiarazioni, prescritte alle lettere b) e c) della norma
agevolativa, dovevano esser rese da entrambi i coniugi in seno all’atto e che
eventuali omissioni potevano esser integrate con un altro atto redatto con le
stesse formalità di quello precedente, entro il termine di decadenza.

Il notaio, pertanto, ricorreva per la cassazione della
sentenza, deducendo la violazione e falsa applicazione dell’articolo 1, comma
4, e nota II-bis, della tariffa allegata al Dpr 131/1986, e dell’articolo 16
del Dl 155/2003, in relazione all’articolo 360 del codice di procedura civile,
comma 1, n. 3. Nello specifico, lamentava che la Ctr non avesse ritenuto che,
in caso d’acquisto di un fabbricato da parte di un soggetto coniugato, in
regime di comunione legale dei beni, le dichiarazioni prescritte dalla legge
riguardavano non solo il coniuge intervenuto nell’atto ma, anche, quello non
intervenuto.

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

La Corte di cassazione, confermando quanto statuito dalla
Commissione di secondo grado, ha riconosciuto l’agevolazione solo in favore del
coniuge presente al momento del rogito.

In particolare, ha osservato che, per il godimento
dell’agevolazione “prima casa”, “occorre che l’acquirente dichiari in seno
all’atto di acquisto di non essere titolare esclusivo o in comunione con il
coniuge dei diritti di proprietà, usufrutto, uso ed abitazione di altra casa di
abitazione nel territorio del comune in cui è situato l’immobile da acquistare,
e di non averne in precedenza, fruito, neppure pro quota, in riferimento
all’intero territorio nazionale: la circostanza che l’acquisto dell’immobile si
attui per effetto del regime di comunione legale non costituisce, in assenza di
specifiche disposizioni in tal senso, eccezione alla regola anzidetta
”.

La Corte ha altresì precisato che tale conclusione non
contrasta con la precedente giurisprudenza di legittimità (Cassazione
14237/2000 e 15426/2009) citata dal ricorrente. I principi in essa espressi,
infatti, sono da riferirsi a un diverso requisito della normativa di
riferimento: residenza anagrafica nel comune ove è situato l’immobile.

Al riguardo, si ricorda che ai sensi dell’articolo 1, nota
II-bis, della tariffa, parte prima, allegata al Dpr 131/1986, per fruire
dell’agevolazione è richiesto, tra l’altro, anche il requisito della residenza
nel comune ove è situata l’abitazione da acquistare. Su tale aspetto, è emersa
la problematica (diversa da quella oggetto della sentenza odierna) relativa
alla spettanza o meno dell’agevolazione nell’ipotesi di acquisto di immobile a
uso abitativo da parte di coniugi in regime di comunione legale, con
particolare riferimento al caso in cui solo uno dei coniugi soddisfi il
requisito della residenza anagrafica.

L’Amministrazione finanziaria, con la circolare 38/2005, ha
precisato che, ai fini fiscali, l’acquisto di un immobile da parte di un
coniuge che si trovi in regime di comunione legale “comporta l’applicazione
nella misura del 50 per cento dell’agevolazione prima casa qualora l’altro
coniuge non sia in possesso dei requisiti necessari per fruire del predetto
regime di favore
” e non l’esclusione dei benefici per intero.

Tale interpretazione è conforme al tenore letterale della
norma agevolativa, che subordina la fruizione del beneficio in argomento alla
presenza di condizioni personali del richiedente, quale, in particolare, la
residenza anagrafica del singolo e non la residenza familiare.

La giurisprudenza di legittimità ha, invece, affermato con
molteplici pronunce – anche più recenti rispetto a quelle citate dal notaio
ricorrente – la fruibilità per intero del beneficio “prima casa” anche
nell’ipotesi in cui uno dei coniugi non soddisfi il requisito della residenza
anagrafica (cfr Cassazione 3931/2014, 16355/2013, 16356/2013,
15426/2009, 13085/2003 e 14237/2000).

Tuttavia la Corte, nel caso della sentenza in commento, ha
osservato che i precedenti richiamati si riferiscono ad altra fattispecie, e,
quindi, non costituiscono, per così dire, “precedente”.

Altra questione sollevata dal contribuente, su cui la
suprema Corte si è espressa, afferisce al caso in cui un coniuge, in regime di
comunione legale, acquisti un fabbricato con richiesta delle agevolazioni
fiscali con atto pubblico, senza che nel medesimo intervenga la moglie e alla
necessità che, per la dichiarazione integrativa di quest’ultima, sia necessario
atto pubblico o sia, invece, sufficiente una scrittura privata autenticata.

Sul punto, si ricorda che il possesso delle condizioni
soggettive, di cui alla nota II-bis dell’articolo 1 della tariffa, parte prima,
del Tur, deve essere dichiarato, a pena di decadenza, nell’atto di
compravendita, fatta salva la possibilità in capo al contribuente –
riconosciuta dalla prassi amministrativa (risoluzione 110/2006) – di chiedere
successivamente l’agevolazione con atto integrativo avente la stessa forma
dell’atto precedente.

La Cassazione, confermando la posizione espressa
dall’Amministrazione, ha affermato che è priva d’effetto la dichiarazione
integrativa resa dal coniuge assente al momento della compravendita: “tale
atto avrebbe dovuto essere redatto – e non lo era stato – con le stesse
formalità giuridiche del precedente ed entro i termini di decadenza
”.