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UN’ALTRA CONFERMA: TASI PIÙ CARA DELL’IMU

Con alle porte la scadenza per il pagamento dell’acconto, fissata per il 16 ottobre, si susseguono quasi a ritmo incessante stime e proiezioni relativa all’impatto dell’imposta sui contribuenti. Tra le ultime, quella effettuata da Federconsumatori la cui ricercatrice, Valentina Schiamone, ha coordinato un’indagine nazionale a campione, confrontando il peso della “nuova Tasi” con quello dell’Imu che si pagava nel 2012. Ebbene, il quadro che emerge dallo studio è che per la Tasi sull’abitazione principale, nel 90% circa dei Comuni che hanno deliberato, l’aliquota media è 1,94 per mille (cioè circa il doppio rispetto all’aliquota minima fissata all’1 per mille), ma solo nel 35% dei casi dove si è deliberato si registra una detrazione d’imposta.

Gettando uno sguardo alle città capoluogo di Provincia, invece, si registra una situazione rovesciata: 78 città su 107 hanno introdotto detrazioni sull’abitazione principale.

Quel che è peggio è che si è confermato il timore manifestato già in occasione della presentazione della prima indagine sulla Tasi di Federconsumatori: infatti, la detrazione fissa e obbligatoria di 200 euro per l’abitazione principale più 50 euro per ogni figlio prevista per l’Imu 2012 consentiva ai proprietari di 5 milioni di abitazioni principali di non pagare nulla; ora, invece, con la Tasi anche gli immobili di minori dimensioni e basso valore catastale (anche se meno laddove ci sono le detrazioni progressive a seconda della rendita catastale) dovranno pagare l’imposta.

Secondo lo studio, dunque, “Questa Tasi piatta si rivela iniqua e regressiva rispetto alla vecchia Imu, perché alza il prelievo per le abitazioni di valore medio basso e per le famiglie numerose e lo abbassa per quelle di valore più alto”. Si genera, quindi, “una situazione intollerabile”, come dichiara Mauro Zanini, vice presidente di Federconsumatori.

Sul versante delle soluzioni adottate dai Comuni con la nuova Tasi, la varietà nell’applicazione è stata la più totale, ovvero: “città che vai, Tasi che trovi”. I continui mutamenti normativi, l’eccessiva eterogeneità delle delibere dei Comuni e delle stesse condizioni per applicare le detrazioni, rendono complesso e difficile al cittadino contribuente compiere il proprio dovere, con il rischio di commettere errori.

Dall’indagine emerge che l’aliquota media applicata dalle città capoluogo di Regione risulta pari al 2,46 per mille, così come per gli altri capoluoghi di Provincia. Nel dettaglio, prendendo a riferimento come campione per l’indagine un appartamento di 100 metri quadri abitato da una famiglia di tre persone (coppia con un figlio di età non superiore a 18 anni) categoria catastale A2, classe 3, vediamo che l’importo della Tasi 2014 rispetto all’Imu 2012 è aumentato mediamente del 9,2%. Dall’analisi di Federconsumatori emerge anche che le 3 città più care risultano essere: Torino, Roma e Bologna, mentre le 3 città meno sarebbero Trento, Catanzaro e Palermo.

“Con la nuova legge di stabilità, che a breve il Governo dovrà approvare, chiediamo di rivedere radicalmente la Iuc (Imu, Tasi, Tari), fissando dei paletti e in particolare eliminando la possibilità che la Tasi nel 2015 arrivi al 6 per mille. Sarebbe un disastro per i bilanci di milioni di famiglie – commenta ancora Mauro Zanini -. Inoltre vanno reintrodotte e rese obbligatorie le detrazioni per gli immobili di basso valore catastale e vanno applicate agevolazioni per i nuclei familiari in forte difficoltà economica e sociale. Infine, il calcolo deve essere semplice ed eseguibile da tutti i cittadini”.

IMPOSTE: TARTASSATI ANCHE I CAPANNONI

Non soltanto gli alloggi. Ad essere flagellati dall’imposizione fiscale sugli immobili sono anche i capannoni, a tutto danno dei conti delle aziende. A certificarlo è uno studio condotto dalla Cgia di Mestre, secondo cui l’azione combinata di Imu e Tasi ha prodotto un ulteriore aggravio alle imprese, tanto che, rispetto allo scorso anno, in 3 Comuni capoluogo di provincia su 4 la tassazione sui capannoni aumenta. Anche se ad onor del vero, come puntualizza la ricerca, non sempre la responsabilità è dei sindaci.


DATI COMUNALI

In termini percentuali, gli incrementi più “pesanti” si registrano a Pisa (+31 per cento, pari ad un aumento medio di 791 euro), a Brindisi (+18 per cento, pari a un aggravio di 2.314 euro) e a Treviso (+17 per cento che si traduce in un rincaro di 321 euro). Gli imprenditori che, invece, beneficiano della riduzione fiscale più significativa sono quelli che possiedono il capannone nel Comune di Nuoro (-14 per cento, pari a -147 euro), in quello di Modena (-15 per cento che si traduce in un risparmio di 309 euro) e in quello di Siracusa (-15 per cento, pari a 463 euro).

In questa analisi sono state esaminate le decisioni prese dagli 80 Comuni capoluogo di Provincia, che per l’anno in corso hanno stabilito e pubblicato sul sito del Dipartimento delle Finanze (entro il 24 settembre 2014) le aliquote Imu e Tasi da applicare ai capannoni (categoria catastale D1). Da un punto di vista metodologico – fa sapere la Cgia – gli importi versati sono al netto del risparmio fiscale conseguente alla parziale deducibilità dal reddito di impresa dell’Imu (pari al 30 per cento dell’imposta nel 2013 e al 20 per cento dal 2014) e alla totale deducibilità della Tasi e della maggiorazione Tares (dal 2014 la maggiorazione Tares è stata assorbita dalla Tasi). Inoltre, sono state utilizzate le rendite catastali medie presenti in ciascun Comune capoluogo. È utile ricordare che per l’anno in corso l’aliquota Imu sui capannoni può oscillare da un valore minimo del 7,6 per mille a un valore massimo del 10,6 per mille. Quella della Tasi, invece, da zero al 2,5 per mille. Il legislatore, comunque, ha stabilito che la somma delle aliquote Imu più Tasi da applicare agli immobili strumentali non può superare il valore massimo dell’11,4 per mille.

 

IL COMMENTO

“Negli ultimi anni – dichiara Giuseppe Bortolussi segretario della Cgia – l’incremento della tassazione a livello locale è stato spaventoso. Dalla metà degli anni ’90 ad oggi, l’impennata è stata del 190 per cento. Per quanto riguarda la tassazione sugli immobili, con l’Imu e, da quanto si è capito fino a ora, anche con la Tasi, i sindaci hanno cercato, nel limite del possibile, di non penalizzare le abitazioni principali a discapito delle seconde/terze case e, in parte, degli immobili ad uso strumentale. È bene ribadire che un ulteriore aumento del carico fiscale sugli immobili produttivi e commerciali rischia di mettere fuori mercato molte aziende, soprattutto quelle di piccole dimensioni, che sono sempre più con l’acqua alla gola per la mancanza di liquidità”.


L’IMU PIÙ LA TASI

a) delle 80 delibere comunali prese in esame dalla Cgia, in 38 casi (pari al 47,5 per cento del totale) la somma delle aliquote Imu più Tasi è superiore all’aliquota Imu applicata nel 2013: ricordando che dal 2014 la deducibilità dell’Imu dal reddito di impresa scende al 20 per cento, in questi Comuni gli aumenti fiscali sono stati molto pesanti;

b) in 18 Comuni (pari al 22,5 per cento del totale delle delibere analizzate) gli imprenditori subiscono un lieve peggioramento. Nonostante i sindaci non abbiano applicato la Tasi e abbiano lasciato inalterata l’aliquota dell’Imu, la riduzione della deducibilità di quest’ultima imposta dà luogo ad un leggero aggravio fiscale;

c) in altri 12 Comuni (pari al 15 per cento del totale) che hanno adottato le stesse misure descritte nel punto precedente, il prelievo a carico dell’impresa è lieve o addirittura in leggera diminuzione rispetto al 2013. Ciò avviene perché in questi casi l’aliquota Imu è ben al di sotto dei livelli massimi stabiliti dalla legge (10,6 per mille);

d) in 9 amministrazioni (11,3 per cento del totale), invece, la somma delle aliquote Imu più Tasi è di poco superiore o uguale a quella dell’Imu applicata nel 2013: si è giunti a questo risultato aumentando la Tasi e diminuendo l’Imu. Pertanto, il prelievo fiscale netto in capo alle imprese diminuisce, perché la Tasi è totalmente deducibile, mentre l’Imu solo in parte;

e) Solo in 3 Comuni (3,8 per cento del totale) la somma delle aliquote Imu più Tasi è nettamente inferiore a quella dell’Imu riferita al 2013. Pertanto, a Nuoro, a Modena e a Siracusa la riduzione del carico fiscale sui capannoni assume una dimensione molto interessante.


AUMENTI BOOM 

Rispetto al 2011, ultimo anno in cui si è pagata l’Ici, gli aggravi sono pesantissimi per tutti. Le situazioni più critiche si registrano a Prato, a Cagliari, a Brescia e a Torino dove la tassazione sui capannoni è più che raddoppiata. A Reggio Calabria, invece, l’incremento è del 124 per cento, a Lucca del 128 per cento, a Lecce del 133 per cento e ad Aosta del 143 per cento. La punta record viene registrata a Milano, con un aumento del 162 per cento.

 



SUCCESSIONE: ABBASSARE L’IMPOSTA

[A cura di: Achille Colombo Clerici – presidente Assoedilizia]


Con il potenziale aumento della tassa di successione, l’incasso sarà minimo. Tale imposta nel nostro sistema fiscale già esiste, ed è molto gravosa incidendo, nella successione diretta tra genitori e figli (tra imposta principale ed imposte ipotecarie e catastali e presunzione di possesso di mobili, gioielli etc.), con un costo complessivo pari al 7,4% del valore immobiliare.

I proprietari immobiliari, inoltre, pagano già annualmente un’imposta patrimoniale ordinaria (Imu e Tasi) che vale, di per sé, un quarto delle imposte che si affrontano in caso di successione. Quindi, ogni 4 anni gli immobili-risparmio scontano il costo fiscale di una successione, pari come dicevamo al 7,4 % in casi di successione diretta.

Va detto che in Italia l’imposta ereditaria, che grava, nel suo attuale assetto, principalmente sugli immobili intestati alle persone fisiche (in massima parte abitazioni) per i quali il carico fiscale complessivo, tra imposta principale (aliquote del 4-6-8 % a seconda delle categorie di eredi) ed imposte ipocatastali (3 %, le quali nell’antico regime erano assorbite nell’imposta principale, mentre ora si cumulano) raggiunge rispettivamente il 7,4, il 9,6 e l’11,8 % della base imponibile immobiliare (sempre rispettivamente alle medesime categorie di eredi), per via delle ipocatastali e della presunzione di possesso di beni mobili.

Con la riforma del catasto in corso, che innalzerà sensibilmente il valore degli immobili e quindi la base impositiva, l’imposta di successione, già nella forma attualmente esistente, assumerà una portata espropriativa. L’immobile non è un bene che si possa vendere a fette per pagare le tasse; da qui il rischio di svendita ove si tratti di fare cassa per fronteggiare l’imposta, che equivale ad una parte non irrilevante dell’intero valore.

Più che un inasprimento, occorrerebbe dunque una riduzione dell’impatto dell’attuale successione: ad esempio eliminando le imposte ipotecarie e quelle catastali al fine di equiparare sul piano dell’incidenza fiscale tutte le fattispecie successorie. Non è solo una questione di equità generale. Questa imposta, infatti, non è di alcuna utilità sociale, per le casse erariali, perché il suo gettito risulta assolutamente irrilevante (500 milioni, contro i 53 miliardi del gettito della fiscalità immobiliare ed i 425 miliardi di entrate tributarie complessive); mentre per chi vi incappa è una vera tagliola che porta anche alla svendita dei patrimoni per poterla fronteggiare, tanto da assumere dunque una connotazione ideologica e punitiva.

E sicuramente un suo inasprimento sarebbe causa di un ulteriore calo di fiducia nell’investimento immobiliare: è per certo ciò di cui la nostra economia non ha bisogno.

“RENT TO BUY”: PROFILI GIURIDICI E TRIBUTARI

[A cura di: Consiglio Nazionale del Notariato]


Il decreto cd. Sblocca Italia all’art. 23 introduce nell’ordinamento la disciplina dei contratti di godimento in funzione della successiva alienazione di immobili, volta a predisporre in via normativa delle tutele per le parti contraenti, così rimovendo alcuni degli ostacoli alla diffusione di questi schemi contrattuali.

È ben noto, infatti, che in questi ultimi anni, caratterizzati da una forte crisi del mercato immobiliare, considerata anche la difficoltà di ottenere prestiti bancari, la prassi contrattuale si è orientata verso la ricerca di strumenti idonei a consentire di rimandare ad un momento futuro gli effetti finali di un’operazione di compravendita permettendo, però, da un lato, ai potenziali acquirenti di ottenere immediatamente la disponibilità dell’alloggio desiderato e di recuperare (in tutto o in parte) per il pagamento del prezzo in caso di successivo acquisto le somme versate per il godimento dell’immobile, e dall’altro lato, ai potenziali venditori di riuscire ad individuare degli acquirenti iniziando anche a mettere a reddito il bene. 

Si tratta di fattispecie spesso definite genericamente come “rent to buy”, che in realtà assumono configurazioni giuridiche diverse, tutte caratterizzate dall’intento di consentire all’acquirente l’immediato conseguimento del bene, diluendo nel tempo l’impegno finanziario, ed al venditore la collocazione dell’immobile (con conseguente sgravio dell’onere finanziario sostenuto per la costruzione).

Trattandosi di ipotesi finora prive di disciplina specifica e quindi di una tutela giuridica certa, specie se attuate mediante atti non trascritti nei Registri Immobiliari, è quanto mai opportuna la scelta del Governo di approntare alle stesse una disciplina normativa. Tale scelta, tra l’altro, recepisce le proposte elaborate dal Notariato in occasione dell’ultimo congresso nazionale (tenutosi a Roma nel novembre 2013 e dedicato al tema della “Proprietà dell’abitazione”), che sono state presentate al Senato della Repubblica lo scorso 15 aprile, in occasione dell’audizione tenuta in sede di conversione del D.L. 47/2014 (emergenza abitativa).

Va segnalato come la nuova normativa, che consente l’utilizzo di schemi contrattuali flessibili, si preoccupa di approntare un’efficace tutela reciproca dei contraenti sul piano civilistico, mentre non si occupa dei profili fiscali dei contratti in esame (né riproduce le disposizioni già introdotte ai fini dell’imposte sui redditi e dell’Irap per la locazione con riscatto a termine degli alloggi sociali, di cui all’art. 8 del d.l. 28 marzo 2014 n. 47, convertito in l. 23 maggio 2014, n. 80, su cui v. CNN Notizie del 31 marzo 2014, segnalazione novità normativa, Piano Casa2014: il decreto legge in G.U. – Le norme di interesse notarile).

In proposito si deve ritenere, con specifico riguardo al problema della duplicazione di imposte, che il legislatore abbia fatto riferimento al regime fiscale di cui alla soluzione interpretativa prospettata dall’Agenzia delle entrate in una consulenza giuridica del 13 febbraio 2014 all’ordine dei dottori commercialisti di Monza (non pubblicata però sul sito dell’Agenzia stessa sotto forma di risoluzione) per una fattispecie riguardante un contratto di locazione collegato ad un’opzione di acquisto, ove si prevede che nel caso di esercizio del diritto di acquisto il corrispettivo stabilito per la vendita sia decurtato degli acconti sul prezzo e dei canoni di locazione pagati fino al momento dell’opzione.

Alla luce di quanto sopra, appare coerente che la disposizione di cui al comma 1 faccia riferimento, nella descrizione della fattispecie, al “diritto per il conduttore” di acquistare l’immobile.


DISCIPLINA DELL’ART. 23

Venendo ad un primo esame degli aspetti sostanziali, in attesa dei successivi approfondimenti da parte del settore studi di questo Consiglio Nazionale, va preventivamente sottolineato come elemento qualificante della nuova disciplina sia l’elevato livello di tutela garantito dalla trascrizione nei registri immobiliari e dalle disposizioni dettate riguardo all’eventuale fallimento di una delle parti.

Ciò detto, una prima notazione va fatta riguardo all’individuazione delle fattispecie interessate dalla disciplina in oggetto: la nuova disposizione normativa ha ad oggetto “i contratti, diversi dalla locazione finanziaria, che prevedono l’immediata concessione del godimento di un immobile, con diritto per il conduttore di acquistarlo entro un termine determinato imputando al corrispettivo del trasferimento la parte del canone indicata dal contratto”.

Si ravvisano, dunque, le due fasi caratterizzanti le tipologie di operazioni emerse dalla prassi: quella del conseguimento del godimento dell’immobile a fronte del pagamento di un canone e quella consistente nel trasferimento dell’immobile con imputazione al prezzo della parte del canone indicata nel contratto.

Come già sottolineato, e salvi ulteriori approfondimenti con riguardo alle ipotesi in cui si configuri un obbligo relativo al trasferimento, si osserva che la disposizione di cui al comma 1 fa riferimento, nella descrizione della fattispecie, al “diritto per il conduttore” di acquistare l’immobile. Nessuna indicazione specifica è prevista con riguardo alla qualità delle parti contraenti (che potranno essere privati, imprese, professionisti, ecc…) ed alla natura dell’immobile.


Per le note complete del Notariato sul rent to buy [clicca qui]


ONERI CONDOMINIALI: NO ALLA COMPENSAZIONE

[A cura di: avv. Paolo Ribero]

Non è infrequente che gli amministratori, sollecitando il pagamento delle spese condominiali, si vedano avanzare da parte dei condòmini contestazioni relative al mancato corretto utilizzo di un servizio comune o al risarcimento danni cagionati – a dire del condomino – da una parte comune, e che quindi i condòmini condizionino il pagamento all’effettuazione di determinate opere o pongano in compensazione il credito derivante (a loro dire) dal risarcimento dei danni patiti (ad esempio il condomino lamenta un’infiltrazione d’acqua da cui è derivato un danno nel proprio soffitto e quindi decide, unilateralmente, di decurtare dall’importo dovuto per le spese condominiali il rimborso del danno quantificato o sostiene che il suo appartamento non sia stato sufficientemente riscaldato è omette di versare le rate di riscaldamento).

Tale comportamento è illegittimo.

Il codice civile sancisce l’obbligo (art. 1123 c.c.) per ciascun condomino di partecipare pro quota alle spese di conservazione e godimento delle parti comuni, per la prestazione dei servizi e per le innovazioni deliberate. Tale obbligo è stato ritenuto dalla giurisprudenza un’obbligazione propter rem ovvero un obbligo collegato alla proprietà della cosa. 

Pertanto, a fronte di un decreto ingiuntivo richiesto dall’amministratore con cui si ingiunge al condomino di versare le spese approvate, il condomino stesso non può eccepire compensazione alcuna.

Le delibere assembleari, infatti, regolarmente approvate e non impugnate – come riconosciuto pacificamente dalla giurisprudenza – costituiscono titolo incontestabile. E ciò è conseguenza della volontà del legislatore di garantire il principio della certezza della gestione condominiale al fine di evitare contestazioni in ogni tempo. La delibera costituisce infatti titolo di credito del condominio e prova l’esistenza di tale credito e non solo legittima la concessione del decreto ingiuntivo, ma determina anche la condanna del condomino a pagare le somme nel giudizio di opposizione che quest’ultimo proponga contro tale decreto; giudizio di opposizione il cui ambito è ristretto alla verifica dell’esistenza e della efficacia della delibera assembleare di approvazione della spesa e del relativo riparto (Cass. 15/2/11 n. 3704, Cass. 2387/2003, Cass. 7261/2002 ecc).

Chiaramente è stato affermato: “Il giudizio di opposizione da parte del condomino ingiunto potrà riguardare unicamente la sussistenza del debito, e la documentazione posta a fondamento dell’ingiunzione” (Cass. Civ. 8/8/2000; Trib. Catania 16/1/2006).

In sostanza, l’opponente in questo giudizio dovrà provare ad esempio di aver provveduto al pagamento ma non anche rivendicare un risarcimento danni estraneo al giudizio o porre in compensazione di debiti pacifici e non contestati eventuali crediti non dimostrati né in punto anin punto quantum, quindi né liquidi né tantomeno esigibili. 

In conclusione: il pagamento delle spese condominiali e la richiesta al condominio di risarcimento danni seguono binari autonomi. Pertanto il condomino dovrà provvedere al versamento delle proprie rate condominiali salvo poi il diritto ad agire contro il condominio per il risarcimento di eventuali danni che si assumono patiti.

LA GESTIONE DEL CONDOMINIO ALBERGO

A cura di: avv. Ermenegildo Mario Appiano – consulente Alac Torino]

Soprattutto nelle località turistiche, tra cui quelle liguri, accade che i piani regolatori abbiano consentito, ovvero consentano tutt’oggi, la costruzione di edifici sottoponendoli al vincolo alberghiero per molti anni. In tali circostanze, se il nuovo edificio appartiene ad un unico proprietario (persona fisica o società, poco importa) che lo destina a detta attività, non sorgono particolari problemi, salvo quelli normalmente legati a tale tipologia di azienda. Al contrario, essi si pongono qualora la proprietà sull’edificio sottoposto a siffatto vincolo viene frazionata tra diversi soggetti, ed alcuni di essi poi affidano – mediante la stipulazione di specifici contratti – la disponibilità delle loro unità immobiliari (possedute in proprietà esclusiva, quindi nel nostro caso non si tratta della cosiddetta “multiproprietà”, anche se per certi aspetti la ricorda) a chi di loro esercita effettivamente l’attività alberghiera.

In altre parole: mentre i primi si limitano a svolgere il ruolo di “meri” proprietari sui loro rispettivi appartamenti, che magari utilizzano personalmente per alcuni periodi di ogni anno, il secondo è colui che da solo gestisce l’attività ricettiva, utilizzando all’uopo sia le proprie unità immobiliari, sia quelle messe a disposizione dagli altri proprietari.

Per i “meri” proprietari, il lato positivo della situazione è che le rispettive unità immobiliari si trovano inserite in un contesto economico che – se tutto funziona – dovrebbero “automaticamente” produrre reddito nei periodi in cui esse vengono messe a disposizione per l’attività alberghiera, evitando così loro la preoccupazione di trovare volta per volta un conduttore, come invece avviene quando ci si limita ad affittare stagionalmente un alloggio a fini turistici. Per i periodi in cui, invece, l’appartamento  viene goduto personalmente, per loro il vantaggio è quello di avere a propria disposizione un servizio di natura alberghiera, le cui prestazioni variano a seconda del livello di lusso offerto dall’intera struttura.

Tuttavia, i “meri” proprietari – non essendo soci nell’esercizio della attività imprenditoriale – non ricevono solitamente né un compenso inteso come percentuale dell’eventuale reddito da essa prodotto, né un canone di locazione vero e proprio (che verrebbe corrisposto “vuoto per pieno”), bensì una somma calcolata in base al numero di giorni in cui la loro unità immobiliare è stata effettivamente occupata dai clienti dell’albergo.

Come sempre, però, esiste l’altro lato della medaglia. Le strutture in questione hanno sicuramente costi elevati, solitamente superiori a quelli di un puro condominio, per quanto dotato di vari servizi. Tanto per capirci: una cosa è il portierato affidato ad un custode, altra è la “concierge” di un albergo, che deve funzionare in continuazione, rendendo necessario l’impiego di vario personale su più turni di lavoro. Una cosa è il servizio di pulizia delle parti comuni, che – per quanto meticoloso – difficilmente è paragonabile a quello richiesto ad un albergo, ove le camere o le “suites” vanno riviste giornalmente.

Il punto dolente diviene allora la ripartizione delle spese: quali gravano sulla sola attività alberghiera in senso stretto e quali invece competono pro-quota ai singoli proprietari, in quanto spese relative alle parti comuni della struttura? In che misura dividere poi quelle che stanno a cavallo tra le due precedenti categorie? 

Per risolvere la situazione, allora, si tende a pattuire specifici criteri di ripartizione dei costi di gestione, che divengono parte integrante degli atti di acquisto nel momento genetico dell’intera operazione. Inoltre, il regolamento contrattuale – che viene parimenti accettato in tali circostanze – tende a prevedere che ad amministrare l’edificio in condominio sia lo stesso soggetto che cura la gestione dell’attività alberghiera. Egli, infatti, difficilmente potrebbe assicurarsi in altro modo tale potere: anche disponendo la maggioranza millesimale per decidere al riguardo, sarebbe comunque quasi sempre privo di quella per teste, controllata invece dai “meri” proprietari (basta infatti che questi ultimi siano almeno due).

In effetti, altro punto dolente è individuare chi gestisce. A rigore, una cosa è organizzare imprenditorialmente l’attività alberghiera, altra è quella di amministrare la cosa comune. Almeno a prima vista. Tuttavia, le due gestioni presentano vari punti di sovrapposizione, poiché la struttura ricettiva è un tutt’uno. Più si lesina sulla manutenzione, minori costi insorgono, ma l’immagine dell’albergo si deteriora. Per contro, maggiormente si cura quest’ultima ed il livello di servizio, più l’attività imprenditoriale diviene attrattiva per i propri clienti. 

In via di massima, la redditività dell’impresa sussiste sino a quando i ricavi risultano superiori ai costi: nella fattispecie, però, il risultato economico può variare – anche di molto – a seconda di quanto questi ultimi vengono fatti gravare sui “meri” proprietari, per effetto dei criteri contrattuali adottati per la loro ripartizione.

Nel momento in cui questi ultimi soggetti vedono scarsamente remunerate le loro unità immobiliari, da un canto, e si trovano a sostenere alte spese di “condominio”, dall’altro, essi – a torto o ragione – provano la spiacevole sensazione di trovarsi in una sorta di trappola, ove l’utile economico del loro investimento cade sostanzialmente nelle mani di qualcun altro, che controlla la gestione e ne scarica su di loro buona parte dei costi. Ancora peggio se, in momenti di ristrettezze, insorge il sospetto che vengano impiegate con preferenza le unità immobiliari appartenenti a chi gestisce l’attività alberghiera, lasciando alle altre il ruolo di mere riserve.

Ecco in estrema sintesi le principali ragioni di conflitto in un simile contesto.

Al riguardo, la Cassazione ha ora indicato – mediante la sentenza 13011/2013 – alcuni principi in materia, che vanno ad incidere alquanto profondamente sulle pattuizioni contrattuali che regolavano le situazioni in esame, consentendo così ai “meri” proprietari di recuperare buona parte degli svantaggi cui si vedevano sottoposti per effetto dei vincoli contrattuali in essere. 

In sostanza, la Suprema Corte ha fatto prevalere quanto disposto dalla legge in tema di condominio degli edifici rispetto alle previsioni contrattuali stipulate fra le parti in materia di ripartizione dei costi di gestione e di nomina dell’amministratore dell’edificio soggetto al vincolo alberghiero.

Per quanto concerne la designazione dell’amministratore, la Cassazione ha ritenuto che si tratta di una decisione non sottraibile alla competenza dell’assemblea. Ciò in quanto “l’art. 1138 c.c., comma 4, dichiara espressamente non derogabile da parte del regolamento condominiale la disposizione posta dall’art. 1129, la quale riserva alla sola assemblea la nomina dell’amministratore e stabilisce la durata del suo incarico in un anno. Ne deriva la nullità della clausola del regolamento condominale che riserva ad un determinato soggetto, per un tempo indeterminato, la carica di amministratore del condominio, sottraendo il relativo potere di nomina e di revoca all’assemblea. Né appare condivisibile l’affermazione della Corte di merito che ha giustificato tale discostamento in ragione dell’atipicità del rapporto esistente tra le parti, tenuto conto che la possibilità di una diversa disciplina è espressamente esclusa dalla legge, nonché della necessità, già rilevata, di tenere distinta, nel caso concreto, la sfera dei rapporti attinenti al condominio dalla gestione dell’impresa alberghiera”.

Quanto ai criteri di ripartizione delle spese comuni pattuiti contrattualmente, la Cassazione ha sancito che essi vadano corretti nel momento stesso in cui non riflettono la realtà condominiale, applicandosi i principi per la rettificazione delle tabelle millesimali (di cui all’art. 69 delle disposizioni di attuazione del codice civile) e negandosi in tal modo rilevanza alla loro origine contrattuale, come invece aveva ritenuto la Corte d’Appello di Genova. Secondo quest’ultima, infatti, avrebbe dovuto prevalere la natura contrattuale delle tabelle di ripartizione controverse, per cui l’unico – difficile – rimedio a disposizione dei “meri” proprietari onde cercare di sottrarvisi sarebbe stato quello di esperire l’azione di annullamento del contratto per errore, e non quella prevista per la rettificazione delle tabelle stesse (molto più agevole sul piano concreto). 

Tuttavia, la decisione assunta dalla Corte d’Appello di Genova è stata rigettata dalla Cassazione, “apparendo in contrasto con l’orientamento di questa Corte, che invece ammette i singoli condòmini, anche nel caso in cui l’approvazione delle tabelle avvenga mediante la sua predisposizione da parte dell’unico originario proprietario e l’accettazione da parte dei successivi acquirenti delle singole unità immobiliari, ovvero mediante accordo unanime di tutti i condòmini, ad esperire l’azione di revisione prevista dall’art. 69 disp. att. c.c., laddove essi intendano, come normalmente avviene, non già modificare la portata dei loro obblighi di partecipazione, ma determinarne quantitativamente la misura; ciò in quanto l’errore che giustifica la revisione non coincide in tal caso con l’errore quale vizio del consenso, di cui all’art. 1428 c.c. e ss., ma si fonda sull’assunto della obiettiva divergenza tra il valore effettivo delle singole unità immobiliari ed il valore proporzionale ad esse attribuito, situazione emendabile con il rimedio previsto dall’art. 69 citato (Cass. n. 7300 del 2010). Il riconoscimento della stessa natura contrattuale dell’atto che approva le tabelle millesimali allegate al regolamento condominale è stata del resto oggetto di ripensamento da parte di questa Corte, la quale ha avuto modo di precisare che le tabelle, in ragione della loro funzione, che è quella di stabilire i parametri degli obblighi di contribuzione dei singoli condòmini alle spese, determinati sulla base di una valutazione tecnica delle singole quote di proprietà, trova il suo momento genetico non in un atto di natura negoziale, ma in un atto deliberativo dell’assemblea dei condòmini, sottoposto alla maggioranza prescritta dall’art. 1136 c.c., comma 2 (Cass. S.U. n. 18477 del 2010)”. 

Restituendo potere ai “meri” proprietari in merito alla nomina dell’amministratore dell’edificio in condominio, sebbene assoggettato al vincolo alberghiero, e consentendo loro di sottoporre a revisione i criteri di ripartizione delle spese comuni, quando non corrispondenti alla reale situazione del fabbricato, questi principi dovrebbero allora evitare l’insorgere stesso delle varie contestazioni (e del relativo contenzioso) che detti soggetti – appellandosi ai principi in materia di conflitto di interesse – muovevano avverso l’operato di chi gestiva la cosa comune per effetto delle pattuizioni contrattuali ora private di effetto.

Al riguardo, con la sentenza in esame la Cassazione ha comunque ricordato che la presenza di un conflitto di interesse “va accertata non in astratto, ma in concreto, richiedendo la verifica di una sicura divergenza tra l’interesse del singolo condomino e quello comune (Cass. n. 10754 del 2011; Cass. n. 3944 del 2002). Ne deriva che al fine di determinare l’invalidità del deliberato assembleare adottato con il voto determinante di colui che si assume persegua un interesse in conflitto con quello comune, non è sufficiente allegare che questi si trovi in una situazione astrattamente contrastante, ma è necessario dimostrare che egli abbia, in concreto, perseguito altro interesse, incompatibile con quello collettivo”. Dunque, si tratta di dare una prova specifica e precisa sul conflitto d’interesse che viene eccepito.

La giurisprudenza in esame impone dunque di riconsiderare tutte le situazioni similari al caso di specie, rimettendo così in gioco molti rapporti economici che sembravano consolidati e ritenuti al riparo da censura. Ci si domanda poi se essa abbia anche modo di influire in materia di multiproprietà, ove vigono peraltro le tutele previste dalla normativa comunitaria (direttiva 2008/122/CE, che ha sostituito la precedente 94/47/CE).