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CRONACA FLASH

Gli svaligiano l’alloggio 

e lo chiudono in bagno

In provincia di Lucca, un uomo, dopo essere rientrato a tarda sera nella propria abitazione, ha scoperto due ladri che vi avevano fatto irruzione per svaligiarla. I due malviventi, dopo avergli strappato l’orologio dal polso, lo hanno rinchiuso nel bagno. Poi sono scappati portando via anche due vassoi d’argento e un cellulare. Riuscito a liberarsi, il malcapitato padrone di casa ha subito avvertito i carabinieri, ma i banditi avevano già fatto perdere le proprie tracce.


Chiama i carabinieri,

ma ha droga in casa

Aveva chiamato i Carabinieri per denunciare un furto in casa. I militari, una volta arrivati nell’appartamento per fare il sopralluogo, sono stati incuriositi da un forte odore di erba. A quel punto, è cominciato un controllo approfondito dell’abitazione che ha permesso di trovare e sequestrare 4 piantine di marijuana più 15 rami in essiccazione dal peso complessivo di 20 grammi e 6,2 grammi di hashish, suddivisi in dosi pronte per lo spaccio. Così l’uomo, un agente assicuratore 40enne residente in provincia di Rimini, è stato arrestato. 



Incendio nell’alloggio

A morire è un cane

I fumi dell’incendio sono stati fatali e per lui non c’è stato nulla da fare. È il caso della morte per asfissia di un cagnolino, che ha perso la vita a causa di un rogo divampato al primo piano di un appartamento sito nel quartiere napoletano di Posillipo. Il cane si trovava proprio nella stanza in cui è scattata la scintilla che ha generato le fiamme. Intervenuti per sedare le fiamme, i vigili del fuoco hanno dichiarato inagibili due camere: quella interessata dall’incendio e quella di un appartamento al piano superiore. 


Anziani rapinati in casa

È caccia alla banda

Le forze dell’ordine sono sulle tracce di una banda di malviventi che ha terrorizzato una coppia di anziani in provincia di Cuneo. Quattro rapinatori hanno fatto irruzione nella casa dei coniugi, hanno li hanno malmenati e si sono fatti consegnare oggetti in oro e contanti. Soltanto dopo la fuga dei banditi gli anziani sono riusciti a dare l’allarme e poi sono stati trasportati in ospedale. 


Animali abbandonati in casa

Proprietaria denunciata 

Maltrattamenti nei confronti degli animali (tre cani e quattro gatti) che teneva in casa. È questa l’accusa della quale dovrà rispondere una donna di 58 anni, residente in provincia di Perugia. I carabinieri, entrati nell’alloggio della donna insieme a tecnici dell’Asl, vigili del fuoco e polizia municipale, si sono trovati di fronte a condizioni igieniche definite disastrose. Pare infatti che la proprietaria di casa fosse da giorni lontana dalla cittadina umbra, e che avesse abbandonando a se stessi i cani e i gatti. Gli animali sono stati affidati a strutture idonee. La donna è stata denunciata. 

UN PREGIO DELLA RIFORMA DEL CONDOMINIO? HA RESO OGGETTIVI I CASI DI REVOCA DELL’AMMINISTRATORE

[A cura di: avv.Nunzio Costa – pres. Acap]


Spesso ci concentriamo sulle classiche responsabilità dell’amministratore: la tenuta dei conti, dei registri e la trasparenza nella contabilità, dimenticando le ipotesi più gravi, ossia quelle che possono portare alla sua revoca, ovvero anche a qualcosa d’altro. Mi riferisco a quelle ipotesi di revoca, non tassative, ma ormai codificate, che il legislatore ha voluto inserire nel codice a titolo esemplificativo e non esaustivo.

Tuttavia quelle ipotesi recate dall’art. 1129 c.c. altro non sono che la codificazione di un processo di stratificazione giuridica durata circa 70 anni. Orbene nella inerzia del Legislatore, incapace di modificare gli istituti giuridici all’evoluzione sociale, la Giurisprudenza ha interpretato le leggi esistenti, tentando di adeguarli alle mutate realtà sociali. Sicché nel 2012, quando si è trattato di infilare la tanto agognata riforma tra una legislatura in declino ed una nuova appena nascente, i tecnici della produzione normativa hanno fatto l’unica cosa plausibile: hanno raccolto nella novella tutti i principi giurisprudenziali pacifici ed ormai sedimentati ed acquisiti.

Questa scelta reca sensibili conseguenze, prima delle quali la immodificabilità delle cause di revoca. Ai sensi dell’art. 101 della Costituzione, il giudice è soggetto soltanto alle legge. È una norma di garanzia a tutela della indipendenza della Magistratura e significa che alcun potere dello Stato può gerarchicamente sovrapporsi al singolo magistrato che in quel momento sta affrontando il caso che gli è stato sottoposto. Nemmeno lo stesso capo dell’ufficio giudiziario in cui lavora. Ma è anche una norma a tutela del cittadino, che ha diritto a vedere trattato il suo caso secondo le norme esistenti al tempo del giudizio, con l’impossibilità da parte del magistrato di riferirsi a principi ed argomentazioni equitative o diverse dalla legge applicabile.

Quindi, prima della riforma potevamo portare alla attenzione del magistrato un caso di revoca e far decidere allo stesso se l’amministratore avesse o meno commesso quelle gravi irregolarità paventate dal Legislatore. Questi avrebbe deciso in base al concetto di gravità espresso dal comune sentire ed alle interpretazioni giurisprudenziali nel frattempo stratificate. In ogni caso, trattandosi di un Paese, il nostro, in cui la singola sentenza vale solo tra le parti che la hanno stimolata, le sentenze stesse non sono mai obbligatorie per il magistrato decidente, che nel caso di specie potrebbe ritenere quella “grave irregolarità, non tanto grave” perché, per esempio, l’amministratore nelle more ha sanato la situazione, ovvero non si trova più in condizione di irregolarità.

Ebbene, se dobbiamo prendere quanto c’è di buono dalla Riforma, questa è una cosa dalla quale attingere a piene mani. L’avere codificato le ipotesi di grave irregolarità significa avere oggettivizzato la causa di revoca e la conseguente responsabilità dell’amministratore: il giudice non avrà più la possibilità di valutare il grado di colpa dell’amministratore, né il grado di sanzione e quindi la sua responsabilità. Dovrà semplicemente applicare la legge, verificare se il comportamento tenuto rientra tra quelli codificati, se è stato realmente commesso e, se la risposta è in entrambi i casi positiva, dovrà applicare necessariamente la sanzione legalmente prevista, anche nell’ipotesi, probabile, in cui l’amministratore, in corso di giudizio, abbia tentato di mitigare la sua colpa con un intervento urgente.

Per rendere chiaro il concetto facciamo un esempio: condominio in condizioni di sicurezza precaria. Il condomino chiede conto all’amministratore e chiede la convocazione di una assemblea. In ogni caso l’amministratore si dimostra inerte. Il condomino aziona la revoca. A questo punto l’amministratore tenta di riparare alla sua colpa ed ordina un intervento urgente postumo alla notifica, di ripristino delle condizioni di sicurezza. Al momento della discussione innanzi al Collegio la situazione è modificata e ripristinata. Orbene tale atteggiamento tenuto dall’amministratore non fa altro che confermare l’esistenza della causa di responsabilità che ha determinato la richiesta di revoca e quindi l’applicazione della sanzione unica possibile.

Altra conseguenza derivante dalla codificazione di alcune ipotesi di revoca è la valorizzazione delle situazioni di grave irregolarità, con la conseguente ineluttabilità nella applicazione della sanzione: il giudice dovrà sempre e solo verificare se si sia verificata una delle ipotesi previste, anche se tale ipotesi si sia avverata nelle more del giudizio di revoca, ovvero nelle more siano emersi nuovi profili di irregolarità.

Ancora una volta, l’esempio aiuta nella comprensione: Il condomino chiede la documentazione contabile e non la ottiene; non potendo rilevare nulla opta per altri e diversi motivi di revoca. Nelle more del giudizio emerge che l’amministratore ha effettuato pagamenti senza usare il conto corrente specifico del condominio, ma effettuando il pagamento con bonifico per contanti presso la banca dell’appaltatore. Ebbene tale ipotesi contravviene il 1129 comma 7, secondo cui: “L’amministratore è obbligato a far transitare le somme ricevute a qualunque titolo dai condomini o da terzi, nonché quelle a qualsiasi titolo erogate per conto del condominio, su uno specifico conto corrente, postale o bancario, intestato al condominio”. Tuttavia si tratta di una causa di revoca che il condomino non aveva portato alla attenzione del magistrato. Ebbene, il codice ha valorizzato le cause di revoca, indicando anche un procedimento molto snello, ossia quello del ricorso al Collegio, privo di eccessive formalità, dimostrando di porre maggiore attenzione alla sussistenza della grave irregolarità piuttosto che al principio della domanda. Pertanto, se nel corso del giudizio, si ravvisassero nuove e diverse cause di irregolarità e le stesse venissero contestate all’amministratore, il giudice dovrebbe comunque valutarle e l’amministratore non potrebbe sottrarsi al contraddittorio.

Compravendita immobiliare on line: il notaio non ha responsabilità sulle imposte non versate

In caso di registrazione notarile di compravendita di immobili, è il notaio a versare, ma il cliente a pagare. In ogni caso ricade sulle parti che hanno stipulato il contratto e non sul professionista rogante la responsabilità per l’eventuale mancata corresponsione delle imposte.
È quanto disposto dalla sesta sezione civile della Corte di Cassazione, con l’ordinanza 5016 dello scorso 12 marzo. 
Come sintetizza l’Agenzia delle Entrate per mezzo del suo organo ufficiale di informazione, “la notificazione di un avviso di liquidazione per l’integrazione dell’imposta di registro, ipotecaria e catastale, relativa ad una compravendita registrata telematicamente dal notaio rogante, che in tale veste abbia provveduto all’autoliquidazione e al relativo versamento, vale solo a costituirlo responsabile dell’imposta, tenuto all’integrazione del versamento, e non anche ad incidere sul principio di cui all’art. 57 del DPR n. 131/1986, in base al quale i soggetti obbligati al pagamento dell’imposta restano le parti sostanziali dell’atto di compravendita.

ACQUIRENTE DI IMMOBILE, PERDITA DEI BENEFICI FISCALI E CAUSE DI FORZA MAGGIORE

[A cura di: Annalisa Lo Parco (FiscoOggi) – Agenzia delle Entrate]


In tema di agevolazioni fiscali previste dall’articolo 5 della legge 168/1982, i benefici in favore dell’acquirente dell’immobile inserito in un piano di recupero di iniziativa pubblica o privata convenzionato possono essere conservati, a condizione che il contribuente realizzi i lavori entro il termine triennale di decadenza previsto per l’esercizio del potere di accertamento dell’ufficio.

Di conseguenza, detto termine decadenziale entro il quale può essere emesso l’avviso di liquidazione in rettifica, inizia a decorre, al massimo, dalla scadenza del triennio dalla registrazione dell’atto.

Questo il principio di diritto desumibile dall’ordinanza della Cassazione n. 3152 del 17 febbraio 2015.

Nella decisione, peraltro, viene precisato il concetto di “forza maggiore”, intesa come “un’energia esterna, idonea a costituire impedimento forzoso della condotta imposta dalla legge”.


I FATTI DI CAUSA

La vicenda trae origine da un avviso di liquidazione per imposte di registro, ipotecarie e catastali conseguente alla revoca dell’agevolazione ex articolo 5 della legge 168/1982, relativamente a un immobile dichiarato soggetto a piano di recupero. L’ufficio aveva riscontrato che, nonostante fossero decorsi tre anni dalla data di acquisto, la società non aveva effettuato i lavori di recupero immobiliare.

La parte impugnava l’avviso con ricorso accolto dalla Ct di I grado di Bolzano.

In II grado, la Commissione tributaria respingeva l’appello dell’ufficio, evidenziando che le ragioni dedotte dal contribuente apparivano valide sia in considerazione del fatto che il ritardo nell’esecuzione dei lavori appariva pienamente giustificato sia perché il termine decadenziale previsto dall’articolo 76, comma 2, del Dpr 131/1986, presupposto dell’avviso di liquidazione in rettifica emesso dall’Amministrazione finanziaria, non poteva estendersi anche al contribuente ai fini dell’integrazione della sua decadenza dal diritto, dovendosi invece applicare al caso l’ordinario termine decennale di prescrizione, ai sensi dell’articolo 2946 del codice civile.

Contro quest’ultima pronuncia l’Agenzia delle Entrate proponeva ricorso per cassazione.


IL GIUDIZIO DELLA CASSAZIONE

Fra i motivi di doglianza, l’ufficio denunciava la violazione o falsa applicazione dell’articolo 5 della legge 168/1982 e dell’articolo 76 del Dpr 131/1986, per avere il giudice di merito ritenuto non applicabile, nella specie, il termine di decadenza fissato dall’articolo 76, ma l’articolo 2946 cc, dettato in materia di prescrizione, nonché il vizio di motivazione della sentenza nella parte in cui la Ctr aveva attribuito il carattere di “forza maggiore” alla circostanza che l’attuazione del progetto di recupero va sottoposto al vaglio della Pubblica amministrazione.

I giudici di legittimità, decidendo in camera di consiglio per manifesta fondatezza del ricorso, hanno cassato la sentenza di secondo grado, chiarendo che le agevolazioni tributarie previste dall’articolo 5 della legge 168/1982, in favore dell’acquirente dell’immobile inserito in un piano di recupero di iniziativa pubblica o privata convenzionato, possono essere conservate a condizione che il contribuente realizzi i lavori di restauro entro il termine triennale di decadenza previsto per l’esercizio del potere di accertamento dell’ufficio. “Di conseguenza, deve ritenersi che il detto termine decadenziale dall’azione dell’Ufficio inizi a decorrere dal momento in cui l’intento del contribuente sia rimasto definitivamente ineseguito e quindi – giacché il termine a disposizione del contribuente non potrà essere più ampio di quello in sé previsto per i controlli – al massimo dalla scadenza del triennio dalla registrazione dell’atto (Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 13703 del 30/05/2013)”.

La Corte suprema ha, inoltre, precisato che i giudici di merito, nel richiamare genericamente la prova fornita dalla parte di “essersi data da fare dall’inizio e senza soluzione di continuità… per raggiungere lo scopo prefisso”, non solo non hanno identificato correttamente il concetto di “causa di forza maggiore” idonea a giustificare la deroga al termine decadenziale di legge, ma non hanno idoneamente argomentato in ordine alle fonti di prova che hanno determinato il proprio convincimento.


OSSERVAZIONI

Ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro e di quelle ipotecarie e catastali in misura fissa, ai sensi dell’articolo 5 della legge 168/1982, è richiesto che, al momento della registrazione, sia dichiarata l’esistenza di due requisiti: uno oggettivo, che consiste nell’inserimento degli immobili nei piani di recupero; uno soggettivo, che consiste nella circostanza che l’acquirente sia uno dei soggetti che attuano il recupero.

La richiesta di agevolazioni, qualora non effettuata nell’atto di acquisto, può essere formulata anche successivamente con un atto integrativo redatto nella stessa forma dell’atto precedente (cfr risoluzione 110/2006). La norma di favore non prevede un termine entro il quale attuare il recupero. Ciò ha generato un contrasto giurisprudenziale.

Una parte minoritaria della giurisprudenza, muovendo dal tenore letterale dell’articolo 5, ha sottolineato come detta disposizione non preveda alcun termine di decadenza per il caso di mancato recupero dell’immobile ed è, quindi, sprovvista di sanzione (Cassazione, sentenza 8480/2009).

Secondo l’orientamento prevalente, invece, la norma, subordinando l’agevolazione fiscale all’esistenza del duplice requisito oggettivo e soggettivo, comporta che il beneficio spetti soltanto quando si realizzano tutti gli elementi che integrano la fattispecie normativa e che l’agevolazione sia correlata all’effettiva attuazione del piano di recupero previsto all’atto del trasferimento dell’immobile (Cassazione, sentenze 11786/2008, 13703/2013).

In particolare, secondo quest’ultima tesi, avallata dall’ordinanza in esame, il contribuente, a pena di decadenza, deve realizzare l’intento dichiarato nell’atto di trasferimento entro il termine triennale previsto per l’esercizio del potere di accertamento dell’ufficio (ex articolo76 del Dpr 131/1986).

In altri termini, il beneficio fiscale richiesto dal contribuente è solo provvisoriamente concesso dalla legge al momento della registrazione dell’atto di trasferimento. Successivamente alla registrazione, la sussistenza dei citati requisiti deve essere accertata dall’ufficio, configurandosi la differenza d’imposta eventualmente recuperata come una specie di imposta complementare (ex articolo 42 del Dpr 131/1986), mentre l’attuazione effettiva del recupero da parte del soggetto che si impegna in tal senso costituisce un evento futuro rispetto alla registrazione.

Ne discende che, ai sensi dell’articolo 2697 del codice civile, è onere del contribuente dimostrare, in seguito alla contestazione dell’ufficio, i fatti che palesino il raggiungimento dello scopo, ovverosia la effettiva realizzazione dell’intento dichiarato nell’atto, perché tale intento rappresenta un elemento costitutivo per il conseguimento del beneficio fiscale richiesto.

Il contribuente che non abbia attuato il recupero entro il predetto termine non perde, tuttavia, il diritto ai benefici, qualora provi che il superamento del termine non è dipeso da fatti a lui imputabili.

Sulla questione, però, la giurisprudenza di legittimità non è unanime.

Secondo un primo orientamento, il contribuente non perde i benefici fiscali nell’ipotesi in cui il superamento del termine è imputabile agli uffici competenti nel rilascio della necessaria documentazione amministrativa, gravando in tal caso sulla parte l’ulteriore onere probatorio di aver operato con adeguata diligenza e tempestività allo scopo di conseguire la certificazione in tempo utile (cfr Cassazione, sentenza 20259/2010).

Nella ordinanza in esame, invece, la Corte suprema ha ribaltato l’orientamento, ritenendo che la causa di forza maggiore idonea a superare il termine decadenziale di legge “non può riposare in una semplice mancanza di negligenza, ma deve invece consistere in un’energia esterna, idonea a costituire impedimento forzoso della condotta imposta dalla legge”. 

CRONACA FLASH DALLA CASA E DAL CONDOMINIO

Strozzata con cavo elettrico

Marito arrestato

In provincia di Vasto, un uomo di 57 anni è stato arrestato per la morte della compagna di 53 anni, per averla strangolata con un cavo elettrico in un appartamento sito in un centro residenziale dove i due abitavano insieme da tempo. Secondo gli investigatori, si tratterebbe di un omicidio passionale. Dopo il fatto, l’uomo ha cercato aiuto tra i vicini che hanno chiamato il 118 e la polizia, ma la donna era ormai morta. 


Colto da infarto in casa 

E il cane lo azzanna

Scena macabra quella che si sono trovati di fronte i vigili del fuoco e i sanitari del 118 accorsi in un appartamento di Genova: un uomo di 41 anni, sofferente di cuore da tempo, era deceduto nella sua abitazione per via di un malore. E il cane che abitava con lui, spinto probabilmente dalla fame, ha preso a morsi il corpo esanime dell’uomo da ben quattro giorni. A chiamare i soccorritori, il padre dell’uomo, che non sentiva il figlio ormai da giorni. All’arrivo di medici e pompieri, la tragica scoperta. 


64 enne morta in casa

Trovata nella doccia

Una donna di 64 anni è stata trovata deceduta nel suo appartamento a Brescia. Dai primi accertamenti risulterebbe morta per cause naturali. Da giorni i vicini di casa non avevano più sue notizie; l’ultima persona a vederla era stata il barista, il quale insospettito, ha deciso di chiamare i vigili del fuoco e i carabinieri: la 64enne, infatti, non rispondeva più al telefono. Il corpo senza vita della donna è stato trovato nella doccia. La causa del decesso sarà stabilita dall’autopsia. 


“Ho ferito mia moglie”,

anziano si costituisce

In provincia di Novara, una lite casalinga si è trasformata in tragedia: una donna di 81 anni è stata accoltellata dal marito, di due anni più vecchio, ed è ricoverata in gravissime condizioni all’ospedale. L’uomo ha colpito la donna al collo ed al torace. Poi ha chiamato i soccorsi e le forze dell’ordine, e si è costituito.


Spara col fucile ai ladri 

Ferisce la vicina di casa

In provincia di Alessandria una donna è stata ferita al volto da alcuni colpi di fucile a pallini sparati dal vicino di casa, il quale aveva sorpreso i ladri nella sua villa. L’uomo, che detiene regolarmente il porto d’armi, era in paese con la moglie ed è rientrato subito a casa quando sul cellulare è comparso il messaggio che era scattato l’allarme. Quindi, ha imbracciato il fucile e ha fatto fuoco verso i ladri, in fuga su un’auto, ma ha colpito la donna, uscita in strada a vedere quanto stava accadendo. La vicina, per fortuna, guarirà in pochi giorni.


Gli svaligiano l’alloggio 

e lo chiudono in bagno

In provincia di Lucca, un uomo, dopo essere rientrato a tarda sera nella propria abitazione, ha scoperto due ladri che avevano fatto irruzione per svaligiare l’alloggio. I due malviventi, dopo avergli strappato l’orologio dal polso, lo hanno rinchiuso nel bagno. Poi sono scappati portando via anche due vassoi d’argento e un cellulare. Riuscito a liberarsi, il malcapitato padrone di casa ha subito avvertito i carabinieri, ma i banditi avevano già fatto perdere le proprie tracce.

CONTRATTI DI LOCAZIONE: IL DEPOSITO CAUZIONALE TRA DISCIPLINA GIURIDICA E PRASSI

[A cura di: Paolo Ciri – delegato Uppi Spoleto]


L’argomento della cauzione merita di essere riesaminato, alla luce della recente sentenza della Cassazione (3882 del 25/2/2015), la quale, per altro, conferma un orientamento già noto. 

Andiamo per ordine. Per deposito cauzionale intendiamo quella somma che l’inquilino può consegnare al proprietario all’atto della firma del contratto di locazione o affitto. Spesso è chiamato anche “deposito”, “cauzione” o, impropriamente, “caparra”. 

Vediamone anche la funzione giuridica, la quale si può ricavare da una costante giurisprudenza della suprema corte (Cassazione 9442/2010, 14655/2002, 4725/1989):“La funzione del deposito cauzionale è quella di garantire il proprietario del corretto adempimento di tutte le obbligazioni, legali e convenzionali, assunte dal e gravanti sul conduttore”.

Di solito il deposito è un multiplo del canone, ma ciò non è assolutamente necessario, può essere una cifra liberamente determinata, nei limiti sotto illustrati. 

Il proprietario può non richiederlo, ma se lo pretende non può averlo in misura superiore al triplo del canone. Ciò è stabilito dall’art 11 della Legge 392/78, sopravvissuto alle abrogazioni della legge 431/98. L’inquilino che eventualmente abbia versato un deposito di misura superiore potrà richiedere indietro la differenza in qualunque momento. 

È da ricordare che al termine della locazione, al momento della restituzione dell’immobile (delle chiavi), il deposito cauzionale va restituito. Può essere trattenuto se ci sono danni o insoluti, ma solo in presenza di precise condizioni: consenso dell’inquilino, citazione giudiziale per danni o debiti, specifiche ed apposite clausole in contratto. In mancanza ci si trova di fronte ad un credito liquido ed esigibile (da parte dell’inquilino) e ad un credito da accertare (da parte del proprietario) per cui essendo di genere diverso non possono essere compensati. Vedasi l’art. 1243 C.C. o la Cassazione Civile 4725/1989 o, appunto, la recente 3882/2015.

In tema di danni, incidentalmente, ricordiamo che il proprietario è tenuto a tollerare il normale degrado d’uso ( art. 1590 Codice Civile: “il deterioramento o il consumo risultante dall’uso della cosa in conformità del contratto”). Inoltre è interessantissimo e molto logico il concetto introdotto dalla sentenza di Cassazione 6417/1998: se ci sono dei danni (oltre il 1590 C.C.), il conduttore non deve risarcire solo il costo del ripristino, ma anche il valore del canone di locazione per tutto il periodo necessario ad effettuare i lavori. E ciò senza che il proprietario debba provare di aver ricevuto richieste di locazione e di non averle potuto accettare per la indisponibilità dovuta ai lavori. 

Non è possibile trattenere il deposito cauzionale senza corrispondere gli interessi, come spesso si legge nei contratti. Se si inserisce nel contratto questa banale ma illegale furbizia, la clausola si ha per non apposta. Lo stabilisce il sopra citato articolo 11 e lo conferma la Cassazione 979/1995. Peraltro gli interessi da pagare all’inquilino (che è il titolare di quella somma) vanno calcolati al saggio legale. Attualmente lo 0,5 % all’anno. Comunque gli interessi sono dovuti anche se non richiesti.

La legge prevede, poi, che gli interessi legali siano versati all’inquilino ogni anno, eliminando così alla base il problema dell’anatocismo. Ma nella pratica non lo fa praticamente nessuno. Anzi, sono pochi i proprietari che riconoscono gli interessi a fine locazione, limitandosi la maggior parte di loro a restituire quanto avuto. 

Normalmente il deposito cauzionale viene versato al momento della firma. A volte, però, l’inquilino ottiene di versarlo in un momento successivo, o in più rate. Però se poi non lo fa sorge un credito in capo al locatore, ma il contratto resta valido: non può per questo essere sciolto per inadempimento (Tribunale Civile di Brescia, sez. III, 17 febbraio 1992). 

Infine, chi compra un immobile affittato o locato assume ope legis tutti i diritti ed i doveri previsti nel contratto, compreso quello della restituzione del deposito. Per cui alla fine della locazione dovrà dare all’inquilino uscente la somma risultante come deposito dal contratto e, se non già pagati anno per anno, tutti gli interessi. E ciò anche qualora il venditore non abbia consegnato all’acquirente il deposito ricevuto. Per cui, in caso di acquisto di immobile locato o affittato, occorre farsi consegnare il contratto, leggerlo e farsi versare la cauzione che il venditore detiene. Ovviamente poi occorre provvedere alla voltura presso la Agenzia delle Entrate. 

Oltre al deposito cauzionale di somma liquida, vi possono essere altre forme di garanzia: le fideiussioni bancarie, le polizze assicurative, la garanzia del terzo. Senza scendere nel merito del valore giuridico di taluni contratti di questo tipo o nel costo commerciale a volte richiesto, è però il caso di ricordare che in questi casi, se non si è in opzione cedolare, si paga una apposita imposta di registro, che non è lieve: è lo 0,50% del monte canoni del primo periodo. Per esempio, un contratto libero in opzione ordinaria da 500 euro al mese ha una base imponibile di 500 x 48 = 24.000 euro e quindi una imposta, aggiuntiva a quella di registro, di 120 euro. 

Infine, va censurato l’uso ormai invalso tra molti inquilini di non pagare le ultime mensilità, in quanto sono “coperte” dalla cauzione. L’abuso si fonda sulla impossibilità tecnica di ottenere giudizialmente il pagamento delle mensilità insolute prima della conclusione del rapporto locatizio, ormai al termine, in queste fattispecie. Contro questa modalità c’è ben poco da fare. Tanto che alcuni proprietari rinunciano ad esigere il deposito, ritenendo che poi comunque verrà vanificato da questo abuso.

SEPARAZIONE, ASSEGNAZIONE DELLA CASA CONIUGALE E PAGAMENTO DELLE IMPOSTE: COME SI AGISCE?

Separazione, assegnazione della casa coniugale e modalità di pagamento delle imposte sulla relativa proprietà. L’Agenzia delle Entrate torna su un argomento quanto mai d’attualità, data anche la proliferazione di divorzi e altre formule di separazione, e delega come sempre alla rubrica di quesiti pubblicata sulla sua rivista ufficiale “Nuovo FiscoOggi” e curata da Gianfranco Mingione, la risposta ad una domanda indirizzatale da una contribuente.

Nella fattispecie, la donna chiede: “Sono separata da mio marito e ho avuto in assegnazione una sua casa, dove vivo con le nostre figlie. Quali tasse e imposte sono tenuta a versare (con particolare riferimento a Irpef, Imu e Tasi)?

Ecco la risposta dell’Agenzia: “Il diritto del coniuge separato sulla casa già adibita a residenza familiare non configura un diritto reale di abitazione, assimilabile a quello del coniuge superstite (articolo 540 cc), bensì un mero diritto personale di godimento. Il reddito fondiario è pertanto conseguito dal coniuge proprietario, per quanto non assegnatario della casa. Al contrario, non deve dichiarare alcun reddito l’ex coniuge assegnatario, ma non proprietario. Ai fini Imu, invece, l’assegnatario ha la soggettività passiva, a prescindere dalla sua eventuale proprietà sull’immobile; comunque, la casa assegnata al coniuge a seguito di provvedimento del giudice di separazione legale è assimilata all’abitazione principale e beneficia dell’esenzione dal pagamento dell’imposta. Ai fini della Tasi, infine, è il coniuge assegnatario il soggetto tenuto a pagare il tributo, con l’aliquota e la detrazione eventualmente prevista per l’abitazione principale.

LA DISCIPLINA FISCALE E LE DIVERSE TIPOLOGIE DEI CONTRATTI DI LOCAZIONE

[A cura di: Andrea Cartosio – Ist. naz. Tributaristi]


Questa quarta ed ultima guida fiscale di Quotidianodelcondominio.it è mirata a presentare il panorama dei contratti di locazione, al fine di istruire il futuro locatore e guidarlo nella scelta contrattuale.

Il contratto di locazione è la scrittura nella quale il proprietario dell’immobile (di seguito denominato locatore) si impegna a concedere in godimento lo stesso ad un altro soggetto che intende usufruire dell’unità abitativa (di seguito denominato conduttore), il quale dovrà attenersi ad obblighi stabiliti dal contratto di affitto e, qualora l’immobile faccia parte di un complesso condominiale, conformarsi alle regole imposte dal regolamento di condominio. Il Codice Civile regola la locazione degli immobili ma concede forma libera nella sua stipula, cioè non richiede una forma contrattuale specifica e tipica.


I contratti di locazione

Come detto in precedenza, il contratto di locazione è la scrittura che sancisce l’accordo tra le parti, pertanto ogni contratto d’affitto può essere differente in considerazione della durata o della somma spettante a titolo di locazione corrisposta dal conduttore. I contratti di seguito elencati, maggiormente utilizzati in materia locativa, verranno analizzati nelle parti fondamentali che li caratterizzano:

* canone libero, ossia il 4+4 nell’abitativo, 6+6 nel commerciale e 9+9 nell’alberghiero;

* canone concordato, con durata di 3+2 anni;

* locazione ad uso transitorio concessa per un periodo breve da 1 a 18 mesi;

* contratti di tipo promiscuo.

Premesso ciò, benché i contratti appena elencati differiscano tra loro nella durata e applicabilità, in tutti devono necessariamente essere iscritti determinati dati:

* indicazioni anagrafiche dei locatore/i o conduttore/i allegando al suddetto, in fase di registrazione, copia cartacea dei documenti inseriti;

* identificativi catastali dell’unità abitativa oggetto del contratto;

* l’importo del canone richiesto dal locatore, sul quale verranno versate le imposte, sia in cifre che in lettere: inoltre, qualora venga inserito in contratto il rimborso delle spese di amministrazione, le due somme percepite dal locatore dovranno essere specificate onde evitare finiscano in conto canoni e dunque soggette ad imposta;

* l’ammontare del deposito cauzionale che verrà versato dal conduttore al momento della stipula del contratto a fronte di eventuali danni che potrà subire il locatore nel periodo di locazione, da restituirsi qualora non sorgano problematiche al momento della rescissione della locazione maggiorata degli interessi legali. Ancora, dovranno essere stabiliti i termini di rescissione anticipata da parte del conduttore ed i termini di legge perché possa fare lo stesso il locatore;

* iscrizione in contratto dell’Ape (attestato di prestazione energetica), deve essere obbligatoriamente redatto da un professionista abilitato prima della stipula dell’accordo tra le parti. Qualora tale documentazione non fosse presente al momento della firma dello stesso, il locatore e il conduttore sono soggetti entrambe ad una sanzione amministrativa, fermo restando l’obbligo di ottemperare alla stesura dell’Ape entro 45 giorni.


Il canone libero

Questa tipologia di contratto è quella maggiormente utilizzata. La durata varia a seconda dell’immobile locato: qualora fosse a destinazione abitativa, la locazione sarà concessa per quattro anni rinnovabili per gli stessi successivi.

Il contratto di locazione deve avere forma scritta a pena di nullità, contenere tutte le clausole sopra riportate e dovrà essere registrato presso l’Agenzia delle Entrate entro 30 giorni dalla stipula. Tale tipologia di contratto non può essere applicata nei suddetti casi:

* immobili accatastati come A/1, A/8, A/9, per i quali farà fede la disciplina prevista per legge dal codice civile;

* gli alloggi di edilizia popolare pubblica;

* unità non abitative quali garage, cantine, magazzini ecc.;

Nella fattispecie contrattuale, la prima scadenza viene indicata al termine dei primi quattro anni; ciò non manleva le parti, qualora il contratto non fosse in regime di cedolare secca, ad adempiere al pagamento delle imposte annuali (a patto che non venga scelto al momento della stipula di corrisponderle per l’intera durata) presentando il modello RLI con la specifica dell’annualità successiva. Successivamente, al termine dei primi quattro anni, il contratto si rinnova automaticamente per i successivi quattro; in tal caso il locatore dovrà presentare una proroga all’Agenzia delle Entrate attraverso il modello RLI entro il trentesimo giorno dalla scadenza.

Viene concesso dalla legislazione il diritto a recedere dal contratto di locazione sia al locatore, che dovrà rispettare i termini stabiliti dalla giurisprudenza, che al conduttore il quale potrà svincolarsi dal vincolo contrattuale con le metodologie presenti nel suddetto accordo.


Il canone concordato

I contratti di locazione a canone concordato vengono applicati nei Comuni annoverati tra quelli ad alta densità abitativa. La particolarità di questa forma, oltre che nella durata, (3 anni + 2), è nella pattuizione del canone di affitto, poiché esso dovrà rientrare negli accordi territoriali locali stipulati tra il Comune e le associazioni di categoria. Questa tipologia di contratto gode di sconti impositivi per il locatore a fronte del “mancato realizzo” inteso come affitto percepito dovendo sottostare a cifre imposte.


L’uso transitorio

La presente tipologia viene utilizzata quando l’elemento cardine del presente accordo tra le parti è la brevità della locazione. Difatti viene concessa una durata da 1 mese a massimo 18 mesi non rinnovabile; tale transitorietà dell’accordo tra le parti dovrà essere specificata all’interno del contratto. Qualora l’esigenza di locare l’immobile eccedesse i 18 mesi, si dovrà riformulare un nuovo contratto o a canone libero o concordato. Viene espressamente negata dalla legge la possibilità di rinnovo oltre i 18 mesi, pertanto non vi è la necessita delle parti di dare disdetta al termine della locazione poiché il contratto decade automaticamente.


Studenti universitari

Il suddetto contratto viene annoverato tra le particolarità dei contratti di locazione ad uso transitorio, poiché l’immobile locato viene concesso in uso a studenti universitari fuori sede, per un periodo limitato di tempo identificato tra i tre e i trentasei mesi.


L’uso promiscuo

Il contratto di affitto può avere natura promiscua quando l’unità immobiliare locata abbia destinazione diversa in parte dall’abitativo, venga concessa anche per uso ufficio, laboratorio. Tale forma ne detterà anche la durata, poiché l’attività prevalente farà ricadere il contratto in una formula in prevalenza abitativa o commerciale.


La cedolare secca

La cedolare secca è un regime di tassazione opzionale che consente al locatore di applicare al reddito percepito da locazione un’imposta sostitutiva alternativa alla tassazione ordinaria IRPEF, concedendo un ulteriore annullamento dell’imposta di registro e dell’imposta di bollo. Pertanto il reddito percepito da locazione non verrà inglobato nel reddito complessivo del locatore. Tengo a precisare che su tale somma non possono essere applicati oneri deducibili o detrazioni ma il reddito percepito farà comunque cumulo per quanto riguarda benefici fiscali, deduzioni o detrazioni in riferimento ai requisiti reddituali come la detrazione per figli a carico o nella formazione dell’ISEE. La cedolare può essere applicata a contratti già in essere oppure di nuova stesura; una volta aderito all’opzione, essa verrà assimilata alla durata contrattuale con possibilità di rescissione, da comunicarsi all’inquilino a mezzo raccomandata A/R, alla scadenza di ogni singolo anno di contratto.

L’aliquota della cedolare secca è:

*  21%, nel caso di contratto libero;

*  10%, nel caso di contratto concordato.

L’applicazione di tale regime consiste in uno sgravio di imposte per il locatore, ma allo stesso tempo anche il conduttore beneficia di tale scelta poiché il proprietario dell’unità abitativa non potrà aggiornare il canone finché tale opzione risulta in essere ed effettuare gli adeguamenti ISTAT; esso dovrà essere informato di tale adesione al suddetto regime fiscale da parte del locatore a mezzo raccomandata o con iscrizione di apposita clausola nel contratto di locazione, pena la validità dell’opzione cedolare secca.

Tutti i locatori privati possono applicare tale regime. Sono escluse dalla possibilità di opzione: le società di persone (incluse le società semplici), le società di capitali, gli enti commerciali, gli enti non commerciali. L’opzione cedolare secca dovrà essere comunicata in fase di registrazione del contratto all’Agenzia delle Entrate attraverso il modello RLI


L’uso commerciale

Per concludere, ritengo opportuno analizzare la forma di contratto d’affitto di natura commerciale, poiché presenta caratteristiche differenti dalle tipologie fino ad ora analizzate. 

Tale tipologia di locazione fa riferimento alla Legge n. 392 del 1978 a correlazione degli articoli dedicati nel Codice Civile art. 1572 e 2643. La locazione di natura commerciale ha durata minima di sei anni rinnovabile per i successivi sei, mentre presenta una durata di nove anni qualora abbia come oggetto una struttura teatrale o alberghiera. Analogamente ai contratti ad uso abitativo, al termine della prima scadenza, qualora il locatore e il conduttore non comunichino espresso diniego nel proseguire la locazione, si intende rinnovata automaticamente per i successivi anni previsti dalla legislazione. Al contratto potrà essere applicato un aggiornamento ISTAT massimo nella misura del 75%, mentre risulta inapplicabile l’opzione cedolare secca. 

Talvolta può accadere che il conduttore decida di recedere dal contratto d’affitto; ciò è possibile in caso di gravi motivi. La giurisprudenza risulta lacunosa nella loro determinazione, pertanto una sentenza della Corte di Cassazione nel 2012 ha cercato di chiarire la dicitura appena riportata, indicando quali gravi motivazioni la riduzione del fatturato che non permette di adempiere all’obbligazione, oppure il caso in cui il locale non risulti più idoneo per lo svolgimento dell’attività. Il locatore anch’esso analogamente al conduttore, potrà recedere dal contratto di affitto alla prima scadenza (6 anni attività commerciale, 9 anni attività teatrale/alberghiera) nel caso che abbia necessità per sé o per la propria famiglia dell’immobile oggetto di locazione, oppure qualora debba adibirlo come locale a servizio della propria attività.

La comunicazione necessaria per la risoluzione del contratto dovrà essere inviata al conduttore con raccomandata A/R con 12 mesi di preavviso nel commerciale 18 mesi in caso di locazione alberghiera/teatrale.

DISCIPLINA FISCALE DEI CONTRATTI DI RENT TO BUY: LE PRECISAZIONI DEI NOTAI

[Fonte: Consiglio Nazionale del Notariato]


Lo scorso 19 febbraio, con la circolare numero 4 l’Agenzia delle Entrate aveva finalmente fornito i primi chiarimenti ufficiali sul trattamento fiscale da applicare – agli effetti delle imposte dirette e indirette – al rent to buy, cioè ai contratti di godimento in funzione della successiva alienazione di immobili di cui all’art. 23 del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133, convertito con la legge 11 novembre 2014, n. 164.

Ora, sulla questione è intervenuto nuovamente anche il Consiglio Nazionale del Notariato, secondo il quale “la scelta di fondo operata dall’Agenzia delle entrate è stata quella di diversificare il trattamento fiscale da applicare al canone corrisposto dal conduttore in considerazione della funzione (godimento dell’immobile e acconto prezzo) per la quale dette somme sono corrisposte, cioè da un lato assimilando, ai fini fiscali, l’immediata concessione del godimento dell’immobile a fronte del pagamento dei canoni alla locazione, per cui alla quota di canone “imputata” al godimento dell’immobile trovano applicazione le disposizioni previste, sia ai fini delle imposte dirette che delle imposte indirette, per i contratti di locazione; da un altro lato, assimilando ai fini fiscali e fin da subito la quota di canone destinata ad essere imputata al corrispettivo del trasferimento – la quale ad avviso dell’Agenzia ha natura di anticipazione del suddetto corrispettivo – agli acconti sul prezzo della successiva vendita dell’immobile”.

Come precisa quindi il Notariato, in caso di esercizio del diritto di acquisto dell’immobile trova applicazione la normativa prevista, sia ai fini delle imposte dirette che delle imposte indirette, per i trasferimenti immobiliari. Pertanto i chiarimenti contenuti nella circolare si riferiscono in particolare al trattamento fiscale applicabile:

* alla quota di canone corrisposta per il godimento dell’immobile;

* alla quota di canone corrisposta a titolo di anticipazione del corrispettivo;

* al successivo trasferimento dell’immobile;

* alle somme restituite in caso di mancata conclusione del contratto di compravendita.

CONDOMINIO E INFILTRAZIONI DALLA TERRAZZA A LIVELLO: EXCURSUS GIURIDICO SULLE RESPONSABILITÀ

[A cura di: avv. Rodolfo Cusano – presidente onorario A.C.A.P.] 


PREMESSA

A prima vista sembra essere in presenza di un accadimento di facile interpretazione. Così non è.

Spesso in condominio il proprietario dell’immobile sottostante lamenta infiltrazioni provenienti dalla soprastante  terrazza a livello che – come è noto – viene equiparata al lastrico solare qualora assuma anche funzione di copertura (Cass. civ., Sez. II, 27/07/2004, n. 15702; Cass. civ., Sez. II, 15/07/2003, n. 11029).  Di tale fattispecie si è occupata di recente la Corte di Cassazione con la sentenza n. 1674 del 29 gennaio 2015.  La lettura della stessa ha dato l’occasione per diverse considerazioni, esaminiamole una ad una:



1. In giudizio va citato il condominio

In primo luogo vi è da dire che il proprietario dell’appartamento sottostante, danneggiato dalle infiltrazioni, che intenda ottenere il risarcimento dei danni, ovvero l’ordine di esecuzione dei lavori necessari per eliminarne le cause, deve in ogni caso proporre la sua domanda nei confronti del condominio in persona dell’amministratore (Cass. civ., sez. II, sent. 15/07/2002, n. 10233). 

Inoltre, poiché il lastrico solare (equiparato alla terrazza a livello) svolge la funzione di copertura del fabbricato, anche se appartiene in proprietà superficiaria o è attribuito in uso esclusivo ad uno dei condòmini, a provvedere alla sua riparazione o alla sua ricostruzione sono tenuti tutti i condòmini, in concorso con il proprietario superficiario o con il titolare del diritto di uso esclusivo; ed alle relative spese, nonché al risarcimento del danno, essi concorrono secondo le proporzioni stabilite dall’art. 1126 c.c. 

La relativa azione, pertanto, va proposta nei confronti del condominio, in persona dell’amministratore – quale rappresentante di tutti i condòmini obbligati – e non già del proprietario o titolare dell’uso esclusivo del lastrico, il quale può essere chiamato in giudizio a titolo personale soltanto ove frapponga impedimenti all’esecuzione dei lavori di manutenzione o ripristino ed al solo fine di sentirsi inibire comportamenti ostruzionistici od ordinare comportamenti di indispensabile cooperazione, non anche al fine di sentirsi dichiarare tenuto all’esecuzione diretta dei lavori medesimi (Cassazione civile, sez. II, sent. 22/03/2012, n. 4596). 


2. Il condomino danneggiato è terzo e condomino contemporaneamente

Il singolo proprietario che subisce un danno da un bene condominiale ex art. 1117 c.c.  si trova ad assumere la duplice veste di danneggiato dal bene condominiale e di soggetto che deve custodire e riparare lo stesso bene condominiale. In tale duplice veste egli ha da un lato l’obbligo di  partecipare sia alle spese di riparazione che a quelle di risarcimento del danno, e dall’altro di ottenere l’integrale risarcimento dei danni subiti dal proprio cespite immobiliare. È quanto ha stabilito la Corte di Cassazione a Sezioni Unite con la sentenza n. 24406 del 21/11/2011.


3.  Nel caso di infiltrazioni il condominio ne risponde ex art. 2051 c.c.

Ciò posto, va aggiunto che la norma da applicare nel caso di specie è l’art. 2051 c.c. Infatti, ai fini dell’attribuzione della responsabilità prevista dall’art. 2051 cod. civ., sono necessarie e sufficienti una relazione tra la cosa in custodia e l’evento dannoso nonché l’esistenza dell’effettivo potere fisico su di essa da parte del custode, sul quale incombe l’obbligo di vigilarla e di mantenere il controllo onde evitare che produca danni a terzi. Ne consegue che il custode convenuto è onerato di offrire la prova contraria alla presunzione iuris tantum della sua responsabilità mediante la dimostrazione positiva del caso fortuito, cioè del fatto estraneo alla sua sfera di custodia, avente impulso causale autonomo e carattere di imprevedibilità e di assoluta eccezionalità. 

Nell’eventualità della persistenza dell’incertezza sull’individuazione della concreta causa del danno, rimane a carico del custode il fatto ignoto, in quanto non idoneo ad eliminare il dubbio in ordine allo svolgimento eziologico dell’accadimento (Cass. civ., Sez. III, sent. 10/03/2009, n. 5741). La richiamata responsabilità, quindi, si fonda non su un comportamento o un’attività del custode, bensì sulla relazione intercorrente tra questi e la res in custodia, cui corrisponde un effettivo potere fisico al quale si connette il dovere di custodire la cosa stessa, inteso nel senso di vigilanza e mantenimento del controllo sulla stessa al fine di evitare che produca danni a terzi (Trib. Roma Sez. XIII Sent., 21/07/2009); ne consegue che per applicazione della disciplina stabilita dalla norma occorre che la cosa dalla quale è derivato il danno, sia, nel momento in cui l’evento si è verificato, nella custodia del soggetto chiamato a risponderne. La responsabilità ex art. 2051 c.c. è, infatti, basata sulla presunzione di colpa nei confronti di colui che ha il dovere di custodia sulla cosa, sia esso proprietario, usufruttuario, enfiteuta, conduttore, etc. e può riguardare anche i danni che dipendono dall’insorgere nella cosa in custodia di un agente dannoso (Trib. Cassino, 07/10/2008; cfr. anche Cass. n. 16231/2005; Trib. Monza Sez. IV, 07/04/2008). 


4. Nel caso di infiltrazioni vi è responsabilità solidale di tutti i condòmini

La premessa dell’argomentazione è da porsi nel dettato della ormai famosa sentenza n. 9148/08  con cui la Suprema Corte a Sezioni Unite ha affermato che in rapporto a obbligazioni assunte dall’amministratore in rappresentanza del condominio nei confronti di terzi, in difetto di un’espressa previsione normativa che stabilisca il principio della solidarietà, la responsabilità dei condòmini nel caso di obbligazioni pecuniarie è retta dal criterio della parziarietà. Per cui le obbligazioni assunte nell’interesse del condominio si imputano ai singoli componenti soltanto in proporzione delle rispettive quote, secondo criteri simili a quelli dettati dagli artt. 752 e 1295 c.c..   Tale pronuncia delle SS.UU., emessa con riguardo ad un’obbligazione contrattuale che un condominio tramite il suo amministratore aveva assunto verso un terzo, ricollega dunque la solidarietà nelle obbligazioni divisibili ad una previsione legislativa che imponga l’esecuzione congiunta della prestazione.

Nel caso in esame va osservato che in materia di responsabilità per fatto illecito, l’espressa previsione della solidarietà passiva è contenuta nell’art. 2055,  primo comma c.c., in base al quale se il fatto dannoso è imputabile a più persone, tutte sono obbligate in solido al risarcimento del danno. A ciò va aggiunto che la stessa struttura della responsabilità per danni prevista dall’art. 2051 c.c. presuppone l’identificazione di uno o più soggetti cui sia imputabile la custodia. Il custode non può essere identificato né nel condominio, interfaccia idoneo a rendere il danneggiato terzo rispetto agli altri condòmini, ma pur sempre ente di sola gestione di beni comuni, né nel suo amministratore, essendo questi un mandatario dei condòmini. Solo questi ultimi, invece, possono considerarsi investiti del governo della cosa, in base ad una disponibilità di fatto e ad un potere di diritto che deriva loro dalla proprietà piena sui beni comuni ex art. 1117 c.c. (sui requisiti in generale della custodia ai fini dell’applicazione dell’art. 2051 c.c., cfr. Cass. S.U. n. 12019/91).

Ciò posto, l’applicabilità dell’art. 2055 c.c. (che opera un rafforzamento del credito evitando al creditore di dover agire coattivamente contro tutti i debitori pro quota) ai danni da cosa condominiale in custodia trova una prima conferma, innanzi tutto, in altre  precedenti pronunce della Suprema  Corte, come Cass. n. 6665/09, che ha ritenuto il condomino danneggiato quale terzo rispetto allo stesso condominio cui è ascrivibile il danno stesso (con conseguente inapplicabilità dell’art. 1227, primo comma c.c.); Cass. n. 4797/01, per l’ipotesi di danni da omessa manutenzione del terrazzo di copertura cagionati al condomino proprietario dell’unità immobiliare sottostante; Cass. n. 6405/90, secondo cui i singoli proprietari delle varie unità immobiliari comprese in un edificio condominiale sono, a norma dell’art. 1117 c.c. (salvo che risulti diversamente dal titolo), comproprietari delle parti comuni, tra le quali il lastrico solare, assumendone la custodia con il correlativo obbligo di manutenzione, con la conseguenza, nel caso di danni a terzi per difetto di manutenzione del detto lastrico, della responsabilità solidale di tutti i condòmini, a norma degli artt. 2051 e 2055 c.c.. 

Per cui si può concludere con il ritenere che il risarcimento del danno da cosa in custodia di proprietà condominiale non si sottrae alla regola della responsabilità solidale ex art. 2055, 1 comma c.c., individuati nei singoli condòmini i soggetti solidalmente responsabili.


5. Esclusione della responsabilità nel caso in cui il condominio sia il mero utilizzatore della cosa per espressa disposizione in tale senso prevista nel regolamento di condominio contrattuale o altra disposizione negoziale


I problemi che spesso si affacciano sono quelli che si verificano quando il condominio è mero utilizzatore del bene per essersi il  costruttore riservato la proprietà del lastrico solare, del cortile ovvero di quel bene cioè da cui le infiltrazioni provengono.

La  Corte di Cassazione, con una mirabile sentenza, ha chiarito i limiti della responsabilità per danni da omessa custodia nel caso in cui il condominio sia solo  un mero detentore per cui lo stesso obbligo di custodia sia rimasto in capo al proprietario e lo ha fatto con la sentenza n. 15096 del 17/06/2013.

La massima può così essere riassunta: “In tema di danni da cose in custodia, ai fini della configurabilità della responsabilità ex art. 2051 cod. civ. è sufficiente la sussistenza del rapporto di custodia con la cosa che ha dato luogo all’evento lesivo, rapporto che postula l’effettivo potere sulla cosa, e cioè la disponibilità giuridica e materiale della stessa, che comporti il potere/dovere di intervento su di essa, e che compete al proprietario o anche al possessore o detentore. La disponibilità che della cosa ha l’utilizzatore non comporta, invece, necessariamente il trasferimento in capo a questi della custodia, da escludere in tutti i casi in cui, per specifico accordo delle parti, o per la natura del rapporto, ovvero per la situazione fattuale determinatasi, chi ha l’effettivo potere di ingerenza, gestione ed intervento sulla cosa, nel conferire all’utilizzatore il potere di utilizzazione della stessa, ne abbia conservato la custodia. (Nella specie, la S.C. ha annullato la decisione della corte territoriale che aveva affermato la responsabilità per i danni subiti dal terzo proprietario di un immobile sottostante un giardino, in capo al condominio che ne godeva in forza di un titolo negoziale, quest’ultimo ponendo a carico del condomino la sola manutenzione ordinaria dello spazio verde e lasciando la manutenzione straordinaria al proprietario costruttore).”

In pratica, il condominio contestava  sia di essere tenuto alla custodia del giardino ex art. 2051 c.c., sia che l’obbligo di manutenzione posto a suo carico dagli accordi negoziali con il soggetto proprietario comprendesse incondizionatamente “le riparazioni straordinarie”.

Sostiene pertanto che, stante il proprio obbligo limitato a mantenere la destinazione del bene oggetto di godimento, era la società proprietaria a dover vigilare sulla struttura della cosa e a dover impermeabilizzare i locali sottostanti, ponendo una guaina di protezione.

Rilevava inoltre, che tali protezioni non erano state previste a causa della diversa destinazione originaria dei locali interrati, abusivamente trasformati in appartamenti.

Chiedeva  pertanto che venisse affermato che era tenuto alle sole opere di ordinaria manutenzione e non anche alle riparazioni straordinarie, peraltro relative non al godimento del giardino ma delle parti sottostanti: piano di calpestio, guaina e solaio dei locali interrati.

In realtà, la sentenza impugnata in Cassazione si era limitata a fare applicazione dei principi giurisprudenziali già espressi dalla Suprema Corte, tra le altre, con le sentenze: Cass. 1477/99 e soprattutto Cass. 2861/95 secondo le quali nel caso in cui il cortile di un condominio funga da copertura di un locale interrato di un terzo, se la cattiva manutenzione del cortile provoca infiltrazioni d’acqua nel sottostante locale, l’obbligazione risarcitoria del condominio trova la sua fonte nel disposto dell’art. 2051 cod. civ.,  e non aveva considerato che i presupposti di fatto erano nella specie del tutto diversi.

Infatti,  diverso è il regime applicabile qualora il condominio si trovi nel godimento di un bene in forza di un titolo negoziale, fosse anche il regolamento di condominio. In tal caso occorre attribuire conseguentemente le responsabilità di eventuali danni subiti dal terzo proprietario dell’immobile sottostante. 

Ferma la responsabilità del proprietario dell’area soprastante, è necessario configurare la responsabilità di chi ha in uso il bene nei limiti degli obblighi che questi ha acquisito nei confronti del concedente. Per cui nel caso in esame la Corte accoglieva il ricorso perché il costruttore si era riservata la proprietà del giardino ed aveva lasciato al condominio solo “l’obbligo di mantenere a proprie spese tale destinazione”.

Al condominio era quindi espressamente sottratto il potere dovere di custodire la consistenza immobiliare, dovendo soltanto curare il mantenimento della destinazione a giardino. Quindi, il principio in base al quale  è sufficiente la sussistenza del rapporto di custodia con la cosa che ha dato luogo all’evento lesivo, ai fini della configurabilità della responsabilità ex art. 2051 cod. civ. presuppone l’effettivo potere sulla cosa che l’utilizzatore potrebbe non avere.  

Infatti, la disponibilità che della cosa ha l’utilizzatore non comporta necessariamente il trasferimento in capo a questo della custodia, che va quindi esclusa in tutti i casi in cui, per specifico accordo delle parti, o per la natura del rapporto, ovvero per la situazione fattuale determinatasi, chi ha l’effettivo potere di ingerenza, gestione ed intervento sulla cosa, nel conferire all’utilizzatore il potere di utilizzazione della stessa, ne abbia conservato la custodia. (Cass. 1948/03).