[A cura di: Mauro Simone – pres. Appc-Alac Bari e vice segr. naz. Alac]
Una questione raramente trattata dalla pubblicistica condominiale è quella relativa ai poteri di sindacato dell’amministratore sulle delibere assembleari. Il legislatore neppure in occasione della novella del 2012 ha ritenuto di soffermarsi ad esaminare e definire chiaramente tale aspetto. A mente del nuovo art.1130 c.c. 1° co. l’amministratore deve eseguire le deliberazioni dell’assemblea, convocarla annualmente per l’approvazione del rendiconto condominiale di cui all’art.1130 bis e curare l’osservanza del regolamento di condominio.
In dottrina ci si chiede se l’amministratore debba comunque e sempre eseguire le delibere o deve astenersi dal dare esecuzione alle delibere assembleari se non sono prese con le maggioranze prescritte dall’art.1136 c.c., e quindi per qualsiasi deliberazione, debba comportarsi come mero esecutore delle decisioni della maggioranza o se abbia il potere/dovere di verificarne la legittimità. La posizione di dottrina e giurisprudenza non è uniforme su questa questione. Le opinioni sono contraddittorie.
Per alcuni autori, l’amministratore deve obbligatoriamente eseguire solo le delibere legittime, perfette e regolari nella forma. Per la Cassazione n. 2668 dell’8/10/63 l’amministratore è tenuto ad eseguire le deliberazioni con la diligenza del buon padre di famiglia ed in virtù di tale dovere può solo soprassedere per ragioni di opportunità dal dare esecuzione ad una delibera a rischio di possibile revoca o modificazione. Secondo altri autori all’amministratore è riconosciuto il potere di interpretare le decisioni e anche di controllare la validità delle deliberazioni.
Il Visco sosteneva l’impossibilità per l’amministratore di sindacare le decisioni dell’assemblea, l’unica facultata ad assumere decisioni viziate. Per il Terzago non vi sarebbe l’obbligo di mettere in esecuzione le manifestazioni di volontà della maggioranza ove la messa in esecuzione delle delibere comporti la violazione di norme imperative ovvero delibere nulle o inesistenti in spregio di norme imperative.
Dall’esame delle varie teorie si ritiene di poter condividere la tesi che riconosce all’amministratore un potere di sindacare le deliberazioni anche in considerazione che all’evidenza di violazione di legge l’amministratore può essere considerato responsabile, anche se l’assemblea ha deliberato di eseguire l’opera illegittima o di assumere decisioni comportanti gravi irregolarità. Sarebbe auspicabile un chiaro e definito intervento del legislatore che definisca i poteri dell’amministratore, magari limitando la responsabilità dell’amministratore ai soli atti in cui è consentito un effettivo sindacato.
[A cura di: avv. Rodolfo Cusano]
La corretta impostazione della ricerca di quale sia il concetto di “istituto condominiale” secondo la recente legge di riforma del condominio, non può che partire dall’analisi del dato testuale di cui all’art. 1117 c.c. Infatti, è appunto attraverso questa analisi che giungeremo a definire “il condominio” come l’istituto caratterizzato da un nesso di strumentalità tra beni in comune e proprietà singole, legame necessario per la sua stessa esistenza. A dirlo con le parole del Terzago: “il condominio si caratterizza per il nesso indissolubile che lega i beni in comune alle proprietà singole”.
IL C.C. DEL 1942
Nel codice civile del 1942, ( R.D. 16 marzo 1942 n. 262) il primo articolo del Titolo VII, Capo II, dedicato al condominio negli edifici e intitolato “Parti comuni dell’edificio”, aveva questa formulazione:
Art. 1117 – Parti comuni dell’edificio. “Sono oggetto di proprietà comune dei proprietari dei diversi piani o porzioni di piani di un edificio, se il contrario non risulta dal titolo:
1) il suolo su cui sorge l’edificio, le fondazioni, i muri maestri, i tetti e i lastrici solari, le scale, i portoni d’ingresso, i vestiboli, gli anditi, i portici, i cortili e in genere tutte le parti dell’edificio necessarie all’uso comune;
2) i locali per la portineria e l’alloggio del portiere, per la lavanderia, per il riscaldamento centrale, per gli stenditoi e per altri simili servizi in comune;
3) le opere, le installazioni, i manufatti di qualunque genere che servono all’uso e al godimento comune, come gli ascensori, i pozzi, le cisterne, gli acquedotti e inoltre le fognature e i canali di scarico, gli impianti per l’acqua, per il gas, per l’energia elettrica, per il riscaldamento e simili, fino al punto di diramazione degli impianti ai locali di proprietà esclusiva dei singoli condòmini.
DOPO LA RIFORMA
Il legislatore della riforma, attesa la fondamentale importanza di tale disposizione ha pensato di ampliarne la specificità suddividendola in quattro diversi articoli di cui il primo è il seguente:
Art. 1117 – Parti comuni dell’edificio. “Sono oggetto di proprietà comune dei proprietari delle singole unità immobiliari dell’edificio, anche se aventi diritto a godimento periodico e se non risulta il contrario dal titolo:
1) tutte le parti dell’edificio necessarie all’uso comune, come il suolo su cui sorge l’edificio, le fondazioni, i muri maestri, i pilastri e le travi portanti, i tetti e i lastrici solari, le scale, i portoni di ingresso, i vestiboli, gli anditi, i portici, i cortili e le facciate;
2) le aree destinate a parcheggio nonché i locali per i servizi in comune, come la portineria, incluso l’alloggio del portiere, la lavanderia, gli stenditoi e i sottotetti destinati, per le caratteristiche strutturali e funzionali, all’uso comune;
3) le opere, le installazioni, i manufatti di qualunque genere destinati all’uso comune, come gli ascensori, i pozzi, le cisterne, gli impianti idrici e fognari, i sistemi centralizzati di distribuzione e di trasmissione per il gas, per l’energia elettrica, per il riscaldamento ed il condizionamento dell’aria, per la ricezione radiotelevisiva e per l’accesso a qualunque altro genere di flusso informativo, anche da satellite o via cavo, e i relativi collegamenti fino al punto di diramazione ai locali di proprietà individuale dei singoli condomini, ovvero, in caso di impianti unitari, fino al punto di utenza, salvo quanto disposto dalle normative di settore in materia di reti pubbliche.
QUALI NOVITÀ
Al primo comma si nota che non si fa più riferimento al piano (o porzione di piano) dell’edificio ma alle “singole unità immobiliari”: è questa una mera innovazione stilistica che non muta il significato sostanziale della locuzione ma risulta certamente apprezzabile poiché, anche nell’uso comune, si fa sempre esclusivamente riferimento alle singole unità immobiliari, anche se il concetto ne risulta ampliato a tutte le fattispecie possibili anche se al di fuori di quella del fabbricato, strettamente inteso.
La seconda innovazione posta al primo comma consiste nella specificazione “anche se aventi diritto a godimento periodico”: in questo caso l’innovazione è tutt’altro che felice, poiché sembra riferirsi al contenuto tipico dei diritti reali di godimento1 mentre probabilmente il legislatore intendeva riferirsi al condomino in multiproprietà ex artt.69 ss. Dlgs.206/20052 ma, in tal caso, sarebbe stato meglio specificarlo onde evitare confusioni3: in ogni caso4 l’estensione dell’applicazione a tutti i detti soggetti non era posta in dubbio né dalla dottrina né dalla giurisprudenza, per cui tale specificazione non risultava affatto necessaria.
Al numero 1) sono stati aggiunti i riferimenti ai pilastri, alle travi portanti ed alle facciate5 che sono specificazioni certamente corrette, ma che nulla aggiungono alle interpretazioni che portavano ad includervi tali parti in maniera estensiva: tanto è vero che rimane il generico riferimento a “tutte le parti dell’edificio necessarie all’uso comune”, il quale è stato portato all’inizio del testo, cosa che amplifica il carattere esemplificativo e non esaustivo di tale norma, e che non vieta ma anzi consente e stimola ulteriori futuri ampliamenti e specificazioni.
Al numero 2) sono stati eliminati i riferimenti ai locali per il riscaldamento mentre sono stati aggiunti i riferimenti alle aree destinate a parcheggio ed ai sottotetti: molto opportuna soprattutto la prima inclusione relativa ai parcheggi cui, come noto, il legislatore ha nel corso degli anni dedicato una notevole mole di norme anche se, per entrambe le dette innovazioni, deve ripetersi che erano già state incluse tra le parti comuni con opinione concordante di dottrina e giurisprudenza.
Al numero 3) è stato eliminato il riferimento al “godimento” che certamente era pleonastico in quanto già compreso nel riferimento all’uso comune che correttamente resta nella nuova formulazione. Inoltre, rilievo soltanto stilistico, senza alcuna valenza contenutistica, sono “gli impianti idrici e fognari” al posto dei vecchi acquedotti, fognature e canali di scarico; altrettanto dicasi per tutti gli impianti e sistemi centralizzati cui si aggiungono ora quelli “per l’accesso a qualunque altro genere di flusso informativo” del tipo dei collegamenti internet6: la norma ora è più specifica poiché distingue correttamente tra impianti unitari e comuni ma in sostanza non detta nuove regole in materia.
Una notazione a parte va fatta per gli impianti per la ricezione radiotelevisiva, estremamente presenti in Italia, il cui riferimento va collegato con l’attuale art.1112 bis che introduce un vero e proprio favor per gli impianti televisivi centralizzati per apprezzabili fini: difatti con gli impianti centralizzati si hanno maggiori possibilità di risparmio, di miglioramento qualitativo del segnale e, soprattutto, di minor impatto ambientale. L’ultimo inciso relativo alle normative in tema di reti pubbliche sebbene opportuno è comunque anodino in quanto la prevalenza di tali leggi speciali era, e resta, in re ipsa.
I SOGGETTI
Al fine di meglio chiarire la portata dell’art. 1117 bis del codice civile e, quindi determinare a chi si applicano le norme di cui al Libro III della proprietà, Titolo VII della comunione, Capo II “Del condominio negli edifici” occorre precisare che trattasi di quell’istituto, avente regole sue proprie, diverse da quelle che regolano la comunione. Istituto che disciplina tutti i casi in cui: “più unità immobiliari o più edifici ovvero più condominii di unità immobiliari o di edifici abbiano parti in comune ai sensi dell’art. 1117 c.c.”
L’allargamento dell’originaria previsione data dall’art. 1117 c.c. (vecchio testo) solo ad un fabbricato composto da più piani, è servita al legislatore ad eliminare le incertezze applicative che sussistevano in ordine all’applicazione delle regole condominiali nei casi di: condominio orizzontale, supercondominio, condominio minimo, ecc. L’esigenza di certezza è evidente allorché dal testo dell’art. 1117 c.c. la legge di riforma ha eliminato il riferimento al fabbricato e sostituito lo stesso con il riferimento alle singole unità immobiliari dell’edificio.
Così facendo, da un lato si è mantenuto il riferimento all’edificio, dall’altro si è estesa l’applicazione dell’istituto condominiale a tutti quei casi (molteplici nella pratica) in cui uno o più unità immobiliari o edifici abbiano parti comuni ai sensi dell’art. 1117 c.c.
Da ciò che l’interprete non dovrà più far fatica nello stabilire a chi applicare l’istituto:
a) quando vi è un’espressa previsione normativa; e mi riferisco all’ipotesi di un solo edificio e della multiproprietà indicate espressamente dall’art. 1117 c.c.;
b) quando pur in mancanza di un preciso riferimento normativo, si verifichino e sussistano le condizioni di cui all’art. 1117 bis e cioè che tra più unità immobiliari o edifici ovvero più condominii di unità immobiliari o di edifici sussistano parti in comune ai sensi dell’art. 1117 c.c.
Ciò sta a significare che dall’originario edificio, oggi si è passati ad una platea di soggetti più ampia, che comprende qualsiasi unità immobiliare, sopra terra o addirittura sottoterra. Si immagini ad esempio delle grotte aventi accesso comune ed altri servizi in comune, quali: la guardiania, l’illuminazione, il cancello di ingresso, ecc. È stata quindi ampliata l’applicazione anche alle villette ad un solo piano, ai garages sopra o sotto terra, ma cosa più importante di tutte: la scelta nell’applicabilità della disciplina della comunione ovvero quella sul condominio deve seguire l’unico principio dell’esistenza o meno dei cd. beni in comune.
Premesso che, anche nella nuova versione, nell’art. 1117 c.c. è rimasto il riferimento ai proprietari ed all’edificio, occorre considerare che:
a) per aversi condominio occorrono più proprietari e quindi almeno due persone (da ciò che la nascita del condominio si fa risalire al primo atto di vendita in cui il costruttore aliena il primo appartamento);
b) che su detto edificio deve, conseguentemente, sussistere la proprietà separata o superficiaria su piani o su appartamenti ovvero secondo la riforma su singole unità immobiliari.
Infatti, in generale qualora si costruisca su di un terreno, in virtù del principio dell’accessione (art. 934 c.c.) tutto ciò che si è costruito diventa automaticamente del proprietario del suolo. Questa presunzione però può essere vinta mediante il titolo. Tale titolo è proprio il rogito notarile di compravendita tra un terzo ed il proprietario del terreno dal quale si evince che il primo abbia acquistato la proprietà di una costruzione già esistente ovvero il diritto di farne una nuova. Si tratta quindi di una proprietà superficiaria ovvero distinta su cose sovrapposte. Qualora il proprietario del terreno invece mantenga la proprietà dei primi piani, parleremo allora di proprietà separata.7
Da tale coesistenza di più proprietà separate deriva l’esigenza di imporre limiti nel godimento delle cose di cui ciascuno ha la proprietà esclusiva nonché quella di disciplinare l’uso ed il godimento delle parti comuni dell’edificio.
BENI IN COMUNE
Da queste preliminari considerazioni scaturisce la primaria necessità di individuare quali siano i beni in comune cui ci riferiamo:
a) di essi l’art. 1117 c.c. fornisce un elenco non tassativo;
b) in virtù dell’art. 1123 terzo comma non è vero che tutti i beni appartengono a tutti i condòmini, ma è vero invece che nel caso in condominio esistano, più scale, più tetti, più cortili, ecc. detti beni appartengono solo a chi li usa. Tale principio meglio chiamato del “condominio parziale” è ormai di pacifica applicazione sia in dottrina che in giurisprudenza.
A questo punto possiamo introdurre il ragionamento logico per capire se siamo in presenza o meno di un bene in comune. La coesistenza di beni accessori a beni in proprietà singola è stata la discriminante usata nelle parole del prof. Terzago8 per attribuire al condominio la particolarità di essere una disciplina autonoma, sia pure generata dalla comunione. Egli definiva appunto il condominio come caratterizzato dal: “nesso indissolubile tra proprietà singola e proprietà comune”. Tale considerazione, come abbiamo appena detto, è vieppiù confermata dai principi cui si è ispirata la recente riforma.
La presunzione che i beni siano in comune si fonda sul presupposto che il bene stesso sia destinato o serva all’uso comune. Tale presunzione non può nemmeno essere superata dal diritto di accessione posto che, in condominio, deve necessariamente esserci un titolo inteso come negozio giuridico ovvero un’usucapione, che appunto impediscono l’operare dell’accessione.
Essa presunzione può invece essere vinta da un’espressa previsione contraria indicata nel titolo costitutivo del condominio, nel senso che ove nel rogito notarile di vendita del primo appartamento il proprietario non operi un’espressa riserva di proprietà di quelli che sono i beni accessori, essi si considerano in comune ai sensi dell’art. 1117 c.c.9
Chiarita quale sia la portata della disposizione normativa appena citata, per completezza di disamina occorre precisare che i beni accessori sono tali perché servono i beni principali (unità immobiliari), oppure possono essere accessori anche per destinazione prevista nel titolo. Ciò accade quando, anche se strumentalmente non appaiono collegati, in quanto ad utilità, alle singole unità, essi comunque sono destinati a servirle per espressa volontà delle parti. Tale previsione può essere inserita nel regolamento contrattuale di condominio e poi questo, a sua volta, recepito nel primo rogito notarile di vendita ovvero direttamente in questo ultimo.
Per esempio: in assenza di volontà contraria, gli spazi destinati a parcheggio vengono a ricadere – per effetto del vincolo pertinenziale di cui si è detto – fra le parti comuni di cui all’art. 1117 c.c.. In proposito, è appena il caso di ricordare che il diritto di condominio su un bene comune presuppone la relazione di accessorietà strumentale e funzionale che collega i piani o le porzioni di piano di proprietà esclusiva agli impianti o ai servizi di uso comune, rendendo il godimento del bene comune strumentale al godimento del bene individuale e non suscettibile di autonoma utilità, come avviene invece nella comunione.
ATTO E TITOLO
Al fine di stabilire se siano stati o meno esclusi dal novero delle cose comuni previste dall’art. 1117 cod. civ. ovvero se sussista un titolo contrario alla presunzione di comunione di cui alla norma citata, va fatto riferimento esclusivamente all’atto costitutivo del condominio, e, quindi, al primo atto di trasferimento di una unità immobiliare dell’originario unico proprietario dell’intero fabbricato – comportante il frazionamento della proprietà dell’edificio: peraltro, da tale atto devono risultare in modo chiaro ed inequivocabile elementi rivelatori della esclusione della condominialità del bene, non potendo tali beni, successivamente, essere sottratti alla loro destinazione comune10.
Ulteriore conseguenza di quanto disposto dall’art. 1117 c.c. è che, quando manca il titolo e non è disposto altrimenti, la norma dettata dall’art. 1117 c.c. disciplina l’attribuzione del diritto di condominio (non la semplice presunzione).
Infatti, diversamente da quanto è scritto nell’art. 880 c.c. (“il muro che serve di divisione tra edifici si presume comune”) e nell’art. 881 c.c. (“si presume che il muro divisorio tra i campi, cortili, giardini ed orti appartenga al proprietario …”), i quali disciplinano la cosiddetta presunzione relativa – ovverosia l’effetto preclusivo di grado inferiore – la formula dell’art. 1117 c.c. non parla di presunzione: dice che sono “oggetto di proprietà comune”. Non contempla un fatto di conoscenza, ma un fatto di attribuzione del diritto. Per cui possiamo dire che, quando il titolo non dispone altrimenti, il diritto di condominio nasce dalla legge11.
Nel caso di trasferimenti delle unità immobiliari site nell’edificio, se con l’atto negoziale non viene manifestata esplicitamente una diversa volontà, la legge riconduce alle parti accessorie – alle cose, agli impianti ed ai servizi di uso comune, individuati tramite il collegamento materiale e funzionale – gli effetti acquisitivi derivanti dagli atti concernenti i beni principali, cioè i piani o le porzioni di piano.
Dal codice, questi (i piani o le porzioni di piano) sono considerati come beni principali; gli altri (le cose, gli impianti ed i servizi di uso comune) come beni accessori. In virtù del collegamento strumentale – materiale e funzionale, configurato rispettivamente dalla necessità per l’esistenza o per l’uso, ovvero dalla destinazione all’uso o al servizio – l’efficacia del fatto traslativo riguardante i beni principali (i piani o le porzioni di piano) si propaga ai beni accessori (alle cose, gli impianti ed i servizi di uso comune), secondo il principio “accessorium sequitur principale”12.
DESTINAZIONE
Ultima precisazione è quella che per l’applicazione del regime condominiale non è importante la destinazione delle unità immobiliari. Nel senso che ciò che necessita è di essere in presenza di unità immobiliari. Poi, esse possono avere la più diversa destinazione: abitativa, deposito, negozio, centro commerciale, alberghiera, ecc.
Per dimostrare la compatibilità del regime di condominio con la destinazione alberghiera ad esempio (quindi, per dimostrare che la destinazione alberghiera non impedisce il sorgere del regime del condominio e, viceversa, e quindi che il mutamento della destinazione non raffigura il presupposto necessario per la costituzione dell’assetto condominiale), basta considerare che in uno stesso edificio possono ben esistere più unità immobiliari soggette a proprietà esclusiva e a destinazioni diverse, e che in questi casi insorge il regime del condominio (per esempio, i primi piani sono destinati ad albergo, i piani alti destinati ad abitazione; oppure, nello stesso edificio possono essere collocati due alberghi distinti appartenenti a proprietari diversi).
Da questa considerazione particolare scaturisce una proposizione di ordine generale. Una cosa è la destinazione dell’uso; altra la coesistenza dei diritti di proprietà e di condominio. Le due situazioni giuridiche sono del tutto separate ed autonome. Il regime del condominio non dipende quindi dalla destinazione d’uso delle cose in proprietà esclusiva, sebbene dall’esistenza nello stesso edificio di più proprietà separate.
Per cui possiamo concludere dicendo con i principi già affermati dal Terzago che, anche secondo la recente riforma, è del tutto irrilevante la destinazione della proprietà, determinata dalle norme concernenti l’urbanistica, il paesaggio, l’ambiente etc., perché per l’esistenza del regime del condominio è necessaria e sufficiente l’esistenza – assieme a quella delle unità in proprietà esclusiva – di cose, impianti e servizi destinati all’uso comune.
NOTE
1 Ma in questo caso o si è proprietario (titolare del diritto di piena proprietà che ha ovviamente anche diritto al godimento) oppure si è titolare di un diritto reale di godimento.
2 L’artt.69 ss. Dlgs.206/2005 definisce il condomino in multiproprietà come colui che ha diritto al godimento su uno o più alloggi per il pernottamento per più di un periodo di occupazione.
3 “Sono oggetto di proprietà comune dei proprietari delle singole unità immobiliari dell’edificio, o di coloro che sulle medesime vantino un diritto ex art.69 lett. a) D.Lgs.206/20056, …”.
4 Un’ultima notazione riguarda il fatto che comunque il titolare di un tale diritto di godimento periodico non potrebbe avere la comproprietà sulla parte comune ma sulla stessa vanterebbe sempre il medesimo diritto (in comunione) e pertanto imprecisa appare la iniziale dizione “Sono oggetto di proprietà comune …”.
5 Irrisolto resta il problema dei balconi che poteva essere definitivamente chiarito e sui quali l’opinione dominante propende per escluderli dalle parti comuni essendo parti soggette a proprietà individuale di ciascun condomino.
6 Nuovo è il riferimento agli impianti per il condizionamento dell’aria divenuti nel corso degli anni molto comuni laddove, in pratica, non esistevano affatto all’epoca di emanazione del codice civile.
7 vedi Salis – Ed. 1959 – Il condominio negli edifici, pagg. 3 e 4.
8 per un approfondimento vedi Terzago, Celeste, Salciarini Il condominio Giuffrè 2015.
9 Cass. Sez. Un. del 7.7.93 n. 7449.
10 Cass. del 22.11.2013 n. 26253.
11 Cass. 29.01.2007 n. 1788.
12 art. 818 c.c., comma 1.
[A cura di: avv. Andrea Marostica]
La responsabilità penale in cui può incorrere l’amministratore di condominio è principalmente di carattere omissivo. Sono possibili a suo carico ipotesi di illecito penale di carattere commissivo – si pensi, ad esempio, all’ipotesi di appropriazione indebita aggravata ex art. 646, co. 3, c.p. -, ma l’amministratore, a causa della natura stessa del suo ufficio, è per lo più chiamato a rispondere di ciò che non ha fatto pur avendone l’obbligo. È pertanto opportuno, anzitutto, distinguere il reato omissivo da quello commissivo ed analizzarne la struttura, per poi considerare nello specifico la responsabilità omissiva dell’amministratore.
Reato commissivo e reato omissivo
Mentre la responsabilità commissiva si fonda sulla violazione di una norma-divieto (al soggetto è vietato tenere un certo comportamento ed il rimprovero che gli viene mosso è di avere tenuto quel comportamento vietato), la responsabilità omissiva si fonda sulla violazione di una norma-comando (al soggetto è fatto obbligo di tenere un certo comportamento ed il rimprovero che gli viene mosso è di non averlo tenuto, cioè di averlo omesso). A titolo di esempio, per il primo tipo di responsabilità si pensi al reato di ingiuria (art. 594 c.p.): il soggetto offende l’onore o il decoro di una persona tenendo un certo comportamento, siano parole, scritti, disegni; per il secondo tipo si guardi al reato di omissione di soccorso (art. 593 c.p.): il soggetto non soccorre una persona ferita o in pericolo.
Il reato omissivo: proprio ed improprio
I reati omissivi a propria volta si distinguono in omissivi propri ed omissivi impropri (o commissivi mediante omissione).
I primi sono reati di mera condotta: ai fini della sussistenza del reato non è necessario il verificarsi di un evento lesivo. Classico esempio è l’omissione di soccorso (art. 593 c.p.), dove non è richiesto l’evento (non è necessario che la persona bisognosa di soccorso muoia in seguito al mancato aiuto), il soggetto è punito per il solo fatto di non avere soccorso. Elementi costitutivi di questo tipo di reato sono:
1) la situazione tipica, ovvero la situazione fattuale descritta dalla norma;
2) la condotta omissiva del soggetto;
3) la possibilità di agire dello stesso.
Nell’esempio fatto:
1) il rinvenimento di una persona ferita;
2) non avere prestato soccorso;
3) il soggetto era in grado di prestare soccorso.
I secondi sono reati ad evento: per l’integrazione della fattispecie è necessario il verificarsi di un evento lesivo. Esempio paradigmatico è l’omicidio per omissione (artt. 40, co. 2, 575 c.p.) – causato, si ponga, dalla baby sitter che non impedisce al neonato di cadere dal balcone -, dove è richiesto l’evento: il soggetto è punito solo se dalla sua condotta omissiva consegue la morte della vittima.
Elementi costitutivi di questo tipo di reato sono:
1) l’obbligo giuridico di impedire l’evento;
2) la condotta omissiva del soggetto;
3) la realizzazione dell’evento lesivo;
4) la sussistenza del nesso causale tra condotta ed evento;
5) la possibilità di agire del soggetto.
Nell’esempio fatto:
1) l’obbligo della baby sitter di vigilare affinché non capiti alcun male al neonato;
2) non avere badato al neonato;
3) la morte del neonato;
4) la morte del neonato a causa della distrazione della baby sitter;
5) la baby sitter era in grado di badare al neonato.
Mentre i reati omissivi propri sono previsti da apposite norme, collocate nella parte speciale del codice penale, i reati omissivi impropri sono punibili sulla base della combinazione dell’art. 40, co. 2, c.p. e delle singole fattispecie incriminatrici, che sono costruite sul modello del reato commissivo. In altre parole: l’art. 40, co. 2, c.p. converte i reati commissivi (non tutti, solo quelli suscettibili di essere convertiti) nelle rispettive versioni omissive. Per questa ragione l’art. citato può essere definito moltiplicatore di tipicità, in quanto rende penalmente rilevanti condotte non espressamente sanzionate.
A questo punto, è utile riportare il testo dell’art. 40, co. 2, c.p.: “non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”. Questo è il nocciolo della responsabilità omissiva: esiste un soggetto che ha l’obbligo giuridico di impedire un evento e, poiché non lo impedisce, viene punito. La situazione del soggetto gravato da un obbligo giuridico di impedire un evento si chiama posizione di garanzia.
La responsabilità omissiva dell’amministratore di condominio
La giurisprudenza ritiene che l’obbligo giuridico di impedire l’evento possa nascere da qualunque ramo del diritto, e quindi anche dal diritto privato, e specificamente da una convenzione che da tale diritto sia prevista e regolata, come è nel rapporto di rappresentanza volontaria intercorrente tra il condominio e l’amministratore (Cass. Pen., 2012, 34147). Dunque la fonte della posizione di garanzia del mandatario nasce dal contratto concluso tra lui e la compagine condominiale.
L’amministratore è gravato di molteplici obblighi di attivarsi; a titolo esemplificativo, basti pensare alle ipotesi di omicidio colposo e di lesioni colpose per non aver rimosso fonti di rischio insite nelle parti comuni, ed alle ipotesi previste dal D.Lgs. 81/2008 in tema di sicurezza sul lavoro. In tutti questi casi il mandatario è ritenuto responsabile per non avere tenuto la condotta doverosa comandata dalla norma, per non avere cioè adempiuto all’obbligo giuridico di impedire l’evento lesivo.
Per quanto riguarda, in particolare, i reati di omicidio colposo e lesioni colpose verificatisi per cause insite nelle parti comuni dell’edificio, è opportuno sottolineare che la giurisprudenza di legittimità considera l’amministratore di condominio custode delle parti comuni. Si legga la massima di Cass. Civ., 2008, 25251: “In tema di condominio, la figura dell’amministratore nell’ordinamento non si esaurisce nell’aspetto contrattuale delle prerogative dell’ufficio. A tale figura il codice civile e le leggi speciali imputano doveri ed obblighi finalizzati ad impedire che il modo d’essere dei beni condominiali provochi danno ai terzi. In relazione a tali beni l’amministratore, in quanto ha poteri e doveri di controllo e poteri di influire sul loro modo d’essere, si trova nella posizione di custode, pertanto deve curare che i beni comuni non arrechino danni agli stessi condòmini od a terzi”.
Se è custode delle parti comuni, deve impedire che ne possano derivare eventi lesivi ai terzi (morte, lesioni personali); se omette di impedire ciò, può esserne chiamato a risponderne. Si precisa che è la stessa legge a prevedere in capo all’amministratore il potere di agire per evitare situazioni pericolose e di rischio: l’art. 1130, co. 1, lett. 4, c.c. elenca, tra le attribuzioni del mandatario, il compimento degli atti conservativi relativi alle parti comuni dell’edificio; l’art. 1135, co. 2, c.c. prevede la possibilità per l’amministratore di ordinare lavori di manutenzione straordinaria che rivestano carattere urgente.
In senso conforme a tale impostazione, valga l’insegnamento di Cass. Pen., 2012, 21223. La vicenda oggetto del pronunciamento riguarda l’omessa delimitazione e segnalazione, da parte dell’amministratore, del lucernario situato al centro del condominio nella parte esterna e ricoperto di neve. Si era verificato che un minore, a bordo del suo slittino, era andato a finire sul lucernario che si era frantumato facendo cadere lo stesso nelle sottostanti scale, con conseguenti lesioni. In giudizio veniva rilevato che il lucernario, ricoperto dalla neve, non era assolutamente visibile. La Cassazione ritiene indubbia la responsabilità dell’imputato amministratore, in forza della sua posizione di garanzia intesa ad evitare ogni pericolo per i frequentatori del condominio. In particolare, si afferma che egli era a conoscenza del fatto che i vetri del lucernario erano lesionati ed infatti aveva disposto di eliminare l’accumulo di neve formatosi, ma poi non aveva accertato che l’intervento fosse stato in concreto compiuto.
Ne risulta chiarito quanto sopra esposto: l’amministratore è stato ritenuto penalmente responsabile per non avere impedito un evento verificatosi a causa del modo d’essere delle parti comuni in custodia, per il quale esisteva dunque a suo carico l’obbligo giuridico impeditivo.
Da lunedì prossimo 20 febbraio e fino al 20 marzo, i contribuenti che hanno sostenuto spese per sistemi di videosorveglianza digitale, sistemi di allarme e di vigilanza potranno inviare le domande di accesso al credito d’imposta introdotto dalla Legge di Stabilità 2016. Un provvedimento delle Entrate del 14 febbraio, infatti, chiarisce che la richiesta va inviata telematicamente all’Agenzia utilizzando l’apposito software gratuito “Creditovideosorverglianza” che sarà disponibile sul sito www.agenziaentrate.gov.it.
Al canale telematico possono accedere tutte le persone fisiche che nel 2016 abbiano sostenuto spese per sistemi di videosorveglianza digitale o di allarme, oppure spese connesse ai contratti stipulati con istituti di vigilanza a protezione di immobili non adibiti ad attività d’impresa o lavoro autonomo.
CREDITO D’IMPOSTA
Per poter fruire dell’agevolazione è sufficiente collegarsi al sito dell’Agenzia e inviare la richiesta, autonomamente oppure tramite intermediario, con il software “Creditovideosorverglianza”. Nella domanda vanno indicati il codice fiscale del beneficiario e del fornitore del bene o servizio, nonché numero, data e importo delle fatture relative ai beni e servizi acquisiti, comprensivo dell’imposta sul valore aggiunto. Occorre inoltre specificare se la fattura è relativa ad un immobile adibito promiscuamente all’esercizio d’impresa o di lavoro autonomo e all’uso personale o familiare del contribuente. In questo caso il credito d’imposta spetterà nella misura del 50%.
I contribuenti possono comunque presentare un’unica richiesta comprensiva dei dati di tutte le spese sostenute nel 2016 e, nel caso in cui siano presentate più istanze da un medesimo soggetto, sarà ritenuta valida l’ultima istanza presentata che sostituisce e annulla le precedenti domande.
COMPENSAZIONE
L’agevolazione, istituita con la legge di Stabilità 2016, prevede il riconoscimento di un credito d’imposta alle persone fisiche che nel corso del 2016 abbiano sostenuto spese per l’installazione di sistemi di videosorveglianza digitale o di sistemi di allarme, nonché per le spese connesse ai contratti stipulati con istituti di vigilanza dirette alla prevenzione di attività criminali. Le spese devono riguardare immobili non utilizzati nell’attività d’impresa o di lavoro autonomo e, in caso di uso promiscuo, il credito spetta nella misura del 50%. Il beneficiario può utilizzare il credito d’imposta maturato in compensazione ai sensi dell’art. 17 del D.lgs. n. 241/1997, presentando il modello F24 esclusivamente tramite i servizi telematici dell’Agenzia delle entrate. Le persone fisiche non titolari di reddito d’impresa o di lavoro autonomo possono utilizzare il credito spettante anche in diminuzione delle imposte dovute in base alla dichiarazione dei redditi.
MISURA PERCENTUALE
Il credito d’imposta è riconosciuto nella misura percentuale che sarà resa nota con provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate da emanarsi entro il 31 marzo 2017, risultante dal rapporto tra l’ammontare delle risorse stanziate e il credito d’imposta complessivamente richiesto.
[A cura di: avv. Rosario Dolce, comitato scientifico di Confamministrare]
Il problema delle immissioni rumorose, se notturne e provenienti da locali di intrattenimento, è molto avvertito nei condomini degli edifici, perché incide sulla serenità e sulla qualità della vita di ciascuno dei partecipanti. Tenere la musica ad alto volume per tutta la notte, sino alle quattro del mattino, può integrare l’elemento materiale del reato del disturbo di cui all’articolo 659 del Codice penale, a mente del quale: “chiunque, mediante schiamazzi o rumori, ovvero abusando di strumenti sonori o di segnalazioni acustiche, ovvero suscitando o non impedendo strepiti di animali, disturba le occupazioni o il riposo delle persone, ovvero gli spettacoli, i ritrovi o i trattenimenti pubblici, è punito con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda sino a 309 euro”.
La norma, in particolare, prevede due autonome fattispecie di reato. L’elemento distintivo, tra di esse, è dato dalla fonte del rumore prodotto: quando il rumore provenga dall’esercizio di una professione o di un mestiere rumorosi (come quella che svolge all’interno di un pub e/o di un ristorante con musica dal vivo), la condotta viene fatta rientrare nella previsione del secondo comma dell’articolo 659, per effetto della esorbitanza rispetto alle disposizioni di legge o alle prescrizioni dell’autorità, presumendosi la turbativa della pubblica tranquillità; viceversa, nel caso in cui le vibrazioni sonore non siano causate dall’esercizio dell’attività lavorativa, ricorrerebbe l’ipotesi di cui all’articolo 659 comma 1, per la quale occorre che i rumori superino la normale tollerabilità ed investano un numero indeterminato di persone, disturbando le loro occupazioni o il riposo (Cassazione Penale, Sez. 1, 17.12.1998, n. 4820/99, Marinelli, Rv. 213395).
Mentre il primo comma della norma è, dunque, volto a tutelare il riposo e la tranquillità del vicinato e richiede l’accertamento concreto del disturbo arrecato, il secondo comma, invece, prescinde dalla verificazione della misura del disturbo, integrando un’ipotesi di presunzione legale di rumorosità, al di là dei limiti tempro-spaziali e/o delle modalità di esercizio imposto dalla legge, dai regolamenti o da altri provvedimenti adottati dalle competenti autorità (così anche Cassazione Penale, Sez. 1, 12.6.2012, n. 39852, Minetti, Rv. 253475).
Sulla scorta di tali premesse, la Corte di Cassazione, Sezione III Penale, con la sentenza del 5 – 20 giugno 2016, n. 25424 , ha stabilito che nel caso cui i rumori provengano da un locale (abilitato) in cui si svolga uno spettacolo musicale, per poter applicare comunque la fattispecie del reato di cui all’articolo 659 occorre in ogni caso dimostrare che le vibrazioni prodotte siano in grado di disturbare un numero indeterminato di persone, così da soddisfare il requisito della “turbativa della pubblica tranquillità”. Se tale prova non venga raggiunta in giudizio, il titolare del locale in cui si è svolto lo spettacolo musicale va assolto perché “il fatto non sussiste”.
Adescava i clienti
dall’alloggio in affitto
È stata denunciata alle autorità la donna che utilizzava per prostituirsi l’appartamento in affitto nel quale viveva, al piano terra di un condominio di Montecatini (Pistoia). La cosa che non è proprio andata giù ai suoi vicini è che la lucciola, una donna sulla cinquantina, fosse solita attrarre la propria clientela sporgendosi dalla finestra che affaccia sulla strada. Dopo averle chiesto, in più occasioni, di tenere una condotta più rispettosa, i condòmini hanno deciso di rivolgersi ad un avvocato che, per conto dell’assemblea condominiale, ha denunciato la signora alla Procura della Repubblica per disturbo della quiete pubblica.
Aggredito in ascensore
Salvato dai condòmini
Sono stati arrestati i due rapinatori di 37 e 44 anni colpevoli di aver aggredito e derubato un anziano che stava rientrando nel proprio appartamento, in un condominio della Capitale. L’uomo, di 81 anni, è stato raggiunto dai due malviventi mentre si trovava in ascensore. Dopo averlo percosso e derubato hanno cercato di fuggire, incappando però in altri due uomini che si trovavano di passaggio e che si sono avvicinati a seguito delle richieste di aiuto della vittima. I due “salvatori” sono riusciti a bloccare uno dei due fuggitivi e a descrivere dettagliatamente le caratteristiche del suo complice, che è stato fermato dai carabinieri del nucleo radiomobile in un bar poco distante. Gli arrestati dovranno rispondere di rapina aggravata in concorso.
Si getta dal balcone
per sfuggire alla moglie
Se l’è cavata con 30 giorni di prognosi e fratture multiple alla testa e al corpo l’uomo di 68 anni che viveva assieme alla moglie, di vent’anni più giovane, in un condominio alle porte di Modena, e che si sarebbe gettato dal balcone del suo appartamento per tentare sottrarsi alle percosse della donna. Atterrato rovinosamente sul terrazzo condominiale, l’uomo è riuscito a raggiungere la casa di un vicino per chiedere aiuto. È stato proprio quest’ultimo, terrorizzato da quella maschera di sangue, a chiamare il 118 e a richiedere l’intervento dei carabinieri. Una volta sul posto, i militari hanno arrestato la coniuge per lesione e maltrattamenti.
Canna fumaria ostruita:
i tetti vanno in fiamme
È stato l’intasamento di una canna fumaria a causare l’incendio che ha quasi distrutto due ville della prima cintura di Torino. Il rogo è divampato in serata e ha semidistrutto il tetto di uno dei due immobili per poi propagarsi verso l’altra abitazione. Sul posto sono intervenuti i vigili del fuoco che, dopo aver domato le fiamme, hanno accertato che l’incendio è stato generato, con ogni probabilità, dal mal funzionamento dello sfiatatoio di aerazione. Grazie alla rapidità dell’intervento, soltanto una delle due case è stata dichiarata inagibile. Nonostante le dimensioni e la portata del rogo, non si sono registrati feriti né intossicati.
Lascia le chiavi in auto
I ladri gli entrano in casa
Era andato in chiesa con la moglie, come faceva tutte le domeniche, lasciando nell’auto, parcheggiata poco distante, le chiavi del proprio appartamento. Una leggerezza fatale, quest’ultima, per un uomo di 76 anni di Perugia, che all’uscita della messa si è ritrovato con la macchina scassinata, una gomma bucata e, naturalmente, senza il mazzo di chiavi. Tornato a casa, quindi, l’ulteriore amara sorpresa: i ladri si erano introdotti nel suo alloggio in cerca di oggetti e denaro da rubare, lasciando le famose chiavi attaccate alla porta. A quanto pare però, non sono riusciti a portare via niente, se non una catenina d’oro.
[A cura di Confedilizia]
La nostra associazione è stata ascoltata in audizione dalla Commissione parlamentare per l’attuazione del federalismo fiscale, presieduta dall’onorevole Giancarlo Giorgetti, su “L’attuale distribuzione delle risorse nella fiscalità locale, gli effetti sul sistema perequativo e le prospettive di modifica”.
Dopo un intervento introduttivo del presidente di Confedilizia, Giorgio Spaziani Testa, ha svolto una relazione il professor Riccardo Puglisi, associato di economia politica all’Università di Pavia, il quale si è soffermato su due questioni fondamentali:
* necessità di fondare la tassazione sul principio del beneficio, anche al fine di responsabilizzare i governi locali;
* confutazione della cosiddetta “visione Ocse”.
L’opinione pubblica e il legislatore italiano – si legge nel documento depositato da Confedilizia in Parlamento – dovrebbero prestare maggiore attenzione al principio del beneficio, secondo cui le imposte sono una forma di pagamento a fronte dei servizi prestati e dei beni offerti da parte del settore pubblico dell’economia. L’idea contrattuale del rapporto tra tassazione e spesa pubblica che è implicita nel principio del beneficio ben si connette al tema politico della responsabilizzazione dei governi locali. Secondo una prospettiva liberale, un sistema tributario in cui il principio del beneficio ha un ruolo più ampio spinge maggiormente alla valutazione dell’operato dell’amministrazione pubblica come agente dei cittadini-contribuenti a cui deve rendere conto. E sotto il profilo concreto dell’imposizione fiscale futura, il principio del beneficio spinge verso la creazione di una service tax pagata da chi riceve i servizi offerti dal Comune.
Intorno a temi di tassazione e finanza pubblica – si rileva poi nel documento depositato – il dibattito internazionale e nazionale è stato largamente influenzato dalla cosiddetta “visione Ocse” su tassazione e crescita. Sulla base di risultati econometrici piuttosto deboli, tale visione suggerisce come lo spostamento del prelievo fiscale dalla tassazione diretta a quella indiretta, e dalla tassazione del reddito a quella della proprietà, abbia effetti positivi sulla crescita economica nel lungo termine. In un recente studio si mostra invece come l’evidenza empirica che sta alla base di questa “visione Ocse” sia molto fragile. Nella fattispecie, utilizzando tecniche econometriche maggiormente prudenti sulla precisione delle stime ed allargando il campione a un numero maggiore di Paesi Ocse e di anni (dal 1971 al 2014), si verifica come l’effetto positivo nel lungo termine di uno spostamento del prelievo dalle imposte dirette alle indirette, e dalle imposte sul reddito a quelle sulla proprietà, non risulti più significativo dal punto di vista statistico. Anzi: nel breve termine un aumento della tassazione sulla proprietà si correla negativamente con il Pil pro capite.
Nel corso del dibattito che è seguito, sono intervenuti – oltre allo stesso presidente Giorgetti – la senatrice Magda Zanoni, il senatore Vincenzo Gibiino e l’on. Giovanni Paglia.
[A cura di: Gian Vincenzo Tortorici – avvocato in Pisa]
L’incarico di amministratore di condominio è normalmente retribuito per l’intera annualità della gestione in cui l’amministratore stesso dura in carica, considerato che il testo dell’art. 1135, c. I, n. 1 cod. civ. prevede come “eventuale” la retribuzione dell’amministratore (Cass. civ., Sez. II, 31 maggio 2010, n. 13235).
Considerato che lo stesso legislatore, con il comma XIV dell’art. 1129 cod. civ., stabilisce che, per quanto non previsto dagli artt. 1129, 1130 e 1131 cod. civ., al rapporto contrattuale che s’instaura tra condominio e amministratore si applica la disciplina del mandato, per il combinato disposto degli artt. 1135 e 1709 cod. civ., l’attività prestata da quest’ultimo può essere a titolo gratuito; in questo caso l’onere della prova di tale gratuità compete al condominio che intenda farla valere.
ALIQUOTE
Il compenso dell’amministratore, che è gravato dalle aliquote concernenti la previdenza pensionistica, è soggetto alla ritenuta d’acconto ai sensi dell’art. 7, c. IX, del d. P. R. 29 settembre 1973, n. 605, così come integrato dalla legge 27 dicembre 1997, n. 449, che deve essere versata dal condominio in conseguenza dell’assoggettabilità del suddetto compenso alla tassazione Irpef; se l’amministratore svolga l’attività in modo sistematico e abituale, il compenso è soggetto anche a Iva (Cass. civ., Sez. V, 13 marzo 2009, n. 6136).
MAGGIORANZA
La retribuzione dell’amministratore deve essere approvata con la stessa maggioranza prevista per la sua nomina, ex art. 1136, comma II, cod. civ., vale a dire con una maggioranza che rappresenti almeno la metà del valore dell’edificio (cinquecento millesimi) e la maggioranza degli intervenuti all’assemblea condominiale. Qualora l’amministratore non venga confermato, sino alla nomina del suo successore deve svolgere la sola attività finalizzata alla soluzione delle problematiche urgenti in forma gratuita ex art. 1129, c. VIII, cod. civ..
GLI EXTRA
Normalmente non ha diritto ad alcun compenso extra l’amministratore che presti un’attività che esuli dal suo mandato gestionale ordinario, dovendosi ritenere ricompresa nel corrispettivo riconosciutogli al momento del conferimento dell’incarico (Cass. civ., Sez. II, 30 settembre 2013, n. 22313; Cass. civ., Sez. II, 28 aprile 2010, n. 10204). Il compenso de quo può essere, però, specificatamente approvato dall’assemblea condominiale. Tale approvazione può avvenire, sia in sede di assemblea annuale allorché si nomina un amministratore e il suo compenso, sia in sede di assemblea, così detta, straordinaria allorché si debbano deliberare opere di manutenzione o di ristrutturazione dello stabile, ovvero interventi innovativi ai beni e servizi condominiali, se non ne sia già previsto l’importo nel tariffario dell’amministratore.
Va, infatti, ribadito che in tema di condominio, l’attività dell’amministratore, connessa ed indispensabile allo svolgimento dei suoi compiti istituzionali, deve ritenersi compresa, quanto al suo compenso, nel corrispettivo stabilito al momento del conferimento dell’incarico per tutta l’attività amministrativa svolta nella vigenza della durata contrattuale e non deve, pertanto, essere retribuita a parte.
Si deve rammentare che il compenso dell’amministratore, inerente alle voci del proprio tariffario, sono sempre comprensive di tutta l’attività preparatoria e strumentale alla realizzazione concreta della stessa. Peraltro, non opera, ai fini del riconoscimento di un compenso suppletivo, in mancanza di una specifica delibera condominiale, la presunta onerosità del mandato, allorché sia stabilito un compenso forfetario a favore dell’amministratore, spettando comunque all’assemblea condominiale il compito generale di valutare l’opportunità delle spese sostenute dall’amministratore che, quindi, non può esigere neppure il rimborso di spese da lui anticipate, non potendo il relativo credito considerarsi liquido ed esigibile senza un preventivo controllo da parte dell’assemblea (Cass. civ., Sez. II, 30 settembre 2013, n. 22313).
TARIFFARIO
Il diritto al compenso dell’amministratore, che parte della giurisprudenza di merito ha ritenuto prescriversi nel termine di cinque anni ex art. 2948, n. 4 cod. civ., si prescrive in dieci anni a parere della Corte di Cassazione ex art. 2946 cod. civ., non trattandosi di obbligazione periodica, in quanto la durata annuale dell’incarico comporta la cessazione ex lege del rapporto (Cass. civ., Sez. II, 4 ottobre 2005, n. 19348; Trib. Napoli, Sez. II, 29 ottobre 2013, n. 11943). Il compenso dell’amministratore deve essere stabilito in base a un proprio tariffario di studio, non potendo egli riferirsi a tariffari di categoria non esistendo, questi, e non potendo essere previsti in relazione a quanto, già da tempo, ha stabilito l’Autorità garante della concorrenza (Antitrust); se sia un professionista iscritto a un Ordine, può riferirsi al tariffario di questo, anche se normalmente non esaustivo rispetto a quanto previsto dall’art. 1129, comma X, cod. civ.. Anche l’amministratore nominato dal Tribunale, non essendo un suo ausiliario, deve farsi approvare dall’assemblea il suo tariffario (Cass. civ., Sez. II, 27 luglio 2014, n. 16698).
ECCEZIONI
Da quanto dedotto, deriva che il compenso dell’amministratore deve essere sempre deliberato dall’assemblea e deve essere limitato all’attività effettivamente prestata, con la conseguenza che, ove il suo incarico sia interrotto prima della naturale scadenza del mandato, l’amministratore non ha diritto di percepire l’intera retribuzione deliberata (Cass. civ., Sez. II, 30 dicembre 2012, n. 18667).
Nulla impedisce, però, che, anche in vigenza dell’art. 1129 cod. civ. novellato, nei suoi ampi poteri, l’assemblea possa ratificare a posteriori un’attività, se necessaria e urgente, espletata dall’amministratore e ne determini, solo in tale frangente, il relativo compenso. Si tratta di una scelta di opportunità che l’assemblea può assumere con il quorum deliberativo di riferimento (Cass. civ., Sez. II, 22 luglio 2004, n. 13780), e se validamente approvata, non può essere impugnata, considerato che il sindacato dell’autorità giudiziaria non può estendersi al merito della delibera (Cass. civ., Sez. II, 3 dicembre 2008, n. 28734); anche il potere discrezionale dell’assemblea, di quantificare il compenso dell’amministratore all’atto del conferimento dell’incarico, non può essere valutato dal giudice se inerisca esclusivamente la congruità economica (Trib. Cagliari, Sez. II, 18 giugno 2015, in Leggi d’Italia).
Si ritiene, altresì, ammissibile un’approvazione del compenso, soltanto con il richiamo all’importo corrispondente nel rendiconto preventivo. In tal modo l’oggetto del contratto di mandato è comunque determinato o facilmente determinabile solo che dal testo del verbale emerga chiaramente questa circostanza, anche in occasione di ogni rinnovo tacito, sempre che non ne sia modificato l’ammontare. Infatti, in forza del comma X dell’art. 1129 cod. civ., l’amministratore deve specificare il suo compenso, precisando le voci del suo tariffario, che deve essere il più completo possibile.
La sanzione, disposta dal legislatore, consiste nella nullità dell’intero contratto di mandato e non soltanto della determinazione del quantum del compenso, poiché non sussistendo tariffe, questo non può essere stabilito dall’autorità giudiziaria, in relazione al combinato disposto dagli artt. 1419 e 1709 cod. civ..
Ut supra dedotto, se l’ammontare del compenso sia indicato nel rendiconto consuntivo, al quale deve essere allegato il tariffario, e il verbale dell’assemblea approvi sia l’uno sia l’altro, la nomina non può essere invalida, considerato che l’oggetto del contratto è facilmente determinabile per il combinato disposto dagli artt. 1418 e 1346 cod. civ..
Tra l’altro, considerato che l’amministratore dura in carica un anno, rinnovabile di un ulteriore anno, qualora al secondo anno l’amministratore intendesse mutare la sua retribuzione, cambiando una clausola contrattuale, la durata del rapporto deve essere deliberata quale nomina ex novo.
PROBLEMATICHE
Due sono le problematiche che il disposto del comma XIV dell’art. 1129 cod. civ. pone:
1) l’amministratore deve far approvare, dall’assemblea, un proprio tariffario analitico, per evitare di omettere l’inserimento di alcune prestazioni che intenda farsi retribuire, non potendo più pretenderle successivamente; infatti, con il nuovo testo legislativo inerente alla nullità del contratto, si deve ritenere che non sia ammissibile una ratifica a posteriori, poiché un contratto nullo non può essere convalidato ex art. 1423 cod. civ.;
2) l’amministratore deve far risultare, dal verbale d’assemblea, la proposta di tariffario e la sua accettazione.
Considerato che la sanzione concernente la violazione del dettato legislativo consiste nella nullità dello stesso contratto di mandato, la cui azione è imprescrittibile ai sensi dell’art. 1422 cod. civ., ciascun condomino può, anche a distanza di anni, contestare la nomina. La conseguenza è, dichiarata la nullità del contratto, la sua inefficacia ex tunc, e l’amministratore può essere obbligato a restituire il compenso percepito negli anni, salva la possibilità di richiedere un indennizzo per l’utilità che il condominio ha comunque ricavato dalla sua opera, ai sensi dell’art. 2041 cod. civ..
[A cura di Fulvio Graziotto – www.studiograziotto.com]
È legittimo il diniego di accesso agli atti amministrativi all’amministratore del condominio che non dimostra la propria legittimazione ai sensi degli artt. 1130 e 1131 codice civile. È quanto disposto dal Tribunale Regionale di Giustizia Amministrativa, sezione autonoma di Bolzano, con la sentenza n. 133/2016
LA QUESTIONE
L’amministratore di un condominio richiedeva l’accesso agli atti relativi alle autorizzazioni di un vicino impianto di distributori di carburanti. La richiesta alla Provincia e al Comune era stata inviata via posta elettronica certificata senza firma digitale, e non era stata formulata in nome del condominio; mancava, inoltre, la dimostrazione della necessaria deliberazione autorizzativa dell’assemblea condominiale. A seguito del silenzio della Provincia, l’amministratore proponeva ricorso al T.A.R. (Tribunale Amministrativo Regionale), che lo ha ritenuto inammissibile per difetto di legittimazione attiva dell’amministratore condominiale.
LA DECISIONE
Il T.A.R. dapprima rileva che «Il ricorso in esame è stato presentato dal Condominio R., “in persona dell’Amministratore e legale rappresentante pt, Rag. S. K.”, il quale dichiara di agire in giudizio in nome e per conto del Condominio, senza però fornire alcuna prova in ordine al proprio potere di rappresentanza in giudizio nel caso specifico».
Poi ricorda che «l’art. 1130 c.c. stabilisce quali poteri spettano all’amministratore del condominio», e che «il potere di rappresentanza dell’amministratore condominiale è limitato alle attribuzioni di cui alla citata disposizione, salvo il caso in cui il regolamento condominiale o l’assemblea, con propria deliberazione, gli attribuiscano poteri maggiori, così come previsto dall’art. 1131 c.c., il quale così recita: “Nei limiti delle attribuzioni stabilite dall’articolo 1130 o dei maggiori poteri conferitigli dal regolamento di condominio o dall’assemblea, l’amministratore ha la rappresentanza dei partecipanti e può agire in giudizio sia contro i condòmini sia contro i terzi. Può essere convenuto in giudizio per qualunque azione concernente le parti comuni dell’edificio; a lui sono notificati i provvedimenti dell’autorità amministrativa che si riferiscono allo stesso oggetto. Qualora la citazione o il provvedimento abbia un contenuto che esorbita dalle attribuzioni dell’amministratore, questi è tenuto a darne senza indugio notizia all’assemblea dei condòmini”».
L’assemblea
Il Collegio richiama poi il costante orientamento giurisprudenziale in tema di legittimazione condominiale: «Secondo un costante orientamento giurisprudenziale, “nel condominio, in materia di azioni processuali, il potere decisionale spetta solo ed esclusivamente all’assemblea, la quale deve deliberare se agire in giudizio, se resistere e se impugnare i provvedimenti in cui il condominio risulta soccombente. Un tale potere decisionale non può competere in via autonoma all’amministratore che, per sua natura, non è un organo decisionale, ma meramente esecutivo del condominio” (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 8 ottobre 2013, n. 4944; nello stesso senso, Sez. VI, 8 ottobre 2013, n. 4944; TAR Campania, Napoli, Sez. VI, 8 maggio 2014, n. 2511 e Cassaz. Sez. Un., 6 agosto 2010, n. 18331)».
La legittimazione
Poi il T.A.R. affronta la questione relativa alla legittimazione attiva dell’amministratore nel processo amministrativo: «Nel caso di specie l’amministratore non ha dimostrato in giudizio di essere stato autorizzato dall’assemblea condominiale a proporre l’azione di accesso di cui all’art. 116 c.p.a., né l’esercizio di tale azione può farsi rientrare in una delle attribuzioni proprie dell’amministratore, tassativamente elencate nel citato art. 1130 c.c..».
Con la conseguenza che «Il ricorso deve, pertanto considerarsi inammissibile, per difetto di legittimazione processuale dell’amministratore del Condominio ricorrente».
L’inammissibilità
In ogni caso, il Collegio rafforza la decisione chiarendo che «Ad abundantiam, va aggiunto che è fondata anche l’eccezione subordinata di inammissibilità, sollevata dalla difesa provinciale sul rilievo che, da un lato, la richiesta di accesso agli atti, inviata tramite posta elettronica certificata (PEC) il 22 novembre 2015, proviene dalla casella PEC della ditta P. (di cui non si conoscono i legami con il Condominio) e non da una casella PEC riconducibile al Condominio R. e al suo amministratore e, dall’altro lato, che la richiesta inviata mediante PEC è priva della firma digitale, cosicché non risulta avvenuto, né provato, alcun ricevimento da parte del destinatario. Osserva a tal riguardo il Collegio che la firma digitale, nella PEC, costituisce l’equivalente informatico della tradizionale firma autografa apposta su carta e serve a garantire l’identità del sottoscrittore, ad assicurare che il documento non sia stato modificato dopo la sua sottoscrizione e ad attribuire piena validità legale al documento».
Ne deriva pertanto che «Nel caso di specie, mancando la firma digitale, non è possibile attestare l’integrità e l’autenticità della sottoscrizione dell’amministratore del Condominio ricorrente, né la validità della manifestazione di volontà contenuta nella richiesta di accesso, considerato che essa proviene da una casella PEC intestata ad una società (P. Sas) che, in assenza di prova contraria, non ha alcun collegamento».
OSSERVAZIONI
Nel decidere sulla questione, il T.A.R. ha rilevato il difetto di legittimazione processuale dell’amministratore condominiale, e ha ricordato che, mancando la firma digitale sulla richiesta di accesso agli atti inviata tramite PEC dalla una casella di una ditta (e non del condominio), non era possibile attestare l’integrità e l’autenticità della sottoscrizione dell’amministratore del condominio,
LE FONTI
Codice Civile
CAPO II – Del condominio negli edifici
Art. 1130 – Attribuzioni dell’amministratore
L’amministratore, oltre a quanto previsto dall’articolo 1129 e dalle vigenti disposizioni di legge, deve:
1) eseguire le deliberazioni dell’assemblea, convocarla annualmente per l’approvazione del rendiconto condominiale di cui all’articolo 1130-bis e curare l’osservanza del regolamento di condominio;
2) disciplinare l’’uso delle cose comuni e la fruizione dei servizi nell’interesse comune, in modo che ne sia assicurato il miglior godimento a ciascuno dei condòmini;
3) riscuotere i contributi ed erogare le spese occorrenti per la manutenzione ordinaria delle parti comuni dell’edificio e per l’esercizio dei servizi comuni;
4) compiere gli atti conservativi relativi alle parti comuni dell’edificio;
5) eseguire gli adempimenti fiscali;
6) curare la tenuta del registro di anagrafe condominiale contenente le generalità dei singoli proprietari e dei titolari di diritti reali e di diritti personali di godimento, comprensive del codice fiscale e della residenza o domicilio, i dati catastali di ciascuna unità immobiliare, nonché ogni dato relativo alle condizioni di sicurezza delle parti comuni dell’edificio. Ogni variazione dei dati deve essere comunicata all’amministratore in forma scritta entro sessanta giorni. L’amministratore, in caso di inerzia, mancanza o incompletezza delle comunicazioni, richiede con lettera raccomandata le informazioni necessarie alla tenuta del registro di anagrafe. Decorsi trenta giorni, in caso di omessa o incompleta risposta, l’amministratore acquisisce le informazioni necessarie, addebitandone il costo ai responsabili;
7) curare la tenuta del registro dei verbali delle assemblee, del registro di nomina e revoca dell’amministratore e del registro di contabilità. Nel registro dei verbali delle assemblee sono altresì annotate: le eventuali mancate costituzioni dell’assemblea, le deliberazioni nonché le brevi dichiarazioni rese dai condomini che ne hanno fatto richiesta; allo stesso registro è allegato il regolamento di condominio, ove adottato. Nel registro di nomina e revoca dell’amministratore sono annotate, in ordine cronologico, le date della nomina e della revoca di ciascun amministratore del condominio, nonché gli estremi del decreto in caso di provvedimento giudiziale. Nel registro di contabilità sono annotati in ordine cronologico, entro trenta giorni da quello dell’effettuazione, i singoli movimenti in entrata ed in uscita. Tale registro può tenersi anche con modalità informatizzate;
8) conservare tutta la documentazione inerente alla propria gestione riferibile sia al rapporto con i condomini sia allo stato tecnico-amministrativo dell’edificio e del condominio;
9) fornire al condomino che ne faccia richiesta attestazione relativa allo stato dei pagamenti degli oneri condominiali e delle eventuali liti in corso;
10) redigere il rendiconto condominiale annuale della gestione e convocare l’assemblea per la relativa approvazione entro centottanta giorni.
Art. 1131 – Rappresentanza
Nei limiti delle attribuzioni stabilite dall’articolo 1130 o dei maggiori poteri conferitigli dal regolamento di condominio o dall’assemblea, l’amministratore ha la rappresentanza dei partecipanti e può agire in giudizio sia contro i condòmini sia contro i terzi.
Può essere convenuto in giudizio per qualunque azione concernente le parti comuni dell’edificio; a lui sono notificati i provvedimenti dell’autorità amministrativa che si riferiscono allo stesso oggetto.
Qualora la citazione o il provvedimento abbia un contenuto che esorbita dalle attribuzioni dell’amministratore, questi è tenuto a darne senza indugio notizia all’assemblea dei condòmini.
L’amministratore che non adempie a quest’obbligo può essere revocato ed è tenuto al risarcimento dei danni.
[A cura di: avv. Mario Fiamigi – vice presidente Nazionale APPC]
Un momento cruciale della vita condominiale è sicuramente quello di transizione dalla gestione dell’amministratore appena cessato a quello appena nominato. Questa situazione ha trovato una sua esplicitazione normativa nella riforma del condominio. Il testo novellato dell’art. 1129, ottavo comma, recita “alla cessazione dell’incarico, l’amministratore è tenuto alla consegna di tutta la documentazione in suo possesso afferente al condominio e ai singoli condòmini e ad eseguire le attività urgenti al fine di evitare pregiudizi agli interessi comuni senza diritto ad ulteriori compensi”.
Nulla questio riguardo alla prima parte che esplicita il dovere di restituzione previsto dall’art. 1713 cc per il quale il mandatario deve rendere il conto al mandante del suo operato e rimettergli tutto ciò che ha ricevuto a causa del mandato. L’amministratore infatti è il mero custode della documentazione. Vedasi a questo proposito, tra le altre, la sentenza del Tribunale di Roma, numero 10818 del 25 gennaio 2007.
Gravi problemi di interpretazione pone invece l’obbligo di eseguire le attività urgenti al fine di evitare pregiudizi agli interessi comuni in un momento temporale successivo alla cessazione dell’incarico. Si tratta di una sorta di “prorogatio” per compiere attività che non sono esplicitate ma che sono finalizzate solo ad evitare pregiudizi. Non si comprende, però, perché tali urgenze non potrebbero essere compiute dall’amministratore legittimamente nominato. Si tratta di una disposizione che evidentemente non è conforme ai principi generali e che appare di difficile coordinamento con il sistema di diritto condominiale.
Conseguenze della mancata consegna
È evidente che non provvedere alla restituzione della documentazione amministrativa comporta gravissimi problemi: basti pensare all’impossibilità di redigere il bilancio, di affrontare gli obblighi previdenziali e assistenziali nonché gli adempimenti fiscali. La giurisprudenza ha certificato questo stato di crisi definendolo nella sentenza 11472 del 28 ottobre 1991 ove si legge che “la mancata disponibilità da parte del nuovo amministratore di tutta la documentazione contabile, in relazione alle notorie incombenze di diverso genere e natura che gravano sull’amministrazione di un condominio, può determinare per i condòmini un grave ed irreparabile pregiudizio non agevolmente commisurabile per la situazione di stallo che si verrebbe a creare”.
I rimedi processuali
La sopracitata sentenza evidenzia come la mancata consegna espone il condominio a vari rischi che certamente rientrano nella nozione di periculum in mora e quindi giustificano il ricorso alla procedura d’urgenza ex art. 700 cpc. Come per tutte le azioni cautelari, l’amministratore in carica potrà procedere giudizialmente senza la preventiva autorizzazione assembleare in forza della legittimazione processuale conferita dall’art. 1130 cc; peraltro non si deve dimenticare che anche i singoli condòmini hanno un’autonoma legittimazione processuale. Ricordiamo ancora che questa tipologia di azioni non è soggetta al tentativo obbligatorio di mediazione (art. 5 dlgs 28/2010).
Ovviamente il procedimento cautelare è finalizzato ad ottenere la riconsegna della documentazione, ma l’omissione della consegna configura una responsabilità per danni che può essere fatta valere per via ordinaria. Il Tribunale di Milano (sentenza 448/2010) ha condannato un amministratore uscente che non aveva consegnato tutta la documentazione al risarcimento quantificato in via equitativa nell’importo di euro 15.000.
Le fattispecie penali
La mancata consegna può configurarsi anche come illecito penale sotto due profili. In un primo caso, qualora si sia ottenuto un provvedimento formale da parte del Giudice Civile, si potrebbe configurare il reato di mancata esecuzione dolosa di un ordine del giudice previsto dall’art. 388 codice penale. Indipendentemente dall’esistenza di un provvedimento giudiziario può anche configurarsi il reato di appropriazione indebita previsto dall’art. 646 del codice penale. La Corte di Cassazione (sentenza 31192 del 16 luglio 2014) ha confermato che il rifiuto di consegnare la documentazione configura un comportamento penalmente rilevante ai sensi dell’art. 388 del codice penale, salvo che la disposizione sia per qualche motivo ineseguibile, e che tale comportamento sarebbe prova di un proprio interesse ad impedire che si possa effettuare un controllo sulla gestione condominiale configurando pertanto l’esistenza del dolo specifico (la volontà di perseguire l’ingiusto profitto) necessario perché si realizzi la fattispecie delittuosa dell’art. 646 cp.
I documenti che devono essere consegnati
Può accadere di trovarsi nella difficoltà pratica di individuare i documenti che necessariamente devono essere consegnati. Il Tribunale di Palermo, con ordinanza in data 28 gennaio 2014, ha stilato un elenco analitico della documentazione non limitandosi a un generico richiamo.
Per la precisione questa è la lista:
* ultimo bilancio approvato;
* elenco dei condòmini e relativi indirizzi;
* tabelle millesimali e regolamento condominiale;
* chiavi e timbri;
* registri dei verbali di assemblea;
* contratti con le ditte fornitrici e relative fatture;
* libretti di esercizio e documentazione relativa agli impianti;
* codice fiscale del condominio;
* passaggio del conto corrente e chiavi di accesso on line;
* polizza di assicurazione;
* certificato di prevenzione incendi;
* contratti di appalto dei lavori in corso di esecuzione;
* atti giudiziari relativi a contenziosi che hanno coinvolto il condominio;
* certificazione del modello 770 nonché la comunicazione all’anagrafe tributaria dell’ammontare dei beni e servizi;
* documentazione di chiusura cassa;
* ogni altra documentazione condominiale di carattere contabile o amministrativo
Il credito dell’ex amministratore
È cosa relativamente frequente che al momento del passaggio delle consegne l’amministratore cessato vanti un credito nei confronti del condominio e inserisca tale pretesa nel verbale di formalizzazione del passaggio. Peraltro la sottoscrizione dell’amministratore entrante non è sufficiente a rendere esigibile tale credito essendo indicativa della mera ricevuta della documentazione. Secondo la Giurisprudenza, l’amministratore che chiede la restituzione degli “anticipi” deve dimostrare che le somme versate nel patrimonio del condominio, oltre a non essere state successivamente restituite, provengono dal suo patrimonio personale. Quindi occorrerà una prova documentale con la produzione di assegni o di bonifici tratti dal suo conto corrente e versati su quello del condominio. Questo principio è stato recentemente ribadito dalla sentenza del Tribunale di Roma n. 17248 del 20 settembre 2016.
L’obbligo di agire
Ricordiamo infine che l’amministratore in carica che non si attivasse per recuperare la documentazione potrebbe essere soggetto a propria volta ad azione di responsabilità. L’obbligo di diligenza del mandatario gli impone l’onere di agire in ogni modo possibile per entrare in possesso delle carte che costituiscono il presupposto per eseguire correttamente i compiti che la legge gli assegna quali l’esecuzione degli adempimenti fiscali previsti dall’art. 1130 comma 1 n. 4 e la conservazione della documentazione previsto dall’art. 1130, comma 1, numero 8.
Peraltro, tale norma ribadisce l’obbligo di conservazione della documentazione condominiale anche se “solo “alla propria gestione e non alle precedenti o comunque a tutto ciò che sia stato ricevuto dal precedente amministratore in sede di passaggio di consegne. In ogni caso sembra assai difficile che l’amministratore non sia tenuto alla conservazione di tutta la documentazione ricevuta in ordine alla gestione dell’edificio e non solo quella della “sua” gestione.