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ENTRATE, CIRCOLARE OMNIBUS, PRIMA PUNTATA: LA RIQUALIFICAZIONE ENERGETICA

Nei giorni scorsi l’Agenzia delle Entrate ha pubblicato la Circolare n. 20/E con la quale fornisce tutti i chiarimenti fiscali inerenti le prescrizioni introdotte dalla legge di Stabilità. 

Pubblichiamo giorno per giorno, a puntate, le risposte ai dubbi che hanno a che vedere con casa, condominio e settore immobiliare.

RIQUALIFICAZIONE ENERGETICA 

Il comma 74 proroga al 31 dicembre 2016 la detrazione, nella misura del 65 per cento, delle spese sostenute per:

* gli interventi di riqualificazione energetica degli edifici esistenti di cui all’art.1, commi da 344 a 347 della legge n. 296 del 2006;

* l’acquisto e la posa in opera delle schermature solari di cui all’allegato M al decreto legislativo 29 dicembre 2006, n. 311;

* l’acquisto e la posa in opera di impianti di climatizzazione invernale con impianti dotati di generatori di calore alimentati da biomasse combustibili;

* gli interventi di riqualificazione energetica relativi a parti comuni degli  edifici di cui agli articoli 1117 e 1117-bis del codice civile o che interessino tutte le unità immobiliari di cui si compone il singolo condominio.

La proroga è disposta modificando i termini di scadenza indicati nell’art. 14 del decreto legge n. 63 del 2014 che già prorogava al 31 dicembre 2015 le detrazioni per gli interventi di efficienza energetica, senza modificarne l’impianto normativo di riferimento. Pertanto, restano valide le disposizioni istitutive dell’agevolazione, i relativi decreti e provvedimenti di attuazione, salvo aggiornamenti che potrebbero essere introdotti con decreto del Ministero dello Sviluppo economico per tener conto dell’adeguamento degli standard energetici, nonché i documenti di prassi che ne hanno illustrato l’applicazione.

CRONACA FLASH DALLA CASA E DAL CONDOMINIO

Torturato e ucciso

perché rifiuta lo sfratto

È morto in casa dopo una lunga serie di sevizie l’uomo di 33 anni, residente in un paesino della provincia di Parma, che si era rifiutato di liberare l’appartamento dal quale era stato sfrattato. A finire in manette per l’omicidio del 33enne sono stati il compagno della proprietaria dell’alloggio e altri cinque complici. Secondo le indagini, sembra che l’intenzione del commando, armato di mazze e spranghe, fosse quella di convincere lo sfrattato a lasciare la casa “con le cattive”. Resta da capire come sia stato possibile che la situazione sia degenerata a tal punto.

Esplosione in condominio

Muore carbonizzato

Tragedia al quinto piano di una palazzina in provincia di Forlì, dove un uomo di 54 anni è morto carbonizzato a seguito dell’incendio del monolocale nel quale viveva in affitto. A innescare le fiamme è stata una potente deflagrazione, probabilmente scaturita da una fuga di gas, che ha letteralmente fatto saltare in aria l’appartamento. Una volta domate le fiamme, il 54enne è stato trasportato nel reparto grandi ustioni dell’ospedale, ma per lui non c’è stato nulla da fare.

Cede ringhiera del balcone

uomo precipita nel vuoto

È morto sul colpo l’uomo di 39 anni precipitato dal balcone del suo appartamento, situato al secondo piano di una palazzina nel bresciano. Secondo la ricostruzione dell’accaduto, la vittima era uscita sul terrazzo per fumare una sigaretta e si trovava appoggiato alla ringhiera, quando questa ha ceduto improvvisamente, facendolo cadere nel vuoto per oltre 10 metri. Dal racconto dei vicini, sembra che la vittima avesse già segnalato alla proprietà il pericoloso stato in cui versava la balconata. Oltre alla compagna, il 39enne lascia un figlio di appena un anno e mezzo.

Scoperto un capriolo 

nel giardino di casa

Pomeriggio decisamente fuori dall’ordinario per una famiglia residente in un comune della provincia di Novara. Verso le 17,30, infatti, hanno sentito dei lamenti provenire dal giardino della loro villetta e, quando sono andati a vedere di cosa si trattasse, si sono trovati di fronte un esemplare di capriolo maschio, dell’età di 2 anni, rimasto incastrato nella recinzione di ferro che circonda la proprietà. L’animale è stato liberato e trasportato in un parco naturalistico della zona grazie all’intervento del Centro per il recupero dei mammiferi selvatici.

Incendio per ripicca

Arrestato vicino di casa

Un uomo di 33 anni, residente in provincia di Latina è stato arrestato per aver tentato di dar fuoco all’abitazione del vicino di casa, colpevole di essersi intromesso per sedare una lite tra questi e la sorella. A spegnere le fiamme è stato un altro condomino della palazzina, che aveva notato il piromane scendere le scale con un accendino e una bottiglia d’alcol in mano, farfugliando frasi sconnesse. 

IL VERBALE D’ASSEMBLEA NON RIPORTA LA VOTAZIONE CORRETTA. COME IMPUGNARLO?

Il verbale assembleare costituisce a tutti gli effetti una prova di quanto deciso del condominio e con quali maggioranze. Ma che cosa accade se nel documento figurano errori oppure se l’esito delle votazioni non è riportato correttamente? È il quesito posto da uno spettatore nell’ambito della rubrica legale del Tg del Condominio. Di seguito la risposta fornita dall’avvocato Silvia Picollo di Alessandria.

D. Sono proprietaria di un appartamento al pian terreno di una palazzina di 4 piani. Recentemente il nostro condominio ha dovuto affrontare una spesa straordinaria relativa alla scala comune. In sostanza, l’amministratore (e la maggioranza dei condòmini) ha ritenuto opportuno togliere la copertura in legno delle pareti della scala e ritinteggiarle. Durante l’assemblea ho espresso il mio voto contrario e ho provato ad impugnare il verbale per oppormi alla decisione e far valere le mie ragioni di fronte al giudice.

Il problema è che, nel verbale, risulta che la decisione sia stata presa all’unanimità. Come devo comportarmi? Cosa posso fare per impugnare il verbale? E, soprattutto, come posso dimostrare che il verbale è stato compilato male? Non dovrebbe occuparsene l’amministratore o chi ha compilato il verbale?

Risponde l’avv. Silvia Picollo

R. Se il condomino, proprietario di un immobile facente parte di un condominio, in assemblea ha effettivamente espresso la sua volontà contraria all’esecuzione di lavori straordinari, ma di ciò non si è dato atto nel relativo verbale, facendo risultare l’unanimità dei consensi, questa invalidità può essere contestata, ma ovviamente l’onere probatorio è a carico di chi agisce, eventualmente anche ricorrendo alle testimonianze dei presenti.

Nella fattispecie non è ravvisabile un illecito penale, in quanto potrebbe trattarsi di falso ideologico che non integra l’ipotesi di reato, oggi peraltro depenalizzato, previsto e punito dall’art. 485 c.p. in quanto ricomprendente la sola ipotesi di falsità materiale in scrittura privata.

Si può, pertanto, intraprendere la sola via civilistica: ciò significa procedere con l’impugnativa della delibera assembleare invalida avanti il Tribunale competente per territorio. L’atto legale, da notificare a mezzo ufficiale giudiziario, necessariamente redatto con l’ausilio di un avvocato, può essere proposto in qualsiasi momento: non esistono cioè termini perentori entro i quali agire, ed è diretto a far dichiarare al giudice la nullità della delibera. 

Il giudizio dovrebbe essere promosso e svolto nei confronti del presidente e del segretario della stessa assemblea condominiale, i quali, essendo i redattori e sottoscrittori del verbale, sono anche gli autori del falso. Il condominio, pertanto, non ha legittimazione passiva, ma può essere chiamato in giudizio affinché la pronuncia faccia stato nei suoi confronti.

A maggiore precisazione, dal quesito emerge che l’estensore del verbale, in modo del tutto non veritiero, ha dato atto dell’unanimità dei consensi circa l’approvazione di lavori straordinari, senza riportare il nominativo dei condòmini dissenzienti che avrebbe portato ad un risultato differente della votazione. Per legge, il verbale deve documentare lo svolgimento dell’assemblea condominiale: infatti l’art. 1136 c.c. prescrive che “delle deliberazioni assembleari si redige processo verbale da trascriversi in un registro tenuto dall’amministratore”: naturalmente quello che viene riportato deve essere veritiero. Ciò significa che il verbale assembleare, così redatto, è da considerarsi contrario alla legge, mancando di quegli elementi essenziali che la norma prevede. Il relativo vizio, a parere dello scrivente, costituisce motivo di declaratoria di nullità della delibera.

In ogni caso, per ragioni di maggiore tutela della condomina dissenziente, si ritiene opportuno procedere all’impugnativa della predetta delibera entro il termine di legge di trenta giorni previsto per le delibere annullabili, se non ancora decorsi, facendo eventualmente valere la nullità o l’annullabilità della medesima, e rimettendo in tale modo al giudicante la valutazione di merito del motivo dell’invalidità dell’atto impugnato. 

PIGNORABILE L’INTERO BENE IN COMUNIONE LEGALE CON L’ALTRO CONIUGE

[A cura di: Fulvio Graziotto – Studio Graziotto, http://www.studiograziotto.com/]

Nel caso di debito di un coniuge in regime di comunione legale dei beni, il creditore pignora l’intero bene, senza che l’altro coniuge possa escludere la sua quota ideale dal pignoramento. È quanto ribadito dalla Corte di Cassazione con la sentenza 6230/2016.

IL CASO

A seguito della procedura esecutiva immobiliare su un immobile sul quale i due coniugi vantavano diritti per la complessiva metà in comunione legale, uno dei due proponeva opposizione di terzo – ex art. 619 codice di procedura civile – avverso la procedura esecutiva pendente, ad istanza della banca, nei confronti del consorte. In sede di opposizione veniva dedotta l’illegittimità della vendita dell’immobile realizzata con decreto di trasferimento, in quanto lesiva dei diritti dominicali relativi alla sua quota parte di 1/4 indiviso dell’immobile.

Il Tribunale respingeva l’opposizione perché in parte inammissibile (ai sensi dell’art. 620 c.p.c.) e in parte infondata (ai sensi dell’art. 2921 codice civile). La Corte di Appello rigettava l’appello della consorte, che proponeva ricorso per cassazione affidandosi a sette motivi.

LA DECISIONE

I ricorrenti avevano sollevato il problema dell’integrità del contraddittorio fin dal primo grado, e la Cassazione chiarisce che, sebbene l’aggiudicataria dell’immobile trasferito in virtù del processo esecutivo non ha mai preso parte al giudizio, tuttavia la mancata partecipazione dipende «dalla consapevole e reiterata scelta processuale della medesima opponente originaria (se non pure del debitore intervenuto in appello), di impostare l’azione come opposizione di terzo all’esecuzione, insistendo nel qualificarla ammissibile anche dopo la vendita del bene, nonostante la lettera della norma codicistica: in quanto tale, cioè in quanto opposizione di terzo ad esecuzione, non è insostenibile che l’azione allora non vada proposta contro nessun altro che non sia già parte del processo esecutivo fino ad un tempo immediatamente precedente la vendita e quindi contro nessun altro che debitore e creditori, proprio perché la fattispecie processuale è data per l’ipotesi in cui la vendita non ha avuto ancora luogo. La solo apparente pretermissione dell’aggiudicataria dipende così esclusivamente dalla qualificazione dell’azione, costantemente sostenuta prima soltanto dall’opponente e poi pure dall’interventore; la quale qualificazione condiziona la verifica della pienezza e ritualità del contraddittorio, determinandone l’esito positivo anche in questa sede». E conseguentemente ritiene che «Per avere la S. impostato l’azione come opposizione di terzo ad esecuzione e per essere questa data – ma, ben significativamente, proprio prima della vendita – solo nei confronti di debitore e creditori perché presumibili uniche controparti prima della vendita, allora, il contraddittorio è stato ab origine integro».

Il Collegio anzitutto delimita il nucleo centrale della questione: «la fattispecie si incentra sulla pretesa illegittimità del pignoramento in quanto riferito ad un bene almeno in parte ricadente nella comunione legale tra i coniugi».

Poi la Corte affronta la questione della legittima (e necessaria) aggressione dei beni nella loro interezza: «la giurisprudenza di questa Corte (Cass. 14 marzo 2013, n. 6575) ha già concluso per la necessità e la contemporanea legittimità, in un contesto in cui è costante la qualificazione di quella comunione come comunione senza quote o a mani riunite, dell’aggressione esecutiva di ognuno dei beni di essa facente parte, esclusivamente nella sua interezza e non per una inesistente quota della metà, salvo il diritto del coniuge non debitore a percepire, in sede di distribuzione del ricavato, la metà del ricavato (al lordo delle spese di procedura) della vendita del bene. Ed è pure stato specificato che il coniuge non debitore, che la precedente giurisprudenza di questa Corte di legittimità, senza affrontare però ex professo il problema, abilitava a proporre le opposizioni agli atti esecutivi o perfino di terzo, potrà certo esperirle: ma, quanto all’opposizione di terzo, non potrà con essa pretendere di escludere dall’espropriazione una quota del bene in natura, che non gli spetta e di cui – fino allo scioglimento della comunione, anche solo limitatamente a quel bene e dovuto alla conclusione del procedimento espropriativo che lo aveva ad oggetto – non è titolare, ma, ad esempio, fare valere la proprietà esclusiva del bene staggito, per sua estraneità alla comunione; oppure, con opposizione ad esecuzione, far valere la non sussidiarietà del bene in comunione, per la presenza di beni personali del coniuge debitore utilmente aggredibili per il soddisfacimento del credito personale verso quest’ultimo; oppure ancora, con opposizione agli atti esecutivi, fare valere le nullità di quelli, fra questi, che comportino la violazione o la limitazione del suo diritto alla metà del controvalore del bene, come pure quelli che incidano sulla pienezza di quest’ultimo, se relativi alle operazioni di vendita o assegnazione».

E la Cassazione illustra anche le ragioni a sostegno di questa soluzione: «deve confermarsi che la soluzione prescelta da Cass. 6575/13 continua ad apparire, finché almeno non riterrà di intervenire il legislatore, la meno incoerente con il sistema, tutelando – mediante la notificazione al coniuge non debitore del pignoramento (ma non potendosi escludere l’efficacia di un qualsiasi atto ad esso equipollente), poiché anche lui, pur non essendovi formalmente assoggettato, risente direttamente degli effetti dell’espropriazione in concreto posta in essere, con diritti e doveri identici a quelli del coniuge debitore esecutato (per debito suo personale o proprio) – almeno il suo diritto a non vedere uscire dalla comunione legale (effetto inevitabile della vendita, a sua volta ineliminabile nell’attuale regime dell’art. 600 cod. proc. civ. per l’impossibilità di vendere una quota che non esiste, così oltretutto inserendovi un estraneo al rapporto di coniugio) un bene, senza percepire quanto meno il controvalore lordo di esso (salve le regole di attribuzione di cui all’art. 195 cod. civ. e ss.)».

Nel concludere rigettando il ricorso, la Suprema Corte afferma che «bene è stata applicata ad essa il seguente principio di diritto: per il debito di uno dei coniugi correttamente è sottoposto a pignoramento l’intero il bene, pure se in parte compreso nella comunione legale con l’altro coniuge, con conseguente esclusione di ogni irritualità o illegittimità degli atti tutti della procedura, fino all’aggiudicazione ed al trasferimento di quello in favore di terzi compresi, nonché con esclusione della fondatezza della pretesa del debitore esecutato e dell’opponente originaria non solo di caducare tali atti, ma pure di separare di quel bene parti o quote o di conseguire dalla procedura esiti diversi dalla vendita per l’intero, salva la corresponsione al coniuge non debitore, in sede di distribuzione, della metà del ricavato lordo di essa, dovuta in dipendenza dello scioglimento, avutosi sia pure in via eccezionale limitatamente a quel bene, ma per esigenze di giustizia ed all’atto del decreto di trasferimento, della comunione legale in parola».

OSSERVAZIONI

In sostanza, la Cassazione ribadisce che la comunione legale è considerata una “comunione senza quote”, i cui partecipanti sono contitolari ei beni comuni nella loro interezza, senza che possa fissare il loro diritto su una specifica quota come nel caso della comunione ordinaria. È questa la ragione per la quale il coniuge non può pretendere che l’espropriazione si limiti a una porzione del bene o a una quota ideale, ma potrà solo partecipare alla distribuzione del ricavato dalla vendita.

DISPOSIZIONI RILEVANTI

* Codice di procedura civile

– CAPO II – Delle opposizioni di terzi

– Art. 619 – Forma dell’opposizione

“Il terzo che pretende avere la proprietà o altro diritto reale sui beni pignorati può proporre opposizione con ricorso al giudice dell’esecuzione, prima che sia disposta la vendita o l’assegnazione dei beni.

Il giudice fissa con decreto l’udienza di comparizione delle parti davanti a sè e il termine perentorio per la notificazione del ricorso e del decreto.

Se all’udienza le parti raggiungono un accordo il giudice ne dà atto con ordinanza, adottando ogni altra decisione idonea ad assicurare, se del caso, la prosecuzione del processo esecutivo ovvero ad estinguere il processo, statuendo altresì in questo caso anche sulle spese; altrimenti il giudice provvede ai sensi dell’articolo 616 tenuto conto della competenza per valore”.

– Art. 620 – Opposizione tardiva

“Se in seguito all’opposizione il giudice non sospende la vendita dei beni mobili o se l’opposizione è proposta dopo la vendita stessa, i diritti del terzo si fanno valere sulla somma ricavata”.

* Codice civile

Art. 2921 – Evizione

“L’acquirente della cosa espropriata, se ne subisce l’evizione, può ripetere il prezzo non ancora distribuito, dedotte le spese, e, se la distribuzione è già avvenuta, può ripeterne da ciascun creditore la parte che ha riscossa e dal debitore l’eventuale residuo, salva la responsabilità del creditore procedente per i danni e per le spese.

Se l’evizione è soltanto parziale, l’acquirente ha diritto di ripetere una parte proporzionale del prezzo. La ripetizione ha luogo anche se l’aggiudicatario, per evitare l’evizione, ha pagato una somma di danaro.

In ogni caso l’acquirente non può ripetere il prezzo nei confronti dei creditori privilegiati o ipotecari ai quali la causa di evizione non era opponibile.

CREDITO INCAPIENTI, DOMOTICA E DETRAZIONE IVA: LE SPECIFICHE DELLE ENTRATE

Innumerevoli gli aspetti fiscali affrontati dalla cosiddetta circolare omnibus (la numero 20/E) diffusa dall’Agenzia delle Entrate Tra questi, diversi riguardano a vario titolo la casa e il condominio. vediamo alcuni dei temi salienti.

Riqualificazione energetica

In merito alla disposizione che consente ai contribuenti incapienti (cioè, i possessori di redditi esclusi dalla imposizione Irpef per espressa previsione o perché l’imposta lorda è assorbita dalle detrazioni di cui all’articolo 13 del Tuir) di cedere la detrazione teoricamente spettante per le spese sostenute nel 2016 per interventi di riqualificazione energetica di parti comuni degli edifici, sotto forma di un corrispondente credito in favore dei fornitori che hanno eseguito i lavori, viene puntualizzato che i fornitori non sono obbligati ad accettare il credito al posto del pagamento loro dovuto e che, in caso di accettazione, il credito è utilizzabile in dieci rate annuali a partire dal periodo d’imposta successivo a quello in cui si riceve il pagamento, mentre l’eventuale quota non fruita nell’anno è sfruttabile negli anni successivi, non può essere chiesta a rimborso.

Interventi di domotica con il 65%

Per gli interventi di “domotica” (acquisto, installazione e messa in opera di dispositivi multimediali per il controllo da remoto degli impianti di riscaldamento e/o produzione di acqua calda e/o climatizzazione delle unità abitative) ammessi alla detrazione per la riqualificazione energetica degli edifici, viene specificato che il relativo bonus, nel silenzio della norma, può essere calcolato nella misura del 65% delle spese sostenute, senza alcun limite.

Detrazione su Iva pagata al costruttore

La nuova detrazione Irpef del 50% dell’Iva pagata al costruttore in occasione dell’acquisto di unità abitative di classe energetica A o B spetta quando si compra non solo dall’impresa costruttrice, ma anche dall’impresa di “ripristino” o ristrutturatrice. Il beneficio è applicabile anche all’eventuale pertinenza, a patto che il suo acquisto sia contestuale a quello dell’appartamento e che nell’atto sia evidenziato il vincolo pertinenziale. La detrazione è cumulabile con altre agevolazioni Irpef. Ad esempio, il contribuente che acquista un immobile all’interno di un edificio interamente ristrutturato può fruire sia della detrazione del 50% dell’Iva sull’acquisto sia del “bonus ristrutturazioni” (attualmente al 50%), da calcolare sul 25% del prezzo di acquisto dell’immobile e, comunque, entro il tetto di 96mila euro; fermo restando che, nel rispetto del principio generale secondo cui non è possibile far valere due agevolazioni sulla medesima spesa, il “bonus ristrutturazioni” non è applicabile anche all’Iva per la quale si è sfruttata la nuova detrazione.

NICOTRA, ANCI: “L’IMPOSIZIONE FISCALE SULLA CASA? A GUADAGNARCI È SOLO LO STATO

[A cura di: Veronica Nicotra – segretario generale Anci]

Il noto decreto «Salva Italia» del dicembre 2011 ha aumentato la pressione fiscale sulla casa a tutto e solo vantaggio delle casse statali.

IL PERIODO DEI TAGLI

Il periodo 2010-2015, ad esempio, è stato caratterizzato da un ingente taglio di risorse subito dai Comuni e da uno rivolgimento dei tributi locali. Si è iniziato con il decreto dell’estate del 2010 che, in piena enfasi da federalismo fiscale, ha inferto un colpo esiziale alla sua stessa attuazione, operando un ingente taglio alle risorse comunali di 2 miliardi e mezzo, assolutamente inaudito.

Poi, nell’incalzare della gravissima crisi finanziaria di fine 2011, il Governo ha deciso di introdurre nel 2012 l’Imu, estesa anche alla prima casa. E con quella manovra poderosa, non solo si è reintrodotta la tassazione sulla prima casa ma sono stati aumentati anche i coefficienti su tutti gli immobili, con un guadagno necessario a favore dello Stato. Quella operazione è stata a saldo zero per i Comuni ma a saldo positivo per le casse erariali, manovra richiesta, come sappiamo, dall’Europa.

LE PERDITE DEI COMUNI

Un cospicua parte degli aumenti di prelievo locale deriva dunque da un’imposta statale sugli immobili “travestita” da nuovo pilastro della finanza locale:

* passando dall’Ici all’Imu aumentano i moltiplicatori e l’aliquota di base, con un aumento interamente “compensato” dallo Stato con un prelievo/taglio sui trasferimenti statali ai Comuni, di oltre 3 miliardi di euro;

* l’Imu concede maggiori margini di aumento delle aliquote? Vero. E, infatti nel periodo 2011-2015 lo Stato taglia di ulteriori 9 miliardi i trasferimenti residui (ormai azzerati) e impone criteri più restrittivi al patto di stabilità, per 3,5 miliardi.

Complessivamente i Comuni italiani hanno perso 3 miliardi di euro nel passaggio Ici-Imu-Tasi-abolizione dei trasferimenti e, peraltro Anci ha vinto un contenzioso con il Mef, dove il Consiglio di Stato ha stabilito che i conteggi di stima nel passaggio Ici/Imu sono stati errati. Lo Stato non mette più un euro dei 15 miliardi di trasferimenti del 2010 e, fatti salvi i ristori dei gettiti aboliti nel 2016, i Comuni dal 2015 finanziano loro direttamente lo Stato per 340 milioni all’anno. 

In conclusione, gran parte del preteso aumento delle tasse locali degli ultimi anni, è andato in realtà allo Stato sia come nuove entrate che come tagli ai Comuni. In questo quadro, i Comuni hanno assistito a continui cambi di politica sull’abitazione principale, con i conseguenti spostamenti obbligati di tassazione, prima a carico dell’abitazione principale (Imu 2012), poi parzialmente sulle seconde case e sugli immobili commerciali, avvenuti in seguito alla Tasi nel 2014-15.

CONTI SOTTO CONTROLLO

È bene però dire che nello stesso periodo è anche successo questo: 

* si è ridotta la spesa corrente; 

* la spesa di personale è scesa di oltre il 10%, anche per effetto di vincoli specifici stabiliti da leggi contraddittorie, con una situazione attuale di grave criticità a garantire alcuni servizi e competenze essenziali; 

* la spesa in conto capitale fortemente contratta negli anni considerati a causa dei vincoli del Patto di stabilità finalmente ha ripreso a crescere (+16% nel 2015), in corrispondenza al progressivo abbandono delle regole di patto – traguardo realizzato grazie alla battaglia dell’Anci – e allo sblocco degli avanzi forzosi di bilancio accumulati nel tempo, che costituiscono uno dei più rilevanti contributi alla crescita di cui il Paese può disporre; 

* i conti dei Comuni sono sotto controllo attraverso una riforma della contabilità molto incisiva, cui i Comuni non si sono sottratti, nonostante le difficoltà che comporta e come spesso è accaduto in Italia sono i sindaci ad aver accettato questa nuova sfida.

Anche nelle grandi città le stesse dinamiche hanno agito in profondità. Il confronto con il 2010 risulta falsato se consideriamo inoltre, che l’abitazione principale nel 2010 era esclusa per legge dai tributi immobiliari, oltre a ciò che abbiamo già suesposto.

IL CAMBIO DI ROTTA

In questa vicenda lo Stato deve assumere decisioni certo difficili e la testimonianza è data anche dal successivo e continuo balletto sulle tasse sulla casa; una verità è certa, i Comuni alla fine della storia hanno solo subito nuovi tagli, in un contesto peraltro di trasferimento di nuove competenze e oneri. Solo il 2016 è l’anno senza tagli e deve continuare così. Anzitutto il nostro impegno è affinché i Comuni recuperino entrate per migliorare i servizi ai cittadini, e poi c’è tanto da fare per sostenere lo sviluppo del Paese. Siamo lontani dal poter esercitare una autonomia sana e responsabile pienamente conforme alla nostra Costituzione. I sindaci non mollano e se qualche volta arretrano, questo avviene per forza maggiore, e quando ciò accade arretra anche il Paese, è bene che chi decide e sceglie ne sia sempre consapevole.

  

IMMOBILE ABUSIVO: SÌ ALLA DEMOLIZIONE ANCHE SENZA CONDANNA PENALE

[A cura di: Fulvio Graziotto – Studio Graziotto, http://www.studiograziotto.com/]

Il giudice penale può ordinare la demolizione di opere illegittime anche senza condanna. Nei casi in cui il reato si prescrive, il giudice penale deve dichiarare estinto il reato, ma può disporre la demolizione o la confisca anche in assenza di una condanna penale. 

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Cassazione Penale

Sentenza n. 9949/2016

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Il caso

Il Tribunale, in funzione di giudice dell’esecuzione, rigettava l’istanza di revoca o annullamento dell’ingiunzione a demolire un manufatto in pendenza di sanatoria relativamente all’uso agricolo, ma trasformato in civile abitazione successivamente e quindi non suscettibile di sanatoria.

Il tribunale rilevava anche la non applicabilità della disciplina della prescrizione della pena ai sensi dell’art. 173 codice penale, avendo la demolizione natura di sanzione amministrativa non “sostanzialmente penale”.

Propone ricorso in Cassazione l’ingiunto, affidandosi a quattro motivi.

La Suprema corte ritiene il ricorso infondato.

La decisione

Anzitutto, il Collegio ritiene infondati i primi tre motivi in quanto «non ricorre il requisito indispensabile della condonabilità dell’opera. Infatti, l’istanza di condono, presentata il 31/12/1995, concerneva un manufatto ad uso agricolo, che si attesta ultimato il 31/12/1993, laddove la sentenza di condanna, ed il conseguente ordine di demolizione, riguardano una diversa opera, evidentemente sottoposta a trasformazione successivamente alla presentazione dell’istanza di condono: un manufatto adibito a civile abitazione, ed ultimato il 13/01/2004. L’ultimazione successivamente al termine di presentazione dell’istanza di condono, e la diversità tra opera oggetto di richiesta di sanatoria e opera oggetto di condanna e successivo ordine di demolizione, escludono la condonabilità del manufatto, e rendono irrilevante l’invocata differenza tra realizzazione del rustico ed ultimazione».

Quindi la Suprema Corte passa ad esaminare il quarto motivo, che ritiene manifestamente infondato. Infatti, la Suprema Corte così affrema: «Invero, il ricorso censura l’omessa dichiarazione della prescrizione, ai sensi dell’art. 173 cod. pen., dell’ordine di demolizione, in quanto sanzione sostanzialmente penale, alla luce di una interpretazione convenzionalmente conforme alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo. La tesi è fondata, come noto, su una decisione, del tutto isolata, di un giudice di merito (Tribunale Asti, ordinanza del 03/11/2014, Delorier), che ha dichiarato l’estinzione per decorso del tempo dell’ordine di demolizione, sul presupposto che si trattasse non già di una sanzione amministrativa, bensì di una vera e propria pena, nella declinazione sostanzialistica fornita dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo; in tal senso, dunque, anche all’ordine di demolizione sarebbe applicabile l’art. 173 cod. pen. sulla prescrizione delle pene».

E precisa che, nel caso di specie, non sarebbe comunque decorso comunque il termine di prescrizione. Quindi, così si esprime sulla natura dell’ordine di demolizione: «In ogni caso, va evidenziato che la tesi della natura sostanzialmente penale dell’ordine di demolizione, oltre ad essere, come si dirà, frutto di una applicazione del diritto eurounitario eccentrica rispetto al sistema costituzionale delle fonti, è infondata. Al riguardo, la giurisprudenza di legittimità ha elaborato una serie di principi che hanno costantemente ribadito la natura amministrativa della demolizione, quale sanzione accessoria oggettivamente amministrativa, sebbene soggettivamente giurisdizionale, esplicazione di un potere autonomo e non alternativo al quello dell’autorità amministrativa, con il quale può essere coordinato nella fase di esecuzione (ex multis, Sez. 3, n. 3685 del 11/12/2013, dep. 2014), Russo, Rv. 258518; Sez. 3, n.37906 del 22/5/2012, Mascia, non massimata; Sez. 6, n. 6337 del 10/3/1994, Sorrentino Rv. 198511; si vedano anche Sez. U, n. 15 del 19/6/1996, RM. in proc. Monter); in tale quadro, coerentemente è stata negata l’estinzione della sanzione per il decorso del tempo, ai sensi dell’art. 173 cod. pen., in quanto tale norma si riferisce alle sole pene principali, e comunque non alle sanzioni amministrative (Sez. 3, n. 36387 del 07/07/2015, Formisano, Rv. 264736; Sez. 3, n. 43006 del 10/11/2010, La Mela, Rv. 248670); ed altresì è stata negata l’estinzione per la prescrizione quinquennale delle sanzioni amministrative, stabilita dall’art. 28 I. 24 novembre 1981, n. 689, in quanto riguardante le sanzioni pecuniarie con finalità punitiva (“il diritto a riscuotere le somme … si prescrive”), mentre l’ordine di demolizione integra una sanzione ripristinatoria, che configura un obbligo di fare, imposto per ragioni di tutela del territorio (Sez. 3, Sentenza n. 16537 del 18/02/2003, Filippi, Rv. 227176). Ebbene, la tesi della natura intrinsecamente penale della demolizione risulta fondata su una serie di indici diagnostici della “materia penale”, ovvero la pertinenzialità rispetto ad un fatto-reato, la natura penale dell’organo giurisdizionale che la adotta, l’indubbia gravità della sanzione e l’evidente finalità repressiva; sulla base di tali indici si afferma la natura penale, facendone poi discendere una disinvolta operazione di applicazione analogica dell’art. 173 cod. pen.».

Più avanti la decisione illustra ulteriormente la natura amministrativa della demolizione: «Una lettura sistematica, e non solipsistica, della disposizione, dunque, impone di ribadire la natura amministrativa, e la dimensione accessoria, ancillare, rispetto al procedimento penale, della demolizione, pur quando ordinata dal giudice penale; tant’è che, pur integrando un potere autonomo e non alternativo a quello dell’autorità amministrativa, nel senso che la demolizione deve essere ordinata dal giudice penale anche qualora sia stata già disposta dall’autorità amministrativa, l’ordine giudiziale di demolizione coincide, nell’oggetto (l’opera abusiva) e nel contenuto (l’eliminazione dell’abuso), con l’ordine (o l’ingiunzione) amministrativo, ed è eseguibile soltanto “se ancora non sia stata altrimenti eseguita”. Pertanto, se la demolizione d’ufficio e l’ingiunzione alla demolizione sono disposte dall’autorità amministrativa, senza che venga revocata in dubbio la natura amministrativa, e non penale, delle misure, e senza che ricorra la pertinenzialità ad un fatto-reato, in quanto, come si è visto, la demolizione può essere disposta immediatamente, senza neppure l’individuazione dei responsabili, non può affermarsi che la demolizione giudiziale – identica nell’oggetto e nel contenuto – muti natura giuridica solo in ragione dell’organo che la dispone. Anche perché è pacifico che l’ordine giudiziale di demolizione è suscettibile di revoca da parte del giudice penale allorquando divenga incompatibile con provvedimenti amministrativi di diverso tenore (Sez. 3, n. 47402 del 21/10/2014, Chisci, Rv. 260972), in tal senso non mutuando il carattere tipico delle sanzioni penali, consistente nella irretrattabilità, ed è impermeabile a tutte le eventuali vicende estintive del reato e/o della pena (ad esso non sono applicabili l’amnistia e l’indulto, cfr. Sez. 3, n. 7228 del 02/12/2010 (dep.2011), D’Avino, Rv. 249309; resta eseguibile, qualora sia stato impartito con la sentenza di applicazione della pena su richiesta, anche nel caso di estinzione del reato conseguente al decorso del termine di cui all’art. 445, comma 2, cod. proc. pen., cfr. Sez. 3, n. 18533 del 23/03/2011, Abbate, Rv. 250291; non è estinto dalla morte del reo sopravvenuta all’irrevocabilità della sentenza, cfr. Sez. 3, n. 3861 del 18/1/2011, Baldinucci e altri, Rv. 249317). Si tratta, dunque, della medesima sanzione amministrativa, adottabile parallelamente al procedimento amministrativo, la cui emissione è demandata (anche) al giudice penale all’esito dell’affermazione di responsabilità penale, al fine di garantire un’esigenza di celerità ed effettività del procedimento di esecuzione della demolizione».

E conclude richiamando genericamente la dottrina che «ha sottolineato la differente finalità e natura delle misure amministrative previste a salvaguardia dell’assetto del territorio: la demolizione, infatti, è connotata da una finalità ripristinatoria, l’acquisizione gratuita del bene e dell’area di sedime e le sanzioni pecuniarie alternative alla demolizione hanno una finalità riparatoria dell’interesse pubblico leso, le sanzioni pecuniarie previste in caso di inottemperanza all’ingiunzione a demolire sono connotate da una finalità punitiva».

Per la Cassazione «Viene, dunque, esclusa una natura punitiva della demolizione, che non può conseguire automaticamente dall’incidenza della misura sul bene. In tal senso, non sembra ricorrere neppure l’ulteriore indice diagnostico della natura penale, ovvero la finalità repressiva, essendo pacifico che ciò che viene in rilievo è la salvaguardia dell’assetto del territorio, mediante il ripristino dello status quo ante (Sez. 3, n. 36387 del 07/07/2015, Formisano, Rv. 264736: “In materia di reati concernenti le violazioni edilizie, l’ordine di demolizione del manufatto abusivo, avendo natura di sanzione amministrativa di carattere ripristinatorio, non è soggetto alla prescrizione stabilita dall’art. 173 cod. pen. per le sanzioni penali, né alla prescrizione stabilita dall’art. 28 legge n. 689 del 1981 che riguarda unicamente le sanzioni pecuniarie con finalità punitiva”); che non ricorra una finalità repressiva, del resto, è confermato altresì dalla possibilità di revoca della demolizione, allorquando gli interessi pubblici sottesi alla tutela del territorio siano diversamente ponderati dall’autorità amministrativa, divenendo incompatibili con l’esecuzione della misura ripristinatoria. L’attitudine di un interesse pubblico a paralizzare l’esecuzione della sanzione, dunque, sembra escluderne la asserita finalità repressiva».

Da ultimo, si esprime sull’applicazione analogica in materia penale: «L’art. 173 cod. pen., infatti, disciplina l’“estinzione delle pene dell’arresto e dell’ammenda per decorso del tempo” (così come, analogamente, l’art. 172 cod. pen. disciplina la prescrizione delle pene della reclusione e della multa); la causa di estinzione, dunque, è limitata alle sole pene principali, non è una norma di favore generale, applicabile, ad esempio, anche alle pene accessorie. A conferma, peraltro, della natura eccezionale della disposizione, già solo per tale motivo insuscettibile di applicazione analogica. Non si scorge un motivo, ragionevole (inteso non già nella declinazione soggettiva, bensì costituzionale, di parità di trattamento di situazioni analoghe) e ancorato a criteri oggettivi, dunque, per applicare analogicamente la prescrizione alla sanzione della demolizione, e non alle pene accessorie – la cui natura penale, peraltro, oltre ad essere normativamente sancita, non è revocabile in dubbio – ovvero agli effetti penali della condanna».

E ne trae la conclusione che «La diversa natura e finalità delle pene principali, da un lato, e della demolizione, dall’altra, non consentono, infatti, di individuare un elemento di identità tra i due “casi” che consenta un’applicazione analogica della norma sulla prescrizione: è stato già evidenziato che mentre le pene principali hanno una natura lato sensu repressiva, ed una finalità rieducativa (recte, risocializzante), ai sensi dell’art. 27, comma 3, Cost., la demolizione non ha una natura intrinsecamente repressiva, né persegue finalità risocializzanti, perseguendo invece una finalità ripristinatoria dell’assetto del territorio sulla quale le esigenze individuali legate all’oblio per il decorso del tempo risultano necessariamente soccombenti rispetto alla tutela collettiva di un bene pubblico (Sez. 3, n. 43006 del 10/11/2010, La Mela, Rv. 248670; Sez. 3, Sentenza n. 16537 del 18/02/2003, Filippi, Rv. 227176). Alla stregua delle considerazioni che precedono, dunque, deve negarsi innanzitutto la natura intrinsecamente penale della demolizione, ed in secondo luogo la legittimità di un procedimento analogico, in assenza dei due presupposti della lacuna normativa e dell’eadem ratio».

E, infine, la Suprema Corte chiosa soffermandosi sulla differenza tra l’analogia legis e l’analogia iuris: «Non ricorrendo gli estremi di una legittima analogia legis, secondo i canoni interpretativi tradizionalmente desunti dall’art. 14 Prel., si deve prendere in considerazione l’ipotesi che l’operazione Interpretativa a fondamento dell’applicazione analogica della prescrizione alla sanzione della demolizione sia in realtà frutto di una analogia iuris, nella quale si è proceduto alla (invero arbitraria) formulazione ed applicazione di principi generali dell’ordinamento, secondo i canoni desunti dall’art. 12 Prel. E tuttavia anche tale procedimento interpretativo sarebbe frutto di una soggettiva ed arbitraria opzione politica dell’interprete, in assenza di una inequivocabile lacuna normativa. Innanzitutto l’analogia iuris presupporrebbe la necessità di risolvere un caso dubbio – e non sembra il caso dell’estinzione della sanzione della demolizione -; in secondo luogo imporrebbe l’individuazione di un principio generale applicabile al caso dubbio: e non sembra che l’estinzione di una sanzione amministrativa (ma neppure penale) per il decorso del tempo possa plausibilmente integrare un principio generale dell’ordinamento, sia nazionale che sovranazionale. Va al riguardo sempre rammentato che l’integrazione dell’ordinamento è solo residuale e succedanea all’interpretazione, e, se il caso non è dubbio, non è necessario ricorrere all’applicazione dei principi, in quanto è sufficiente l’applicazione della disposizione scritta».

Osservazioni

La pronuncia della Cassazione si pone in contrasto con la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che si è espressa in modo diametralmente opposto, anche grazie alla pronuncia della Corte Costituzionale (sentenza 49/2015), nella quale la Consulta aveva già sottolineato che allorquando la responsabilità penale sia stata accertata in tutti i suoi elementi, il giudice penale può confiscare gli immobili abusivi anche nei casi di reati prescritti, quindi anche in assenza di una sentenza di condanna. E poiché la confisca ha natura amministrativa, è applicabile anche per i reati prescritti, in caso di amnistia, di indulto o di morte del reo. 

Ricordo che in caso di conflitto delle norme nazionali con quelle della CEDU, il giudice nazionale deve tentare una lettura costituzionalmente compatibile e, nel caso tale operazione non risulti possibile, è tenuto a sollevare la questione costituzionale relativamente agli artt. 117, primo comma e/o 10, primo comma, della Costituzione. Infatti, a differenza di quelle comunitarie che possono essere direttamente disapplicate dal giudice nazionale, le norme derivanti dalle disposizioni della CEDU operano nell’ordinamento interno attraverso il meccanismo delle norme internazionali, con la particolarità che la convenzione CEDU ha goduto dell’adesione diretta dell’Unione Europea.

Disposizioni rilevanti

* Codice penale Art. 173 – Estinzione delle pene dell’arresto e dell’ammenda per decorso del tempo: 

“Le pene dell’arresto e dell’ammenda si estinguono nel termine di cinque anni. Tale termine è raddoppiato se si tratta di recidivi, nei casi preveduti dai capoversi dell’articolo 99, ovvero di delinquenti abituali, professionali o per tendenza.

Se, congiuntamente alla pena dell’arresto, è inflitta la pena dell’ammenda, per l’estinzione dell’una e dell’altra pena si ha riguardo soltanto al decorso del termine stabilito per l’arresto.

Per la decorrenza del termine si applicano le disposizioni del terzo, quarto e quinto capoverso dell’articolo precedente”.

* CEDU (Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo) – ARTICOLO 7 – Nulla poena sine lege

“1. Nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso.

2. Il presente articolo non ostacolerà il giudizio e la condanna di una persona colpevole di una azione o di una omissione che, al momento in cui è stata commessa, costituiva un crimine secondo i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili.

BENEFICI PRIMA CASA DISCONOSCIUTI IN MANCANZA DELL’ATTO DEFINITIVO

[A cura di: Assonime]

Come noto, ai fini dell’applicazione dell’aliquota ridotta dell’imposta di registro dovuta per l’acquisto della prima casa, è previsto che, in caso di trasferimento per atto a titolo oneroso o gratuito degli immobili acquistati con i suddetti benefici prima del decorso del termine di cinque anni dalla data del loro acquisto, sono dovute le imposte di registro, ipotecaria e catastale nella misura ordinaria, nonché una sovrattassa pari al 30% delle stesse imposte.
In questo senso, è la disciplina dettata dalla nota II-bis, dell’articolo 1, comma 4, allegata alla tariffa del Dpr n. 131/1986, ove si aggiunge che le predette disposizioni non si applicano nel caso in cui il contribuente, entro un anno dall’alienazione dell’immobile acquistato con i benefici di cui al mentovato articolo, proceda all’acquisto di altro immobile da adibire a propria abitazione principale.
Nella controversia oggetto della decisione di legittimità 2613/2016, la contribuente aveva stipulato un contratto preliminare di permuta dell’immobile, ma non aveva mai proceduto alla stipula del successivo contratto definitivo, perché il bene oggetto del contratto di permuta risultava colpito da domanda di esecuzione forzata trascritta in data antecedente alla vendita dell’immobile acquistato fruendo del beneficio prima casa.
La Commissione tributaria regionale aveva negato il disconoscimento dell’agevolazione fiscale in argomento per la presenza di una causa di forza maggiore preclusiva della conclusione del secondo acquisto entro l’anno dalla cessione dell’immobile previamente acquistato con i benefici prima casa, preclusione individuata nell’avvio della procedura esecutiva sull’immobile (e ciò, nonostante il rilievo del giudice di merito che la trascrizione della domanda di esecuzione forzata fosse anteriore alla stipula dell’atto di acquisto stesso).
Tale conclusione aveva cercato fondamento nella giurisprudenza di legittimità che ammette il beneficio fiscale in argomento in presenza di ragioni non dipendenti dalla volontà del contribuente individuate dalla Cassazione in diversi eventi, quale, in primo luogo, quello imputabile all’attività della pubblica amministrazione, come in caso del mancato rilascio del certificato di abitabilità affermata nella pronuncia n. 18770/2014. Nello stesso senso, la decisione n. 25880/2015 riguardo all’irragionevole e non motivato ritardo nella concessione della prescritta autorizzazione a ricostruire, intervenuta oltre i quattro mesi dalla richiesta, e la sentenza n. 14399/2013, ove l’indisponibilità dell’immobile era dovuta al ritrovamento di reperti archeologici.
La giurisprudenza della Corte di legittimità risulta, invece, contraria al riconoscimento del beneficio fiscale de qua quando la mancata stipula dell’atto di acquisto entro l’atto dalla cessione della precedente porzione immobiliare dipenda da attività conosciuta dal contribuente, in quanto egli si è assunto il rischio della mancata redazione del contratto definitivo, come nell’ipotesi di lunghezza dei tempi per lo sfratto preclusivi del trasferimento della residenza, come statuito dalla Cassazione nelle sentenze n. 25881/2015 e n. 13177/2014.
Nella stessa ottica ermeneutica dell’imputabilità al contribuente del ritardo del trasferimento della residenza oltre il termine di legge nel comune ove è ubicato l’immobile acquistato con l’agevolazione prima casa, si è pronunciata la Corte regolatrice del diritto con la sentenza n. 17249/2013 per il protrarsi dei lavori di ristrutturazione.
Nella controversia oggetto della pronuncia in commento pare rilevarsi come non sia stata decisiva l’esistenza dell’esecuzione forzata sull’immobile da acquistare coi benefici di legge ad aver indotto il Supremo collegio a far decadere il contribuente dall’agevolazione in esame, bensì la conoscibilità che il bene oggetto del contratto di permuta risultava colpito da domanda di esecuzione forzata trascritta in data antecedente all’acquisto dell’immobile.
Infine, per completezza d’argomento, osserviamo che l’articolo 1, comma 55, della legge n. 208/2015, ha aggiunto il comma 4-bis alla nota II-bis dell’articolo 1 della Tariffa allegata alla legge di registro del 1986, con decorrenza dal 1° gennaio 2016, prevedendo che l’aliquota del 2% si applica anche quando l’immobile, già comprato con i benefici prima casa, sia alienato entro un anno dalla data dell’atto di acquisto del secondo immobile e che, in mancanza di detta alienazione, al secondo atto di acquisto si applica quanto previsto dal comma 4 (ossia imposta ordinaria e sovrattassa del 30%).

DICHIARAZIONE DEI REDDITI: LE DETRAZIONI FISCALI A FAVORE DEGLI INQUILINI

[A cura di: Sunia]

Gli inquilini di abitazioni in affitto da privati, gli assegnatari di alloggi di edilizia pubblica e gli inquilini di case costruite con il contributo pubblico hanno diritto a detrazioni fiscali da riportare nella dichiarazione dei redditi.

INQUILINI DI EDILIZIA PRIVATA
* Con un contratto di affitto a canone libero
– 300 € per reddito annuo fino 15.493,71 €
– 150 € se ha un reddito annuo superiore a 15.493,71 € e fino a 30.987,41 €; oltre tale soglia nessuna detrazione
* Con un contratto di affitto a canone concordato
– 495,80 € per reddito annuo fino 15.493,71 €
– 247,90 € se ha un reddito annuo superiore a 15.493,71€ e fino a 30.987,41 €; oltre tale soglia nessuna detrazione
* Studenti universitari fuori sede
– Detrazione del 19% del canone annuo su un massimo di 2663,00 €
* Lavoratori trasferiti per lavoro
Hanno diritto ad una detrazione per tre anni di:
– 991,60 € se il reddito annuo complessivo non supera i 15.493,71 €
– 495,80 € se compreso tra 15.493,71 € e 30.987,41 €
La casa che si affitta per lavoro deve essere almeno a 100 Km di distanza dalla precedente residenza ed essere situata in un’altra regione. La residenza non deve essere stata trasferita da oltre tre anni.

INQUILINI GIOVANI
I giovani tra i 20 ed i 30 anni hanno diritto ad una detrazione pari a:
– 911,60 € per l’affitto per tre anni se il reddito complessivo non supera i 15.493,71 euro.
L’appartamento affittato ovviamente non può essere di proprietà dei genitori, il contratto deve essere successivo al 2007 e l’agevolazione vale per tre anni.

ASSEGNATARI DI EDILIZIA PUBBLICA ED INQUILINI DI EDILIZIA SOCIALE
Detrazione di:
– 900 € per reddito annuo fino 15.493,71 €
– 450 € se ha un reddito annuo superiore a 15.493,71 € e fino a 30.987,41 €; oltre tale soglia nessuna detrazione.

CONDOMINIO: I CREDITORI POSSONO “AGGREDIRE” IL CONTO CORRENTE

[A cura di: Confappi]

I creditori di un condominio devono preventivamente agire nei confronti dei condòmini morosi e, solo successivamente, possono rivolgersi anche ai condòmini in regola con i pagamenti: tale principio non si estende alle somme depositate sul conto corrente del condominio stesso, liberamente aggredibili. Così prescrive e deve essere interpretato l’articolo 63, secondo comma, delle disposizioni di attuazione al codice civile.

Il principio emerge dalla sentenza del Tribunale di Ascoli Piceno n. 1287 del 26 novembre 2015. Un pronunciamento che s’inserisce nell’alveo di una giurisprudenza di merito, formatasi all’indomani della riforma del condominio e che va sempre più consolidandosi (Tribunale di Brescia 30.5.2014, Tribunale di Reggio Emilia 16.5.2014, Tribunale di Milano 2.7.2014). 

Il caso esaminato è il seguente. Una ditta individuale creditrice di un condominio aveva preannunciato l’esecuzione nei confronti di quest’ultimo, attraverso la rituale notifica dell’atto di precetto, senza aver preventivamente escusso i condòmini morosi con i pagamenti. Al fine di bloccare l’esecuzione, che avrebbe condotto al pignoramento del conto corrente del condominio, il condominio si è opposto al precetto, ritenendo che il nuovo articolo 63 delle disposizioni di attuazione al codice civile – che prevede che i creditori del condominio non possono agire nei confronti dei condòmini in regola con i pagamenti, se non dopo l’escussione degli altri condòmini – avesse introdotto un beneficium excussionis generalizzato, valevole anche per il condominio.

Il Tribunale di Ascoli Piceno ha rigettato l’opposizione. In particolare, il giudice marchigiano dapprima ha ribadito il principio secondo cui le obbligazioni condominiali debbano intendersi solidali (con la conseguenza che ciascun debitore può essere chiamato a pagare l’intera somma dovuta, salvo il diritto di regresso verso gli altri debitori), alla luce della riforma del condominio (legge 220/2012), che ha ribaltato i principi emersi dalla nota (e discussa) sentenza a Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione n. 9148 dell’8 aprile 2008. 

In secondo luogo, in base a una interpretazione letterale del dettato legislativo, il tribunale ha chiarito che il beneficium excussionis, stabilito dal citato articolo 63 delle disposizioni di attuazione al codice civile, vale solo ed esclusivamente nei confronti dei condòmini in regola con i pagamenti e non anche nei confronti del condominio, che potrà, dunque, essere aggredito esecutivamente.

In concreto, e come prefigurato dalla sentenza in commento, quando l’azione esecutiva dei creditori del condominio avrà a oggetto le disponibilità liquide presenti sul conto corrente intestato al condominio – obbligatorio a seguito della riforma del 2012, ma che, però, deve essere preventivamente individuato dai creditori – tali somme saranno liberamente aggredibili essendo venuto meno ogni legame giuridico con i condòmini ed essendo destinate ad essere utilizzate nell’interesse comune del condominio, nel quale rientra anche il pagamento dei suoi debiti.