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LE SPESE PER LA CASA AUMENTATE DEL 110% IN 20 ANNI

[Fonte: Confcommercio] 

Sono quelle relative alla casa (affitto, bollette, tassa rifiuti e imposte locali) le voci di spesa che incidono maggiormente sul bilancio delle famiglie italiane, arrivando ad assorbire circa il 24% dei consumi complessivi. Stando a quanto emerso dall’analisi realizzata dall’Ufficio Studi di Confcommercio sulle spese delle famiglie italiane negli ultimi 20 anni, le cose non sono sempre andate così, ma sono peggiorate nel corso degli anni. Basti pensare che dal 1995 a oggi, la spesa pro capite relativa all’abitazione è passata da poco più di 1900 euro agli attuali 4012 euro, segnando un aumento quasi esponenziale del 110%.

Nel valutare i mutamenti intervenuti nelle decisioni di spesa delle famiglie, sia in termini qualitativi sia quantitativi, lo studio distingue tra le spese obbligate e spese commercializzabili, dando un’indicazione aggiuntiva di come le famiglie, al di là di quanto suggerito della diminuzione quantitativa dei consumi, abbiano sperimentato una sensibile diminuzione del benessere da loro fruito.

Negli ultimi venti anni la spesa delle famiglie si è progressivamente spostata verso i consumi obbligati, inclusivi degli affitti imputati (che corrispondono alla spesa teorica per l’affitto attribuita alle famiglie che vivono in case di proprietà). Queste spese assorbono ormai il 42% circa delle spese familiari. Nello stesso periodo è aumentata la quota destinata ai servizi il cui consumo rappresenta una libera scelta (dal 17,4% del 1995 al 21,4% del 2015) fenomeno ascrivibile alla tendenza alla terziarizzazione dei consumi. Queste dinamiche hanno compresso l’area delle spese destinate ai beni cosiddetti commercializzabili in cui rientrano molte funzioni di consumo considerate mature (alimentari, abbigliamento, mobili ecc.). Se lo spostamento di quote di spesa da prodotti a servizi è un fenomeno fisiologico nelle economie avanzate, anche per l’emergere di nuovi bisogni “immateriali”, meno lo è l’avanzamento di quote di consumi che non rappresentano una libera scelta dei cittadini legata al soddisfacimento dei bisogni individuali e/o familiari. Categorie e gruppi di spesa che costituiscono gli aggregati dei consumi obbligati e dei consumi commercializzabili: consumi obbligati e affitti imputati – fitti effettivi, fitti imputati, manutenzione e riparazione dell’abitazione, acqua e altri servizi per l’abitazione, energia elettrica, gas ed altri combustibili, sanità, spese d’esercizio dei mezzi di trasporto esclusi i combustibili, combustibili e lubrificanti, assicurazioni, protezione sociale, servizi finanziari, altri servizi n.a.c.; consumi commercializzabili – alimentari, bevande alcoliche e non alcoliche, tabacco, vestiario e calzature, mobili elettrodomestici e manutenzione casa, acquisto di mezzi di trasporto, apparecchiature per la telefonia, articoli audiovisivi, fotografici, computer ed accessori, altri beni durevoli per la ricreazione e la cultura, altri articoli ricreativi ed equipaggiamento, fiori, piante ed animali domestici, libri, giornali ed articoli di cancelleria, apparecchi, articoli e prodotti per la cura della persona, effetti personali n.a.c., servizi di trasporto, servizi postali, servizi di telefonia, servizi ricreativi e culturali, vacanze tutto compreso, pubblici esercizi, servizi alberghieri ed alloggiativi, barbieri, parrucchieri e saloni e altri servizi per la persona, istruzione. La situazione, già evidente negli anni ’90 e nella prima parte dello scorso decennio, si è acuita con l’emergere della crisi economica e con l’adozione di politiche che hanno determinato un aumento della pressione fiscale, fattori che hanno fortemente limitato le disponibilità delle famiglie (il reddito disponibile reale è sceso, complessivamente, tra il 2007 e il 2014 del 10,6% e del 14,1% in termini pro capite). Con l’attenuarsi della fase recessiva la tendenza alla progressiva espansione della quota di spesa destinata ai consumi obbligati da parte delle famiglie sembra essersi arrestata segnalando, nelle nostre stime, una contenuta diminuzione tra il 2013 ed il 2015. Questa evoluzione sembra avvantaggiare gli acquisti di servizi commercializzabili. Analizzando più nel dettaglio quanto accaduto tra il 1995 e oggi si rileva come l’aumento della quota destinata alle spese obbligate sia ascrivibile in larga misura alla componente relativa all’abitazione è cresciuta del 110%, arrivando ad assorbire oltre il 24% della spesa. Per quanto riguarda la parte relativa alle spese che attengono alle scelte individuali e familiari la decisa riduzione della quota destinata ai beni, circa 10 punti percentuali in meno rispetto al 1995, è sintesi di andamenti molto diversificati. L’affermarsi di nuove forme di comunicazione ha sostenuto la spinta per i prodotti della telefonia, dinamica che, in un contesto di riduzione delle risorse a disposizione delle famiglie, ha determinato un’ulteriore compressione di consumi di prodotti più tradizionali. Tra questi, particolarmente penalizzate sono state le spese relative all’alimentazione domestica (inclusiva delle bevande alcoliche e non) la cui incidenza è scesa di quasi tre punti percentuali. Le dinamiche sopra descritte tengono conto sia di quanto avvenuto dal lato delle quantità sia da quello dei prezzi. Focalizzando l’attenzione sull’evoluzione dell’inflazione dei tre sottoinsiemi dei consumi presi in esame si rileva come parte dell’aumento dell’incidenza delle spese obbligate sia derivata dalle dinamiche dei prezzi. In tutto l’arco temporale osservato questa componente della domanda ha mostrato una dinamica decisamente più sostenuta rispetto a quanto rilevato per il complesso dei beni e servizi commercializzabili. Ponendo uguale a 100 i prezzi nel 1995, quelli delle spese incomprimibili si attestano nel 2015 a 182,8, a fronte del 136,7 dei consumi commercializzabili. Anche nel caso dei prezzi gli aumenti più rilevanti hanno interessato l’abitazione, non solo per effetto delle variazioni intervenute sul mercato immobiliare negli anni antecedenti la crisi, che si sono riflesse sia sugli affitti reali che su quelli imputati, ma anche per i prezzi di quei beni e servizi, quali l’acqua e lo smaltimento rifiuti, gestiti a livello locale e aumentati negli ultimi 20 anni di oltre il 130%. Particolarmente sostenuta è stata anche la dinamica dei prezzi relativi alle assicurazioni ed ai carburanti, segmento che sembra conoscere nei periodi più recenti un’attenuazione delle dinamiche inflazionistiche. La tendenza a una crescita più accentuata dei prezzi relativi alle spese obbligate attraversa tutti gli ultimi 20 anni evidenzia molto chiaramente il drenaggio di risorse operato da un’evoluzione inflazionistica dei beni e servizi obbligati nettamente superiore al dato medio.

RIFORMA CATASTO: SERVE REVISIONE DELLE BASI IMPONIBILI

[Fonte: Nomisma]

Dai dati diffusi dall’Agenzia delle Entrate emerge che nel 2014 il gettito Tasi-Imu relativo all’abitazione principale è calato del 12,6%, attestandosi a 3,5 miliardi di euro, a fronte dei circa 4 miliardi di euro del 2012. In media i proprietari di prima casa hanno pagato 204 euro nel 2014 contro i 227 euro nel 2012. Dagli stessi documenti diffusi nella prima parte dell’anno risulta che per comprare un’abitazione in Italia servono in media circa 181mila euro (1.560 /mq).

Tali informazioni consentono di quantificare lo stimolo per il mercato che scaturirebbe dalle ipotesi di azzeramento dell’imposizione sulla prima casa recentemente avanzate.  A ben guardare – secondo Nomisma – si tratterebbe di un incentivo piuttosto modesto, quantificabile in circa lo 0,11% sul primo anno e comunque inferiore all’1%, considerando i valori attualizzati, su un orizzonte decennale. In una fase in cui i valori immobiliari sono ancora caratterizzati da tendenze recessive e lo sconto medio sfiora il 16%, fattori quali il timing dell’investimento e la capacità negoziale risultano di gran lunga più rilevanti rispetto all’incentivo fiscale. Anche con riferimento allo sgravio che una simile riforma garantirebbe al 76,6% di famiglie che vive in una casa di proprietà, il dato numerico risulta modesto e pari a 17 euro al mese, vale a dire poco più di un quinto del bonus di 80 euro introdotto a partire da maggio 2014 per lavoratori dipendenti e assimilati che guadagnano fino a 26 mila euro. In questo caso, tuttavia, a beneficiarne non sarebbero solo le famiglie a basso reddito, in quanto la sperequazione delle basi imponibili su cui vengono calcolate le imposte sulla casa, acuite dagli effetti regressivi dell’abolizione delle detrazioni, finirebbero paradossalmente per agevolare anche nuclei con disponibilità nient’affatto modeste e propensioni alla spesa rispetto alle variazioni del reddito più contenute se paragonate a quelle delle famiglie meno abbienti.

“Se non vi sono dubbi che la fiscalità sulla casa rappresenti un tema delicato e complesso, non emergono evidenze che l’azzeramento dell’imposizione sulla prima casa risulti dal punto di vista economico e sociale l’opzione preferibile” – sottolinea Luca Dondi Consigliere delegato di Nomisma. “La strada maestra per arrivare a un sistema impositivo finalmente più equo rimane quella della revisione delle basi imponibili che scaturirebbe dalla riforma del Catasto che il Governo ha ribadito essere una priorità. Non è infatti pensabile continuare a intervenire solo sulle aliquote o sui moltiplicatori. Ci sono sperequazioni enormi all’interno delle stesse città e tra città che solo una revisione complessiva può correggere. A tal proposito, si pensi che la differenza tra riferimenti catastali e valori di mercato oscilla tra il 36% e il 300%, attestandosi in media al 135%.  La disomogeneità del patrimonio immobiliare italiano e l’assenza di una base dati di riferimento sufficientemente articolata sono ostacoli consistenti sulla strada della riforma. Occorre lavorare pazientemente per rimuoverli senza farsi sopraffare dall’ansia del risultato di breve”- conclude Dondi.

CONDOMINI MINIMI: IL BONUS NON SI PERDE GRAZIE AL CODICE FISCALE

[A cura di Paola Pullella Lucano – Nuovo FiscoOggi, Agenzia delle Entrate]

Il quadro: tre fratelli, un edificio con tre appartamenti (ognuno di proprietà esclusiva di ciascuno di essi) e parti comuni, su cui nel 2014 sono stati effettuati interventi di recupero, pagati dai proprietari pro-quota con bonifico bancario. Ma, riguardo a tale tipologia di lavori, già nel 1998, quindi fin dall’entrata in vigore della legge istitutiva (la 449/1997), l’allora ministero delle Finanze aveva precisato che la fruizione dell’agevolazione è subordinata alla circostanza che sia il condominio l’intestatario delle fatture e l’esecutore, tramite l’amministratore o uno dei condòmini, degli adempimenti richiesti dalla normativa.

 

Nel nostro caso, quindi, l’accesso allo sconto fiscale sembrerebbe precluso. Non è così: la soluzione è nella risoluzione n. 74/E del 27 agosto 2015, dove l’Agenzia delle Entrate osserva che, avendo i contribuenti in questione eseguito i pagamenti con la procedura giusta per la fruizione del bonus ristrutturazioni, cioè con apposito bonifico “parlante”, è stato regolarmente rispettato l’obbligo, in capo all’istituto bancario o a Poste, di operare la prescritta ritenuta dell’8% sulle somme accreditate (articolo 25 del Dl 78/2010).

Però, la stessa Agenzia, nella circolare 11/2014, aveva ribadito che, per fruire della detrazione relativa a spese su parti comuni, anche i condomìni minimi, quelli con non più di otto condòmini (che non hanno l’obbligo di nominare un amministratore), devono richiedere l’attribuzione del codice fiscale.

 

Tanto premesso, appare chiaro che il tassello mancante al buon fine è soltanto il codice fiscale del condominio. Pertanto, entro il termine della presentazione della dichiarazione dei redditi relativa all’anno 2014, in cui sono state sostenute le spese, è necessario:

presentare a un ufficio territoriale dell’Agenzia delle Entrate la domanda di attribuzione del codice fiscale al condominio, tramite modello AA5/6

versare mediante F24 (codice tributo 8912), a nome del condominio, con indicazione del cf attribuito, la sanzione minima di 103,29 euro, per omessa richiesta del codice fiscale

inviare una comunicazione in carta libera all’ufficio delle Entrate competente in relazione all’ubicazione del condominio.

Nella comunicazione, unica per tutti i condòmini, devono essere specificati, distintamente per ciascuno di essi:

* le generalità e il codice fiscale

* i dati catastali delle rispettive unità immobiliari

* i dati dei bonifici dei pagamenti effettuati per gli interventi di recupero del patrimonio edilizio

* la richiesta di considerare il condominio quale soggetto che ha effettuato gli interventi

* le fatture emesse dalle ditte nei confronti dei singoli condòmini, da intendersi riferite al condominio.

Infine, ogni condomino potrà inserire le spese sostenute nel periodo d’imposta 2014 nel modello Unico Pf 2015 da presentare entro il prossimo 30 settembre o, se ha utilizzato il 730, nel modello 730 integrativo da presentare entro il 26 ottobre 2015.

 

Per concludere, la risoluzione ricorda che, non essendo necessario nel caso in esame nominare un amministratore, i contribuenti non sono tenuti a compilare l’apposito quadro AC del modello Unico Pf, in cui è prevista l’indicazione, tra l’altro, dei dati catastali degli immobili condominiali: andranno specificati nella comunicazione unica per tutti i condòmini.

COMPRAVENDITA IMMOBILI: SE IL NOTAIO TARDA A VERSARE LE SOMME È PECULATO

[A cura di Salvatore Di Giglia Nuovo FiscoOggi, Agenzia delle Entrate]

Se il notaio non versa tempestivamente l’imposta principale dovuta rischia di essere accusato di peculato, in quanto reato “istantaneo”. La disciplina amministrativa della “procedura di adempimento unico” e la normativa penale di cui all’articolo 314 cp non possono ritenersi sovrapponibili.
Il principio è stato affermato di recente dalla Corte di Cassazione, con la sentenza 33879 del 31 luglio 2015, nel corso della trattazione di un caso nel quale il pubblico ufficiale ha omesso di versare tempestivamente all’erario le somme che gli erano state consegnate, a titolo d’imposta, dai propri clienti in occasione della stipula di alcuni atti di compravendita immobiliare.

Il caso concreto si caratterizza per il fatto che l’imposta di registro è stata liquidata dal notaio in modo volutamente irregolare e inferiore al dovuto e che, solo successivamente e dopo l’arrivo dell’avviso di liquidazione notificato dall’ufficio oltre il sessantesimo giorno dalla data di registrazione telematica, lo stesso pubblico ufficiale ha provveduto a versare integralmente all’Agenzia delle Entrate.

La Corte suprema, mediante richiamo a pregressa giurisprudenza, ha concluso che il comportamento del notaio, in questa vicenda, sostanzia il reato di peculato (ex articolo 314 c.p.).

La pronuncia, tuttavia, merita un momento di particolare attenzione per il fatto che, per la prima volta, il giudice penale ha vagliato il rapporto esistente fra la procedura amministrativa, prevista dal Dlgs 463/1997, articoli 3-bis e 3-ter, e la richiamata ipotesi delittuosa di cui all’articolo 314.

In altri termini, la Cassazione ha dovuto valutare se le due normative fossero sovrapponibili e se, in quanto tali, la prima disciplina – avente natura speciale – potesse ritenersi prevalente sulla seconda di carattere generale.

La necessità di svolgere tale attività comparativa è sorta, per la Corte, su impulso del notaio ricorrente che ha mosso due eccezioni.

Una prima, secondo cui, nella soluzione della controversia da parte dei giudici di merito, avrebbe dovuto prioritariamente darsi rilievo al Dlgs 463/1997, articoli 3-bis, 3-ter e 3-quater, introdotti dal Dlgs 9/2000, i quali disciplinano la “procedura di adempimento unico informatico” riguardante la registrazione telematica degli atti e le nuove modalità di pagamento dell’imposta di registro.

Il ricorrente, infatti, ha sostenuto che il nuovo sistema telematico di liquidazione delle imposte da parte dei notai, che si fonda su un’interazione diretta, secondo modalità telematiche, tra Agenzia delle Entrate e professionisti, consentirebbe a questa ultima di richiedere il pagamento integrativo delle imposte dovute, anche quando il soggetto obbligato abbia provveduto a liquidarle in maniera inesatta, sia per colpa (anche grave) sia per dolo.

Secondo tale ricostruzione, la sanzione penale di cui all’articolo 314 sarebbe scattata – non immediatamente – ma unicamente a seguito del mancato pagamento della maggior imposta richiesta dall’Agenzia delle Entrate. Conseguentemente, solo a quel punto, si sarebbe manifestata in maniera inequivocabile la volontà del notaio di non adempiere all’obbligazione tributaria e di voler trattenere per sé le somme versategli a detto titolo dai clienti. Inoltre, in caso di ritardo dell’Amministrazione tributaria nel procedere alla corretta liquidazione dell’imposta, rispetto ai termini di legge, l’indugio del notaio ricorrente non avrebbe potuto assumere rilievo al fine di trasformare l’illecito amministrativo-tributario in comportamento penalmente rilevante.

La seconda, per la quale, nel caso concreto, sussisterebbe un concorso tra fattispecie penale e norma amministrativa, risolvibile mediante l’applicazione del principio di specialità (articolo 9, legge 689/1981), trattandosi dello stesso fatto punito da distinte previsioni normative (concorso eterogeneo di norme), ancorché poste a presidio di interessi giuridici diversi.

Conclusivamente, poiché la condotta descritta dalla norma penale che disciplina il peculato (consistente, nell’ipotesi in esame, nell’appropriazione del denaro destinato al pagamento dei tributi) si presenterebbe del tutto sovrapponibile a quella del notaio prevista dalla nuova disciplina dell’adempimento unico informatico, sarebbe stata scontata l’applicazione del principio di specialità contemplato nel primo comma del richiamato articolo 9.

Pronunciandosi sul ricorso del pubblico ufficiale, la Corte suprema ha affermato che la procedura amministrativa, prevista dal Dlgs 463/1997, articoli 3-bis e 3-ter, disciplina una condotta del tutto distinta da quella integrante il delitto di peculato e che, pertanto, le sanzioni da essa previste possono ben concorrere con quella stabilita dalla norma di carattere penale.

Pertanto, la Corte ha mostrato di non condividere la tesi della sovrapponibilità delle condotte sanzionate in via amministrativa e penale, escludendo l’applicabilità del principio di specialità di cui all’articolo 9 della legge 689/1981.

Inoltre, qualificando il reato di peculato di tipo istantaneo, vale a dire che si consuma nel momento in cui l’agente si appropria della cosa mobile o del denaro della Pa, di cui ha il possesso per ragione del suo ufficio o dà ad essi una diversa destinazione, ha rigettato l’assunto secondo cui l’interversione del possesso del denaro pubblico non si verificherebbe immediatamente, ma soltanto quando il notaio non versi, entro il termine previsto, l’importo della maggior somma dovuta a titolo d’imposta successivamente liquidato, mediante procedura di correzione per via telematica, dall’Agenzia delle Entrate (sulla qualificazione del reato istantaneo, cfr Cassazione, sentenze nn. 12141/2008, 19759/2008, 15108/2003, 3021/1990, 7179/1982, 43279/2009 e 1256/2003).

Infine, la suprema Corte – mediante un richiamo ad altre proprie sentenze emesse con riguardo alla oramai soppressa Invim (tributo dovuto dal venditore che lo versava nelle mani del notaio rogante perché, a sua volta, lo versasse all’erario) – ha concluso che, alla luce dei principi già affermati nella propria giurisprudenza, la condotta ascritta al notaio che non ha immediatamente versato all’Agenzia delle Entrate l’importo integrale delle imposte affidategli dai clienti, determinate correttamente ma autoliquidate per via telematica in misura volutamente inferiore al dovuto, integra il reato di cui all’articolo 314 del codice penale. Da quel preciso momento, infatti, egli avrebbe disposto del denaro indebitamente, ancorché temporaneamente, trattenuto uti dominus, lucrando gli interessi bancari maturati sulle somme non versate.

CRONACA FLASH

Ladri senza scrupoli

Svaligiano casa di defunti

Non si sono fatti scrupoli i ladri che a Venezia hanno svaligiato l’appartamento di due anziani coniugi, trovati morti in casa la settimana prima. A dare l’allarme sono stati i nipoti, passando di fronte all’abitazione e trovando la porta d’ingresso aperta. Dai primi rilievi della polizia si evince come i malviventi abbiano agito indisturbati, passando al setaccio da cima a fondo tutte le stanze della casa. All’appello mancano alcuni oggetti di notevole valore, ma è difficile quantificare l’esatto ammontare della refurtiva, data la mancanza di un inventario.

91enne si ferisce in casa

e resta a terra 24 ore

È salvo per miracolo un anziano di 91 anni, residente in provincia di Udine, rimasto ferito in casa per oltre 24 ore prima che qualcuno lo aiutasse. Quando i soccorritori sono riusciti a introdursi nella sua abitazione da una finestra lasciata semiaperta, lo hanno ritrovato disteso sul pavimento della cucina in una pozza di sangue, in mezzo ai cocci rotti di alcune stoviglie. Dalle testimonianze dei parenti, sembra che l’anziano si fosse più volte rifiutato di farsi ospitare in casa loro, versione confermata anche dagli assistenti sociali che seguivano da tempo il caso.

Esplosione in casa vacanze

Gravi tre turisti bresciani

Tre feriti gravi di cui due in pericolo di vita. È questo il bilancio dello scoppio di una bombola di gas propano liquido, avvenuta nella cucina di un appartamento in provincia di Salerno. Gli occupanti, una donna di 36 anni, il figlio di 17 e il nonno di 61, tutti residenti in provincia di Brescia, avevano affittato la casa per trascorrere un periodo di villeggiatura sul litorale campano. Rimasto incolume soltanto il marito della donna, che al momento della deflagrazione si trovava nelle scale. L’appartamento è stato dichiarato inagibile ed è stato sottoposto a sequestro. Sono invece rientrati gli altri inquilini dello stabile, che erano stati fatti evacuare per precauzione dai vigili del fuoco, insieme ad altri 50 ospiti di un albergo nelle vicinanze.

Va a fuoco la palazzina

Sgomberate 18 famiglie

Hanno dovuto lavorare tutta la notte i vigili del fuoco per domare l’incendio che ha distrutto una palazzina alle porte di Genova. Per fortuna sono rimaste intossicate soltanto quattro persone, mentre 18 famiglie hanno dovuto passare la notte fuori casa. Dalle prime verifiche sembra che le fiamme si siano propagate da un appartamento all’ultimo piano, a causa di alcuni ceri votivi, accesi in onore di San Raffaele. 

89enne cade vittima

della truffa dell’avvocato

Ancora un caso di raggiro a danni di anziani. Una donna di 89 anni residente in un comune alle porte di Firenze è stata ingannata da un sedicente avvocato, che si è presentato alla porta del suo alloggio ed è riuscito a farsi consegnare tutto il denaro che l’anziana aveva in casa, circa 700 euro in contanti. Il pretesto è sempre lo stesso: pagare la cauzione del figlio, secondo il truffatore, arrestato per un incidente stradale. Sull’episodio indagano i carabinieri.

I RITARDI NELLA COSTRUZIONE NON BASTANO A SALVARE IL BONUS PRIMA CASA

Per non perdere il diritto a fruire del bonus prima casa, il contribuente che non abbia trasferito la propria residenza nell’alloggio entro il periodo previsto dalla legge deve provare l’inevitabilità e l’imprevedibilità dell’evento causativo dell’impedimento, oltre che la non imputabilità a se stesso dell’origine causale del fatto impeditivo. 

È quanto chiarito dalla Cassazione con la sentenza 10586 del 22 maggio, con cui i giudici hanno precisato anche che, l’onere probatorio del contribuente è alquanto stringente, dovendo egli allegare la sussistenza del fatto impeditivo e comprovarne la consistenza, con riguardo ai consueti canoni attraverso i quali la giurisprudenza individua, in termini generali, i requisiti indefettibili dell’istituto della forza maggiore. 

Secondo gli Ermellini, in particolare, l’interessato deve provare – quantomeno in via sintomatica e presuntiva – l’inevitabilità ed imprevedibilità dell’evento, oltre che della non imputabilità, nel senso dell’insussistenza di ragioni di addebito, doloso o colposo, dell’origine causale del fatto impeditivo a se stesso. E, perché si possa parlare di forza maggiore, occorre che ci si trovi di fronte ad un avvenimento di gravità estrema, assolutamente fuori da ogni possibile previsione in quanto del tutto eccezionale ed inevitabile, che non dipenda in alcun modo da avvenimenti dipesi per qualsiasi motivo dal comportamento della parte interessata. Né possono bastare le avvenute rimostranze nei confronti del venditore, specie se si considera che già al momento dell’acquisto il fabbricato era in fase di ristrutturazione e che vi era un progetto di variante che prevedeva diverse modifiche sostanziali. In tal caso, dunque, non si può ritenere integrato il requisito dell’imprevedibilità dell’evento, ferma restando l’azionabilità di eventuali pretese risarcitorie nei confronti del terzo ritenuto responsabile del ritardato trasferimento della residenza nell’immobile.

LOCAZIONI DI IMMOBILI, OPZIONE DELLA CEDOLARE SECCA E DECORRENZA DELL’ACCONTO

Qualche anno fa era il tema di maggiore attualità in ottica di fiscalità immobiliare. Oggi è passato un po’ in secondo piano, soppiantato soprattutto dalle vicissitudini relative ad Imu e Tasi, nonché, sul versante della locazione, alle decisioni della Consulta in merito all’incostituzionalità dei benefici per i conduttori che auto-denuncino i contratti in nero. Ad ogni buon conto, l’opzione della cosiddetta cedolare secca è ancora di un certo interesse, tanto più in quanto adottata da numerosi contribuenti proprietari di immobili. E i dubbi sulle modalità della sua applicazione restano all’ordine del giorno. Lo dimostra, tra gli altri, l’ultimo quesito pervenuto alla rubrica di posta fiscale di Nuovo FiscoOggi, la rivista ufficiale dell’Agenzia delle Entrate. Il caso è quello di un contribuente che ha registrato, a maggio 2015, un contratto di locazione proprio con l’opzione per la cedolare secca, e che si domanda se sia dovuto l’acconto già il primo anno.

Ebbene, secondo Gianfranco Mingione, che cura abitualmente la rubrica, “Nel primo anno di esercizio dell’opzione per la cedolare secca non è dovuto l’acconto, in quanto manca la base imponibile su cui calcolarlo ovvero l’imposta sostitutiva dovuta per il periodo precedente. Dovrà invece essere versato dal secondo anno, in misura pari al 95% dell’imposta dovuta per l’anno precedente, se la stessa supera l’importo di 51,65 euro. Se l’importo da versare è inferiore a 257,52 euro, il pagamento dell’acconto dovrà essere effettuato, in un’unica soluzione, entro il 30 novembre. Se, invece, supera i 257,52 euro, potrà essere effettuato in due rate: la prima, del 40% (del 95%), entro il 16 giugno; la seconda, del restante 60% (del 95%), entro il 30 novembre. Il saldo andrà versato entro il 16 giugno dell’anno successivo a quello cui si riferisce oppure entro il 16 luglio, con la maggiorazione dello 0,40%”.

CONDOMINIO:VA DEMOLITA LA VERANDA CHE VIOLA L’ESTETICA E IL DECORO DEL FABBRICATO

Nelle cause di carattere condominiale, uno dei più frequenti motivi del contendere è relativo al decoro. Sul tema, è chiamata spesso a pronunciarsi la Cassazione, che lo ha fatto anche con la sentenza 2109/2015, secondo i cui disposti, in estrema sintesi, se un manufatto, come una veranda o una sopraelevazione viola il regolamento di condominio e pregiudica il decoro architettonico e l’estetica dell’edificio, va demolito.

Nella fattispecie, i giudici hanno respinto il ricorso della proprietaria di una veranda di circa 16 mq adibita a camera da letto, posta sul terrazzo di sua proprietà, alla quale era stato intimato dal condominio di demolire il manufatto per violazione del regolamento condominiale e lesione del decoro architettonico del fabbricato.

Ricorrendo in giudizio la proprietaria viene condannata, in primo grado, alla “demolizione ed eliminazione” del manufatto a causa della difformità della veranda rispetto al resto dell’architettura dell’edificio; una posizione ribadita poi dalla Corte di Appello, che, nel confermare quanto il manufatto fosse lesivo dell’estetica condominiale, ha puntualizzato che “basta osservare le fotografie allegate alla Ctu per rendersi conto della completa difformità della veranda rispetto al resto dell’architettura dell’edificio che, comunque, ha un suo pregio e una sua caratteristica ben evidente all’osservatore, per cui la nuova e difforme edificazione risalta in modo evidentissimo”. 

Da ultimo, il ricorso in Cassazione e la nuova, definitiva, sconfitta dell’appellante. Secondo gli Ermellini, che hanno confermato la demolizione del manufatto, la descrizione della Corte d’Appello era molto significativa (in riferimento ai materiali e alla copertura) circa l’offensività del manufatto rispetto al fabbricato originario e al suo insieme architettonico.

LOCAZIONE:CANONE SUPERIORE A QUELLO REGISTRATO E INVALIDITÀ DEL CONTRATTO

[A cura di: avv. Gianfranco Rosati – resp. Commissione legale Appc]

Una recente ordinanza della Corte di Cassazione (n. 37 del 03/01/14) ha, di fatto, mutato un orientamento consolidato della Giurisprudenza in tema dell’art. 13 L. 431/98. L’art. 13 sovramenzionato titolato “Patti Contrari alla Legge” prevede al 1° comma la nullità di ogni pattuizione volta a determinare un canone di locazione superiore a quello risultante dal contratto scritto e registrato.

In tale ipotesi (vedi 5° comma) il conduttore, con azione proponibile sino a 6 mesi dopo la riconsegna dell’unità immobiliare può chiedere la restituzione di quanto pagato in eccesso.

Questo il quadro.

Sino ad oggi la Giurisprudenza consolidata dalla S.C. (vedi sent. n. 8230/10; 8148/09 e soprattutto n. 16089/03) aveva escluso che l’art. 13 potesse colpire con la sanzione della nullità, in conseguenza della mancata registrazione, la pattuizione di un canone superiore a quello risultante dal contratto scritto e registrato poiché la “ratio” era il divieto di imposizione di canoni maggiori ma solo nel corso dello svolgimento del rapporto locatizio.

In altri termini, la Suprema Corte argomentava che anche se era stato versato dal conduttore un canone superiore a quello stabilito nel contratto scritto e registrato e quello superiore risultava da altro atto separato, (logicamente non registrato), trattavasi in ipotesi di simulazione parziale per cui era valida tra le parti la pattuizione contenuta nella scrittura privata non registrata ed il conduttore non era legittimato a richiedere quanto corrisposto in eccesso.

La Suprema Corte operava un ragionamento squisitamente privatistico escludendo, in virtù dell’istituto della simulazione, in questo caso relativa, che violazioni di carattere tributario potessero colpire con la nullità pattuizioni contrattuali.

Questa impostazione era ed è avvalorata anche dall’art. 10 ultimo comma della L. 212/01 (statuto dei diritti del contribuente) laddove prevede che “violazioni di disposizioni di rilievo esclusivamente tributario non possano essere causa di nullità del contratto”. La Cassazione, quindi, operava un netto distinguo tra patologia del negozio e/o diritto privato e diritto tributario nel senso che le violazioni di questi potranno comportare sanzioni di carattere fiscale, ma non potranno mai inficiare pattuizioni contrattuali.

In questo quadro è intervenuta l’ordinanza n. 37 del 03/01/14 sovramenzionata che in base alle teorie di “causa concreta del contratto” e “abuso di diritto”, ha argomentato che in presenza di corresponsione di un canone superiore a quello risultante dal contratto registrato si ha la realizzazione di un risultato vietato dalla Legge; con la conseguenza che causa concreta di siffatto negozio è l’elusione fiscale che, ponendosi in aperta violazione di una norma di legge, non può che essere affetto da nullità.

Orbene, tale impostazione presenta il fianco a diverse critiche.

In primis: è pacifico che la Suprema Corte, mutando l’orientamento giuridico consolidato in tema, ha individuato nella lotta al cosiddetto mercato sommerso degli affitti (ergo intento puramente fiscale) la ratio dell’art. 13 L. 431/98. Invero tale interpretazione appare una forzatura del dettato legislativo. Infatti il fine cui tende l’articolo in esame è quello di sanzionare con la nullità qualsiasi pattuizione in corso di contratto tendente ad assicurare al locatore un canone maggiore di quello dichiarato, non se questi è stato pattuito “ab origine”. In sostanza: i principi dell’ordinanza 37/14 si possono individuare, come già citato nella “causa concreta del contratto” e “abuso di diritto”.

È indispensabile esaminare alcuni precedenti in cui il Legislatore ha imposto “sanzioni privatistiche” (nullità e/o improcedibilità) come diretta conseguenza di illeciti fiscali. Si è tentato quindi di commistionare diritto privato e diritto tributario ma, come si vedrà, con risultati privi di significato.

Procediamo per gradi:

* Anno 1998, L. 431/98 all’art. 7 prevedeva, quale condizione per l’esecuzione del provvedimento di rilascio di un immobile, l’onere per il proprietario di dimostrare che:

– il contratto di locazione era stato registrato;

– l’unità immobiliare era stata denunciata ai fini dell’allora Ici;

– il relativo reddito fosse stato dichiarato.

La Consulta, con la propria sentenza n. 333/01 ne ha dichiarato l’incostituzionalità;

* Anno 2011, D. Lgs 23/11 all’art. 3, commi 8 e 9, comminava pesantissime sanzioni al locatore per la mancata registrazione del contratto (contratto di 8 anni ad un canone calcolato sul triplo della rendita catastale, un vero e proprio esproprio indiretto).

Anche qui la Consulta, con la sentenza 50/14 ne ha dichiarato l’incostituzionalità.

Ebbene operando un esame sistematico del “corpus iuris” vigente (con particolare riferimento anche alla L. 212/01 statuto del contribuente) ed alla luce della costante giurisprudenza della Corte Costituzionale non si può che concludere che ogni tentativo del Legislatore di compenetrazione tra diritto privato e diritto tributario è stato perentoriamente cassato.

La ratio di siffatta impostazione è da ricercarsi nel principio, costituzionalmente garantito, di salvaguardia dell’autonomia delle parti nell’ambito del contratto per cui, in presenza di illeciti fiscali (evasione e/o elusione), l’autore ne dovrà rispondere autonomamente al fisco, ma tali inadempimenti non potranno mai essere causa di nullità di qualsivoglia accordo contrattuale.

EDILIZIA E IMPIANTI: CHIARIMENTI SULL’APPLICAZIONE DEL RIVERSE CHARGE

[A cura di: Andrea Cartosio – Istituto nazionale tributaristi]

Il reverse charge o inversione contabile è un operazione finanziaria introdotta, in origine, dalla Comunità Europea per combattere l’evasione fiscale connessa al pagamento dell’IVA.

La metodologia di applicazione del reverse charge si ha quando un soggetto passivo Iva in qualità di cedente o prestatore di servizi emette fattura senza l’indicazione dell’imposta sul valore aggiunto (IVA) specificando che tale operazione/prestazione è soggetta a reverse charge, come disposto dall’art. 17 del D.P.R. 633/72; questo obbligherà il destinatario della cessione/prestazione, anch’esso soggetto passivo Iva, ad adempiere al pagamento di tale imposta.

La legge finanziaria entrata in vigore il 1° gennaio 2015 ha esteso l’applicazione dell’IVA con il meccanismo del reverse charge apportando modifiche sostanziali all’articolo 17, comma 6, del D.P.R. n. 633/72 (modificata all’articolo 1, comma 629, lettera a, legge n. 19/2014) volte proprio alla eliminazione della possibilità di evasione fiscale.

La circolare 14/E del 27 marzo 2015, pubblicata dall’Agenzia delle Entrate, è volta a chiarire (anche se di fatto lascia comunque dubbi interpretativi) alcuni aspetti lacunosi della suddetta materia presente in Finanziaria 2015 in riferimento alla disciplina relativa al settore edile, installazione degli impianti ribadendo inoltre i soggetti esclusi dall’applicazione del reverse charge.

Modifiche alla normativa relativa al settore edile

L’Amministrazione finanziaria chiarisce che l’inversione contabile (reverse charge) è possibile in caso di prestazioni di pulizia, demolizione, installazione di impianti e completamento in relazione a edifici a prescindere dalla presenza o meno di un rapporto di subappalto o alla tipologia di attività svolta dal committente; viene inoltre specificato che, tale regime, risulta applicabile a tutte le prestazioni B2B.

Al paragrafo 1.2 della circolare 14/E viene specificato come le prestazioni soggette al regime di reverse charge debbano essere individuate nell’ambito di quelle elencate nella sezione F della tabella ATECO, relative alle sole prestazioni che possano intendersi riferite ad edifici e non già a tutte quelle genericamente riferibili a beni immobili. “È stato precisato che per edificio e fabbricato si intende qualsiasi costruzione coperta isolata da vie o da spazi vuoti, oppure separata da altre costruzioni mediante muri che si elevano, senza soluzione di continuità, dalle fondamenta al tetto, che disponga di uno o più liberi accessi sulla via, e possa avere una o più scale autonome”.

In base alla ricostruzione normativa sopra operata, pertanto, si è dell’avviso che il Legislatore, utilizzando il riferimento alla nozione di edificio, abbia sostanzialmente voluto limitare la

disposizione in commento ai fabbricati, come risultanti dalle disposizioni sopra esposte e non alla più ampia categoria dei beni immobili. Dunque secondo quanto chiarito dall’Agenzia delle Entrate “si ritiene che non rientrino, pertanto, nella nozione di edificio e vadano, quindi, escluse dal meccanismo del reverse charge le prestazioni di servizi di cui alla lettera a-ter) aventi ad oggetto, ad esempio, terreni, parti del suolo, parcheggi, piscine, giardini, etc., salvo che questi non costituiscano un elemento integrante dell’edificio stesso (ad esempio, piscine collocate sui terrazzi, giardini pensili, impianti fotovoltaici collocati sui tetti, etc.)”.

Punto assai spinoso per quanto riguarda il completamento degli edifici, poiché la circolare non colma i dubbi sorti dalla lettura della suddetta normativa “Si osserva che il termine completamento di edifici, contenuto nella lettera a-ter) in commento, è utilizzato dal Legislatore in modo atecnico” pertanto bisognerà fare riferimento alla suddetta circolare, portante la classificazione dei codici ATECO, per evincere se l’attività in questione rientra o meno nell’applicazione del reverse charge.

Modifiche alla normativa relativa alla istallazione di impianti

La circolare 14/E ribadisce l’applicabilità del inversione contabile a: “ai trasferimenti di quote di emissioni di gas a effetto serra definite dall’articolo 3 della Direttiva 2003/87/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 ottobre 2003, e successive modificazioni, trasferibili ai sensi dell’articolo 12 della medesima Direttiva 2003/87/CE, e successive modificazioni; ai trasferimenti di altre unità che possono essere utilizzate dai gestori per conformarsi alla citata Direttiva 2003/87/CE e di certificati relativi al gas e all’energia elettrica;alle cessioni di gas e di energia elettrica a un soggetto passivo-rivenditore ai sensi dell’articolo 7-bis, comma 3, lettera a)”.

Inoltre viene reso applicabile la metodologia dell’inversione contabile alle cessione di gas e di energia elettrica al soggetto passivo. 

Nessuna modifica risulta essere apportata nell’applicazione del suddetto meccanismo contabile (reverse charge) per quanto riguarda i condomini, dunque gli interventi effettuati dalle imprese sulle parti comuni risultano esclusi.