[A cura di: Corrado Sforza Fogliani – presidente centro studi Confedilizia]
L’Agenzia delle entrate, con la risoluzione n. 13/E del 26.1.2017, ha chiarito – alla luce del costante orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità sul punto – che il contribuente che vende entro cinque anni l’immobile acquistato con i benefici “prima casa”, ed entro un anno dalla cessione costruisca un altro immobile ad uso abitativo (diverso dalle categorie catastali A/1, A/8 e A/9) su un terreno di cui il contribuente sia già proprietario al momento della cessione dell’immobile agevolato, non perde l’agevolazione. Naturalmente, il tutto in presenza di utilizzo del nuovo immobile come dimora abituale del contribuente.
In breve, le Entrate, contrariamente a quanto finora affermato (cfr. risoluzione n. 44/E del 16.5.2004 e circolare n. 38/E del 12.8.2005), precisano che quello che rileva ai fini del beneficio è il momento edificatorio. Infatti – come la Corte di Cassazione ha più volte sancito – non assume rilevanza il momento di acquisizione del terreno sul quale dovrà sorgere l’immobile da adibire ad abitazione principale, essendo sufficiente, affinché il contribuente conservi i benefici fiscali previsti per l’acquisto della c.d. “prima casa”, che “entro un anno dall’alienazione del primo immobile per il quale ne aveva fruito, abbia a realizzare su un proprio terreno un fabbricato, dando concreta attuazione al proposito di adibirvi effettivamente la propria abitazione principale”.
Con questa risoluzione, l’Agenzia torna sui suoi passi e si uniforma alla Cassazione (da ultimo, cfr. sentt. n. 18214 del 16.9.2016 e n. 13550 dell’1.7.2016), con invito alle strutture territoriali a riesaminare le controversie pendenti concernenti la materia in esame e, ove l’attività accertativa dell’Ufficio sia stata effettuata secondo criteri non conformi a quelli espressi dai giudici di legittimità, ad abbandonare – con le modalità di rito, tenendo conto dello stato e del grado di giudizio – la pretesa tributaria, sempre che non siano sostenibili altre questioni.
[A cura di: strudio legale MaBe & Partners]
Il regolamento condominiale prevedeva che le spese per la manutenzione delle scale avvenissero ai sensi dell’art. 1124 c.c.; negli atti di acquisto dei condòmini era altresì previsto che “la ripartizione delle spese condominiali verrà fatta in proporzione ai millesimi di proprietà e in conformità a quanto disposto dal regolamento di condominio”.
Dato che il regolamento de quo non prevedeva alcuna regola in tema di ascensore, le spese di bilancio sull’uso dell’ascensore erano state suddivise dal condominio soltanto secondo i millesimi di proprietà e non anche secondo l’altezza di piano. Un condomino aveva però impugnato tale computo delle spese lamentando una erronea ripartizione degli oneri relativi al servizio di ascensore. Tuttavia, sia Tribunale di Verona sia la Corte di Appello, respingevano nel merito tale impugnativa.
In sede di ricorso in Cassazione, il ricorrente rilevava nuovamente l’erroneità nella ripartizione delle spese e indicava altresì un altro vizio della decisione di secondo grado circa la celebrazione della assemblea e la partecipazione per delega dei condòmini. La Corte di Cassazione, con sentenza n. 8015 del 28 marzo 2017, ha ribadito il principio ormai consolidato secondo il quale la regola posta dall’art. 1124 c.c. in mancanza di criteri convenzionali, è applicabile per analogia, ricorrendo l’identica “ratio”, alle spese relative alla conservazione e alla manutenzione dell’ascensore già esistente.
Circa la clausola del regolamento condominiale che dispone che le spese di manutenzione delle scale vadano ripartite secondo l’art. 1124 c.c., la Corte ha affermato che “non può affatto essere intesa come convenzione contraria alla suddivisione delle spese di manutenzione degli ascensori secondo lo stesso criterio; né tanto meno vale quale deroga all’art. 1124 c.c. la clausola contenuta nell’atto di acquisto che prevede che la ripartizione delle spese condominiali avvenga secondo i millesimi e in conformità a quanto disposto dal regolamento”.
[A cura di: Massimo Cancedda, FiscoOggi – Agenzia delle Entrate]
Per la validità della notificazione dell’atto tributario, eseguita in via diretta a mezzo del servizio postale mediante consegna nelle mani del portiere, non è richiesto l’invio al destinatario della raccomandata informativa, prevista per analoga fattispecie dall’articolo 139 del codice di procedura civile. Così ha concluso la Corte suprema, con la sentenza 11619/2017, ove è stato altresì ribadito che la disciplina delle notifiche postali dirette è quella concernente il servizio postale ordinario e non quella dettata dalla legge 890/1982.
Vicenda processuale
Ricevuto un preavviso di fermo, l’interessato proponeva impugnazione al tribunale di Roma, rilevando l’omessa notifica della cartella di pagamento che ne costituiva il presupposto. La sfavorevole decisione di prime cure veniva riformata dalla Corte d’appello, che affermava la nullità della notifica dell’atto prodromico per violazione dell’articolo 7 della legge 890/1982. In particolare, il Collegio di secondo grado concludeva che per la ritualità della notifica postale della cartella – consegnata al portiere presso l’indirizzo di residenza del destinatario – sarebbe stato necessario l’invio all’interessato dell’apposita raccomandata informativa dell’avvenuta notificazione prevista dalla legge.
Ricorrendo in sede di legittimità, l’Agente della riscossione, per quanto d’interesse in questa sede, denunciava violazione dell’articolo 26 del Dpr 602/1973 e falsa applicazione dell’articolo 7 della legge 890/1982, per avere, a suo dire, il giudice di appello errato nell’applicare alla fattispecie quest’ultima norma riguardante ipotesi diversa da quella in discussione.
Pronuncia della Corte
L’esposta doglianza è stata accolta dalla Corte, che ha innanzitutto ricordato che, in base all’articolo 26 del Dpr 602/1973, la notifica della cartella può “essere eseguita anche mediante invio, da parte dell’esattore, di lettera raccomandata con avviso di ricevimento” e che, in tal caso, “la notifica si ha per avvenuta alla data indicata nell’avviso di ricevimento sottoscritto dal ricevente o dal consegnatario, senza necessità di redigere un’apposita relata di notifica…”.
In generale, spiegano i togati di piazza Cavour, quando l’ufficio si avvale di questa modalità semplificata di notifica, “alla spedizione dell’atto si applicano le norme concernenti il servizio postale ordinario e non quelle indicate dalla legge n. 890 del 1982 (Cass. n. 17598 del 2010, Cass. n. 911 del 2012, Cass. n. 14146 del 2014, Cass. 19771 del 2013, Cass. 16949 del 2014)” e, in caso di consegna del piego postale al portiere, l’invio della raccomandata informativa prevista dal quarto comma dell’articolo 139 cpc “non attiene alla perfezione dell’operazione di notificazione, sicché la sua omissione si risolve in una mera irregolarità di carattere estrinseco non integrante alcuna delle ipotesi di nullità previste dall’art. 160”.
Osservazioni
Non è infrequente che la notificazione di un atto venga eseguita a mezzo del servizio postale e che, in fase di recapito, l’atto venga ricevuto per conto del diretto interessato da qualcuno dei soggetti che la legge individua come legittimi consegnatari, persone tra le quali è ricompreso il portiere dello stabile che si trova all’indirizzo del destinatario. Al riguardo, ad esempio, l’articolo 7 della legge 890/1982 prevede al terzo comma che, quando la notificazione postale è eseguita secondo la disciplina prevista per gli “atti giudiziari”, il piego da notificare, in assenza di altri legittimi consegnatari, può essere consegnato anche “al portiere dello stabile ovvero a persona che, vincolata da rapporto di lavoro continuativo, è comunque tenuta alla distribuzione della posta al destinatario”. In questo caso, l’ultimo comma dello stesso articolo 7 stabilisce che l’agente postale fornisce al destinatario notizia dell’avvenuta notificazione dell’atto a mezzo di lettera raccomandata: la mancanza di detto adempimento, per costante giurisprudenza, comporta la nullità della notificazione nei confronti del destinatario dell’atto (tra le altre, cfr Cassazione, 16209/2014, 10554/2015 e 992/2016).
Peraltro, l’articolo 14 della legge 890/1982 – analogamente a quanto stabilito dall’articolo 26 del Dpr 602/1973 per la cartella di pagamento – reca una disciplina speciale per gli atti tributari, stabilendo che la relativa notificazione può “avvenire con l’impiego di plico sigillato e può eseguirsi a mezzo della posta direttamente (vale a dire, senza intermediazione dell’ufficiale giudiziario o di altro agente notificatore: cfr Cassazione, 3334/2017, 1980/2015 e 23117/2013) dagli uffici finanziari…”. Sul punto, la giurisprudenza ha chiarito che, quando la notifica è eseguita dall’ufficio a mezzo del servizio postale in via diretta, non rilevano le disposizioni della legge 890/1982, che “concernono esclusivamente la notifica eseguita dall’ufficiale giudiziario (o agente notificatore equiparato, tra cui il messo speciale autorizzato degli uffici finanziari)” (cfr Cassazione, 12217, 11094, 11007, 10245, 9614 e 9227, tutte del 2017), ma trova applicazione la disciplina prevista per le raccomandate cosiddette “ordinarie” dal Dpr 655/1982 e, ratione temporis, dai decreti del ministero delle Comunicazioni del 9 aprile 2001 e del ministero dello Sviluppo economico del 1° ottobre 2008; attualmente, si rendono applicabili le regole fissate dall’allegato A alla delibera dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni del 20 giugno 2013, n. 385/13/Cons. Nelle richiamate discipline non è previsto che al recapito del piego in mani di persona diversa dal diretto interessato debba far seguito l’invio a quest’ultimo di una “comunicazione di avvenuta notifica”.
Per costante giurisprudenza, quindi, in caso di notifica diretta a mezzo raccomandata postale, non occorre alcuna annotazione specifica sull’avviso di ricevimento in ordine alla persona cui è consegnato il plico e l’atto recapitato all’indirizzo del destinatario deve ritenersi ritualmente consegnato a quest’ultimo, “stante la presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 cod. civ., superabile solo se il medesimo dia prova di essersi trovato senza sua colpa nell’impossibilità di prenderne cognizione”; e ciò vale anche quando l’atto sia ricevuto dal portiere, senza che necessiti “l’ulteriore adempimento della raccomandata informativa, quale previsto dall’art. 7, 6° comma della L. n. 890/1982, analogamente a quanto disposto dall’art. 139, 4° comma c.p.c. in tema di notifica al portiere per ufficiale giudiziario” (cfr Cassazione, 6680/2016 e 23874/2015).
[A cura di: FiscoOggi – Agenzia delle Entrate]
Pronto il nuovo Rli, il modello per registrare i contratti di locazione e affitto di immobili e per comunicare eventuali proroghe, cessioni, risoluzioni e subentri, nonché per esercitare o revocare l’opzione per il regime della cedolare secca.
L’approvazione del modello è arrivata con il provvedimento delle Entrate del 15 giugno 2017, che vi ha dato il via libera, insieme alle relative istruzioni e alle specifiche tecniche per la trasmissione telematica. Il nuovo Rli entrerà ufficialmente in servizio dal prossimo 19 settembre, in sostituzione di quello approvato il 10 gennaio 2014. Quest’ultimo rimane in carica, da solo, fino al giorno precedente: scambio di testimone tra i due, quindi, senza periodi di sovrapposizione.
LE FUNZIONI
Il modello è utilizzato anche per: registrare contestualmente i contratti di affitto di terreni e degli annessi titoli Pac (in sostituzione del modello 69); comunicare i dati catastali dell’immobile oggetto di locazione o di affitto; denunciare i contratti di locazione non registrati, i contratti di locazione con canone superiore a quello registrato o i comodati fittizi; registrare i contratti di locazione con previsione di canoni differenti per le diverse annualità; registrare i contratti di locazione a tempo indeterminato; gestire la comunicazione della risoluzione o proroga tardiva in caso di cedolare secca; registrare i contratti di locazione di pertinenze concesse con atto separato rispetto all’immobile principale.
LE NOVITÀ
Con il restyling, oltre all’inserimento di alcuni spazi che forniscono dati aggiuntivi riguardanti i soggetti interessati e il tipo di contratto, debutta il nuovo quadro E; deve essere compilato soltanto se per una o più annualità è previsto un canone differente e se la casella “Casi particolari” del quadro “A – Dati generali”, è stata valorizzata con i codici “1” o “3” che individuano, appunto, tale ipotesi. Il secondo codice, in particolare, indica che si è scelto di pagare l’imposta in un’unica soluzione per tutto il periodo del rapporto di locazione. Il canone per la prima annualità deve essere inserito nella sezione 1 del quadro A; per quelle successive, i canoni trovano posto nei campi del novello quadro E.
La scadenza dell’acconto 2017 di Imu e Tasi, scoccata lo scorso venerdì 16 giugno, ha portato nelle casse dei Comuni 10/11 miliardi di euro, e Confedilizia ha calcolato nell’8,8 per mille la media della somma delle aliquote Imu e Tasi deliberate dai Comuni capoluogo di provincia per gli immobili locati a “canone agevolato”, e nel 10,5 per mille l’aliquota media ordinaria.
A questo proposito, il presidente di Confedilizia, Giorgio Spaziani Testa (nella foto), ha dichiarato: “I dati sulle aliquote Imu e Tasi confermano l’urgenza di un intervento legislativo per salvare, almeno, l’affitto. Non si può lasciare ai Comuni la cura di un settore che – nell’ambito abitativo come in quello non abitativo – svolge, attraverso tante famiglie che hanno investito i propri risparmi negli immobili, una funzione economica e sociale indispensabile. Per quanto riguarda le abitazioni, quasi vent’anni fa il Parlamento introdusse una speciale categoria di contratti di locazione – i cosiddetti contratti concordati – fondata su un patto molto chiaro: canoni al di sotto di quelli di mercato in cambio di agevolazioni fiscali per i proprietari. Dopo la manovra Monti del 2011, la tassazione su questi immobili si è addirittura quadruplicata, annullando l’effetto della cedolare secca introdotta pochi mesi prima. E l’appetibilità degli affitti a canone calmierato si è di molto affievolita. Considerato che i Comuni prevedono solo raramente aliquote agevolate per le abitazioni locate attraverso questi contratti (la media dei capoluoghi di Provincia è dell’8,8 per mille e in molti casi vengono applicate addirittura le aliquote massime), è urgente la fissazione per legge di una misura massima della somma delle aliquote Imu-Tasi, che potrebbe essere individuata nel 4 per mille. Peraltro, il prossimo 31 dicembre scadrà il periodo di applicazione della misura del 10% della cedolare secca, valida per gli affitti a canone calmierato nei Comuni ad alta tensione abitativa. Considerata l’importanza – anche sociale – che riveste questa misura, è essenziale stabilizzarla, estendendo la sua applicabilità a tutta Italia”.
Ma ancora peggiore, secondo Spaziani Testa, è la situazione nel comparto delle locazioni non abitative: “I Comuni non prevedono quasi mai aliquote specifiche per la locazione di locali commerciali. Di conseguenza, in questi casi viene applicata l’aliquota ordinaria, che in media è pari al 10,5 per mille. Nel complesso, le imposte, statali e locali (ben 7: Irpef, addizionale regionale Irpef, addizionale comunale Irpef, Imu, Tasi, imposta di registro, imposta di bollo), arrivano ad erodere fino all’80% del canone di locazione, anche per via della irrisoria deduzione Irpef per le spese, pari al 5%. Senza considerare il rischio di morosità e quello di sfitto che contribuiscono ad azzerare la redditività dell’investimento. Anche qui si impone un intervento legislativo, sotto forma di estensione della cedolare secca all’affitto non abitativo ovvero di limite alla tassazione comunale”.
L’attitudine dei rumori a disturbare il riposo delle persone non deve essere necessariamente accertata mediante perizia o consulenza tecnica, ben potendo il giudice fondare il proprio convincimento su elementi probatori di diversa natura, quali le testimonianze dei condòmini. È il principio di diritto richiamato dalla Cassazione con l’ordinanza 28409/2017 relativa a una vicenda di rumori molesti in condominio.
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CORTE DI CASSAZIONE
Sez. VII pen., ord. n. 28409/2017
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RITENUTO
* che il Tribunale di Massa, con sentenza del 28 febbraio 2011, ha affermato la penale responsabilità di T.B. in ordine al reato di cui all’art. 659 cod. pen. (reato commesso ed accertato in Massa nel mese di aprile 2009);
* che avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione – tramite il proprio difensore – l’imputato, denunziando l’insussistenza del reato e lamentando violazione della legge processuale penale e manifesta illogicità della motivazione per avere il Tribunale affermato la penale responsabilità sulla base di una superficiale ed incompleta valutazione del materiale probatorio, attraverso argomentazioni manifestamente illogiche;
* che, contrariamente all’assunto difensivo, il giudice di merito ha valorizzato, ai fini dell’affermazione di responsabilità, il complessivo materiale probatorio acquisito agli atti processuali;
* che, nella specie (riguardante rumori provenienti dal continuo abbaiare di cani nelle ore notturne all’interno della abitazione ove gli stessi si trovavano e dall’urto continuo di tapparelle con disturbo permanente dei residenti nel condominio), sono stati accertati sulla base delle numerose e concordi testimonianze acquisite, rumori molesti insopportabili e continui cagionati dal frequente ed incontrollato abbaiare dei cani in ore notturne lasciati soli nell’assenza del proprietario dell’appartamento, nonché dallo sbattere di continuo di porte, finestre ed inferriate dell’abitazione: rumori tutti ascrivibili al T.B., che, solo dopo essere stato convocato dal Questore di Lucca reso edotto di quanto sopra dall’Amministratore del condominio cui si erano rivolti, esasperati, numerosi condòmini, nonché altri condòmini di edificio limitrofo per fare cessare i rumori molesti, ha modificato il proprio comportamento;
* che è consolidato l’orientamento di questa Corte in materia di configurabilità del reato di cui all’art. 659 cod. pen. nel senso che l’attitudine dei rumori a disturbare il riposo o le occupazioni delle persone non deve essere necessariamente accertata mediante perizia o consulenza tecnica, ben potendo il giudice fondare il proprio convincimento su elementi probatori di diversa natura, quali le dichiarazioni di coloro che sono in grado di riferire le caratteristiche e gli effetti dei rumori percepiti, sì che risulti oggettivamente superata la soglia della normale tollerabilità (omissis);
* che le censure concernenti asserite carenze argomentative sui singoli passaggi della ricostruzione fattuale dell’episodio e dell’attribuzione dello stesso alla persona dell’imputato non sono proponibili nel giudizio di legittimità, quando la struttura razionale della decisione sia sorretta, come nella specie, da logico e coerente apparato argomentativo, esteso a tutti gli elementi offerti dal processo, e il ricorrente si limiti sostanzialmente a sollecitare la rilettura del quadro probatorio, alla stregua di una diversa ricostruzione del fatto, e, con essa, il riesame nel merito della sentenza impugnata;
* che le considerazioni svolte dalla difesa del ricorrente in ordine alla dichiarazioni dei testi sono sostanzialmente di tipo fattuale e come tali inammissibili in sede di legittimità;
* che il ricorso, conseguentemente, va dichiarato inammissibile e, poiché la inammissibilità non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione, non può tenersi conto di eventuali cause di estinzione del reato intervenute successivamente alla pronuncia della decisione impugnata (omissis);
– che, a norma dell’art. 616 c.p.p., alla declaratoria di inammissibilità – non potendosi escludere che essa sia ascrivibile a colpa del ricorrente (Corte Cost. 7-13 giugno 2000, n. 186) consegue l’onere delle spese del procedimento, nonché quello del versamento, in favore della Cassa delle ammende, della somma, equitativamente fissata, di euro 1.000.
P.Q.M.
Dichrara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di euro 1.000 alla Cassa delle Ammende.
La cantina va a fuoco
In tre in ospedale
Un uomo di 67 anni, residente in un condominio in provincia di Alessandria, è rimasto gravemente ferito a seguito di un incendio divampato nella sua cantina. Il 67enne è stato trasportato al Cto di Torino con ustioni di secondo e terzo grado sul 30% del corpo. A soccorrerlo sono stati due condòmini, rimasti leggermente intossicati nel tentativo di spegnere le fiamme con un idrante. Sul posto sono arrivati tempestivamente anche i vigili del fuoco, che hanno estinto il rogo e verificato le condizioni di sicurezza dell’edificio. Sono in corso le indagini per accertare le cause dell’incendio.
Tragedia domestica:
bimbo muore folgorato
Aveva poco più di due anni il bambino rimasto ucciso dopo aver infilato un oggetto metallico nella presa di corrente. La tragedia è avvenuta in un appartamento alle porte di Parma, dove il piccolo viveva insieme alla madre, il padre e la sorellina. Da una prima ricostruzione dei fatti risulta che in casa, assieme al minore, si trovasse soltanto la madre. Purtroppo però non si era accorta che il figlio aveva preso una frusta del frullatore per poi infilarla nella presa elettrica. Sbalzato all’indietro per la potente scossa, ha perso subito conoscenza ed è stato trasportato all’ospedale, dove è spirato poco dopo. Sotto shock la mamma, è stata colpita da un malore.
Lite per il cane
con lame e bastoni
Un giovane di 24 anni, residente al piano terra di una palazzina di Vicenza, ha deciso di affrontare i vicini di casa rumorosi arrampicandosi lungo la parete esterna del condominio, armato di una mezzaluna da cucina. Motivo: il cane degli inquilini del primo piano che non smetteva di abbaiare nonostante fosse passata la mezzanotte. Quando i padroni dell’animale si sono accorti del 24enne hanno chiamato la polizia, riprendendo la scena col cellulare. All’arrivo delle forze dell’ordine gli animi si erano calmati, ma a riaccendere la lite ci ha pensato il fidanzato della figlia del padrone del cane, giunto sul posto con un bastone. A quel punto gli agenti l’hanno bloccato e denunciato.
Spacciatore seriale
Vendeva droga da casa
Sequestrati trenta grammi di cocaina, tre di hashish, due di marijuana e tremila euro in contanti: questo il risultato del blitz messo in atto dai carabinieri di un comune in provincia di Perugia presso l’abitazione di un 40enne, arrestato. Durante la perquisizione della casa è stato trovato anche un bilancino elettronico e tutto il necessario per il confezionamento delle dosi. A seguito delle indagini è emerso che l’uomo, dedito allo spaccio, nonostante il recente trasferimento nella zona in poco tempo, era diventato un punto di riferimento per i tossicodipendenti della città. Per questo motivo il giudice ha deciso di disporne la custodia in carcere.
Furto in casa con riscatto
Quattro persone nei guai
È stata sgominata la banda di topi d’appartamento che circa un anno fa aveva messo a segno un colpo record da 250mila euro, svaligiando un’abitazione in provincia di Foggia. Il lauto bottino, composto da oggetti d’oro, denaro contante e titoli di credito, era stato poi oggetto di una trattativa tra le vittime del furto, che volevano recuperare il malloppo, e i malviventi. L’accordo raggiunto, però, non ha soddisfatto i legittimi proprietari che hanno deciso di rivolgersi ai carabinieri. Grazie alle intercettazioni telefoniche sono finiti in manette in quattro, tutti residenti nella zona e ritenuti responsabili, a vario titolo, dei reati di estorsione aggravata e ricettazione in concorso.
[A cura di: Ance Foggia]
Esclusione dalle sanzioni in caso di decadenza dai benefici “prima casa” ai fini dell’imposta di Registro, nell’ipotesi di acquisto, prima del 2014, di un’abitazione di lusso secondo i criteri del previgente D.M. 2 agosto 1969. Questo il principio espresso dalla Corte di Cassazione della Sentenza 11 maggio 2017, n. 11621, in materia di applicabilità dei benefici fiscali “prima casa”, ai fini dell’imposta di Registro (cfr. l’art. 1 della Tariffa, Parte Prima, allegata al D.P.R. 131/1986.).
In particolare, il caso di specie riguarda la compravendita di un’abitazione effettuata nel 2001, relativamente alla quale l’acquirente aveva fruito dei benefici “prima casa” ai fini dell’imposta di Registro (aliquota allora pari al 3%, anziché 9%), nonostante l’unità immobiliare avesse le caratteristiche c.d. “di lusso”, secondo i criteri del previgente D.M. 2 agosto 1969. Come noto, infatti, fino al 31 dicembre 2013 le agevolazioni fiscali (ai fini IVA e Registro) correlate all’acquisto di abitazioni da destinare a “prima casa”, trovavano applicazione unicamente a condizione che l’immobile fosse qualificato come “non di lusso”, sempre in base al predetto D.M. 2 agosto 1969.
Proprio con riferimento alle caratteristiche di tali abitazioni, il regime è cambiato dal 1° gennaio 2014 e la definizione “di lusso” è stata sostituita dall’accatastamento delle stesse nelle categorie A1 (abitazioni di tipo signorile), A8 (abitazioni in ville) ed A9 (castelli e palazzi con pregi artistici e storici). In sostanza, dal 2014 le agevolazioni “prima casa” (ai fini IVA e Registro) vengono riconosciute per l’acquisto di abitazioni accatastate nelle categorie diverse da A1, A8 ed A9, secondo un criterio puramente catastale.
Nella sentenza n. 11621/2017 la Cassazione, nel confermare la decadenza dai benefici “prima casa”, ha stabilito l’applicabilità dell’imposta di Registro nella misura ordinaria, sul presupposto che l’abitazione acquistata nel 2001 presentava le caratteristiche “di lusso” secondo i criteri del D.M. 2 agosto 1969, allora in vigore. Diversamente, è stata esclusa l’applicabilità della sanzione, proprio in considerazione dell’intervenuta modifica normativa che ha cancellato l’oggetto della falsa dichiarazione resa a suo tempo dal contribuente, relativa ai requisiti “non di lusso” dell’abitazione. In pratica, la Cassazione ha ritenuto che, nel caso di specie, è stato addirittura superato il principio del favor rei in materia di sanzioni amministrative per violazioni tributarie (cfr. l’art. 3, co. 2, del D. Lgs. 472/1997) poiché è cambiata proprio la disciplina sostanziale a cui è correlata la sanzione.
In linea generale, si ricorda che la sanzione applicabile in caso di decadenza dai benefici “prima casa”, ai fini dell’imposta di Registro è pari al 30% dell’imposta ordinaria. Infatti, a prescindere dalla circostanza che la violazione sia stata commessa in passato, l’applicabilità della sanzione, ove non ancora versata, deve essere valutata tenendo conto del regime fiscale ad oggi in vigore, con la conseguenza che il comportamento che avrebbe dato luogo alla sanzione non appare più rilevante, poiché riferito a “parametri normativi non più vigenti” (ossia i requisiti “non di lusso”, ora sostituiti dal criterio catastale).
Il principio espresso dalla Cassazione, secondo il quale la sanzione è stata esclusa in osservanza del nuovo criterio catastale che individua le abitazioni “di lusso”, può essere invocato anche ai fini IVA, nell’ipotesi di acquisto di abitazioni “di lusso” da imprese di costruzioni, effettuato prima del 13 dicembre 2014, in presenza di verifiche fiscali volte ad accertare la decadenza dai benefici “prima casa”.