[A cura di: FiscoOggi – Agenzia delle Entrate]
Lo sconto fiscale, introdotto dalla Stabilità 2016 sotto forma di credito d’imposta per le persone fisiche che, lo scorso anno, hanno sostenuto spese per l’installazione di sistemi di videosorveglianza o di allarme, o per contratti stipulati con istituti di vigilanza, trova tutti gli strumenti per poter essere utilizzato. Con un provvedimento datato 30 marzo 2017, infatti, l’Agenzia delle Entrate, dopo aver esaminato le istanze presentate dagli interessati entro il 20 marzo (termine ultimo), ha fissato al 100% dell’importo richiesto la percentuale massima di credito spettante e, con parallela risoluzione n. 42/E, il codice tributo “6874”, da indicare nel modello l’F24 per l’utilizzo in compensazione.
L’ITER
Con l’occasione ripercorriamo, in sintesi, l’iter normativo dell’agevolazione pensata e strutturata con lo scopo di venire incontro alla necessità di prevenire le attività criminali. “Madre” del credito d’imposta, come anticipato, è stata la Stabilità per il 2016 (articolo 1, comma 982, legge 208/2015), seguita dal propedeutico decreto attuativo del 6 dicembre scorso. Nell’ordine, poi, sono arrivati il modello di richiesta (provvedimento del 14 febbraio scorso) e, dopo pochi giorni, il software per trasmetterlo on line.
Oltre a comunicare la percentuale massima di credito spettante a ciascun richiedente, il nuovo provvedimento fornisce indicazioni sulle modalità di utilizzo del bonus, ricordando che l’unica via percorribile per usufruirne è quella offerta dai canali telematici dell’Agenzia (Entratel o Fisconline); in caso contrario, il versamento si considera come non eseguito. In alternativa, il contribuente persona fisica non titolare di redditi d’impresa o di lavoro autonomo può utilizzare il credito spettante in diminuzione delle imposte dovute in base alla dichiarazione dei redditi.
COMPILAZIONE
Le “dritte” su come compilare il modello di pagamento unificato, invece, sono dettate dalla risoluzione 42/2017, che ha istituito la “griffe” del credito, cioè il codice tributo che lo identifica inequivocabilmente: “6874” andrà riportato in corrispondenza dell’ammontare indicato nella colonna “importi a credito compensati” della sezione “Erario”, mentre nel campo “anno di riferimento” si dovrà scrivere 2016 (anno di sostenimento della spesa). Lo stesso codice serve anche in caso di riversamento dell’agevolazione indebitamente fruita; in tale ipotesi, bisogna far riferimento alla colonna “importi a debito versati”.
[A cura di Fulvio Graziotto – www.studiograziotto.com]
Il condominio è un ente di gestione sfornito di personalità giuridica distinta da quella dei singoli condòmini. L’amministratore lo rappresenta nella sua interezza ed unitarietà, e i condòmini sono pertanto parti originarie del processo instaurato dall’amministratore: per eccepire la mancanza di responsabilità a loro carico, devono intervenire nel giudizio. L’argomento è stato oggetto della sentenza di Cassazione numero 4436/2017. Vediamo gli estremi della vicenda.
IL CASO
Il Tribunale condannava un condominio, in solido con la società che gestiva la manutenzione degli ascensori, e con condanna alla compagnia assicurativa in manleva della società, al pagamento di circa 750mila euro per i danni subiti da una bambina precipitata nel vano ascensore riportando lesioni gravissime. La Corte di Appello riformava la sentenza del Tribunale, ravvisando la esclusiva responsabilità condominiale, assolveva la società; condannava il condominio a pagare, e la danneggiata a restituire le somme corrisposte dalla compagnia assicurativa.
Alcuni condòmini proponevano successivamente opposizione di terzo, ex art. 404 codice di procedura civile, deducendo che il condominio era un edificio composto da quattro scale indipendenti, e che pertanto sussisteva un condominio parziale; di conseguenza, ritenevano che i condòmini tenuti a pagare fossero solo quelli della scala interessata dall’incidente. In via subordinata, chiedevano di veder dichiarato che la sentenza fosse a carico del condominio, e non solidalmente né nominativamente, a carico dei singoli condòmini.
La Corte di Appello dichiarava inammissibile l’opposizione di terzo per carenza dei presupposti di cui all’art. 404 c.p.c., non essendo i condòmini terzi rispetto alla pronuncia opposta. Avverso tale decisione proponevano ricorso per cassazione i condòmini delle altre scale, ma la Suprema Corte rigetta il ricorso.
LA DECISIONE
La Cassazione riassume le richieste dei ricorrenti, e quindi passa ad esaminare i vari motivi di ricorso, tra i quali quello relativo alla legittimazione dei condòmini a proporre opposizione di terzo. Il Collegio rileva che, «per costante giurisprudenza, la legittimazione ad impugnare la sentenza con l’opposizione di terzo ordinaria (art. 404, primo comma, cod. proc. civ.) presuppone in capo all’opponente la titolarità di un diritto autonomo la cui tutela sia incompatibile con la situazione giuridica risultante dalla sentenza pronunciata tra altre parti (Cass., Sez. III, 13 marzo 2009, n. 6179; Cass., Sez. Lav., 14 aprile 2010, n. 8888). Va inoltre ribadito che il giudicato formatosi all’esito di un processo in cui sia stato parte l’amministratore di un condominio, fa stato anche nei confronti dei singoli condòmini, pure se non intervenuti in giudizio, atteso che il condominio è ente di gestione sfornito di personalità giuridica distinta da quella dei singoli condòmini (Cass., Sez. II, 22 agosto 2002, n. 12343; Cass., Sez. III, 24 luglio 2012, n. 12911). Deve pertanto essere esclusa in capo ai condòmini istanti la legittimazione all’opposizione ordinaria ex art. 404 cod. proc. civ., non essendo essi terzi rispetto alla situazione giuridica affermata con la sentenza passata in giudicato».
E precisa poi a natura di parte dei condòmini: «I condòmini opponenti sono parti originarie rispetto alla lite conclusa con la sentenza impugnata con l’opposizione di terzo (Cass., Sez. III, 16 maggio 2011, n. 10717): infatti, è stato citato in giudizio il condominio nella sua interezza ed unitarietà e si è costituito il relativo amministratore senza sollevare eccezioni in relazione alla carenza di legittimazione passiva di una parte dei condòmini (i condòmini appartenenti alle scale A, B e C), i quali non hanno ritenuto di intervenire in giudizio per eccepire la mancanza di ogni responsabilità a loro carico».
Ne deriva che «I condòmini opponenti avrebbero dovuto intervenire nel giudizio in cui la difesa è stata assunta dall’amministratore o anche avvalersi, in via autonoma, dei mezzi di impugnazione dell’appello o del ricorso per cassazione per evitare gli effetti sfavorevoli della sentenza pronunciata nei confronti del condominio rappresentato dall’amministratore (Cass., n. 10717 del 2011, cit.; Cass., Sez. II, 6 agosto 2015, n. 16562)».
La Cassazione ritiene infondate le censure mosse dai ricorrenti «le quali non colgono la ratio decidendi, perché mirano in realtà a vedere accertata, in questa sede, la natura parziale del condominio e la non appartenenza alla comunione della scala D ove si trova l’impianto di ascensore il cui mancato adeguamento alla prescritta disciplina regolamentare è stato riconosciuto essere stato la causa dell’incidente addebitabile al condominio, e ciò senza tenere conto che il condominio parziale è situazione configurabile per la semplificazione dei rapporti gestori interni alla collettività condominiale, che non incide affatto sulla rappresentanza del condominio nella sua unitarietà in capo all’amministratore (cfr. Cass., Sez. II, 17 febbraio 2012, n. 2363)».
La Suprema Corte rigetta quindi il ricorso.
OSSERVAZIONI
La Cassazione ribadisce che il condominio è un ente di gestione sfornito di personalità giuridica distinta da quella dei singoli condòmini, e che l’amministratore rappresenta il condominio nella sua interezza ed unitarietà. I condòmini sono pertanto parti originarie del processo instaurato dall’amministratore, e non terzi. Per eccepire la mancanza di responsabilità a loro carico, ammesso che ciò fosse fondato, avrebbero dovuto intervenire nel in giudizio.
GIURISPRUDENZA
* Cass. 12343/2002
* Cass. 6179/2009
* Cass. 8888/2010
* Cass. 12911/2012
* Cass. 10717/2011
DISPOSIZIONI
Codice civile
CAPO II – Del condominio negli edifici – Art. 1123 -Ripartizione delle spese
Le spese necessarie per la conservazione e per il godimento delle parti comuni dell’edificio, per la prestazione dei servizi nell’interesse comune e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza sono sostenute dai condòmini in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno, salvo diversa convenzione.
Se si tratta di cose destinate a servire i condòmini in misura diversa, le spese sono ripartite in proporzione dell’uso che ciascuno può farne.
Qualora un edificio abbia più scale, cortili, lastrici solari, opere o impianti destinati a servire una parte dell’intero fabbricato, le spese relative alla loro manutenzione sono a carico del gruppo di condòmini che ne trae utilità.
Codice di procedura civile
CAPO V – Dell’opposizione di terzo – Art. 404 Casi di opposizione di terzo
Un terzo può fare opposizione contro la sentenza passata in giudicato o comunque esecutiva pronunciata tra altre persone quando pregiudica i suoi diritti.
Gli aventi causa e i creditori di una delle parti possono fare opposizione alla sentenza, quando è l’effetto di dolo o collusione a loro danno.
[A cura di: Mauro Simone – vice segr. naz. Alac; pres. Area metropolitana Bari Appc-Alac]
Una criticità contenuta nella novella legislativa n. 220 del 2012 riguarda l’ipotesi di rinnovabilità della nomina ad amministratore di condominio per l’amministratore che sia stato revocato dall’incarico a seguito di un atto dell’Autorità giudiziaria. In vero, la disposizione di cui al comma 13 dell’art.1129 c.c. prescrive che in caso di revoca da parte dell’Autorità giudiziaria l’assemblea non può nominare nuovamente l’amministratore destituito. Ci si chiede quale sia la corretta interpretazione di tale disposizione, e per effetto del decisum del Tribunale se l’avvenuta revoca giudiziaria determini un impedimento alla eleggibilità alla carica del rappresentante del condominio.
In primo luogo occorre osservare che il richiamato art.1129 c.c. prende in esame sia l’ipotesi di gravi irregolarità di cui al comma 11, sia quella della mancata o ritardata presentazione del rendiconto annuale. Al riguardo si segnala l’Ordinanza del Tribunale di Foggia del 4 novembre 2016 che ha disposto la revoca dell’amministrazione per omessa convocazione dell’assemblea per l’approvazione del rendiconto condominiale 1/1/15 – 31/12/15 nei termini previsti dalla legge.
Invero il consiglio dei condòmini stabiliva la data di convocazione invitando l’amministratore a mandare l’avviso di convocazione entro il 30/06/16. Il consiglio approvava il rendiconto fissando le date dell’assemblea per il 5 e il 6 settembre 2016. Pur se l’amministratore materialmente avvisava i condòmini il 28 giugno 2016, l’assemblea risultava convocata oltre il termine previsto di 180 gg (6 settembre 2016). Detta condotta dell’amministratore – secondo i giudici – integrava la fattispecie omissiva di cui al combinato disposto degli artt. 1129 e 1130 c.c. non potendosi ritenere giustificata tale ritardata convocazione ed essendo inoltre stata demandata la decisione sulla data di convocazione ad un soggetto differente da quello a ciò preposto dal codice.
L’interpretazione letterale del testo normativo lascia chiaramente intendere che non è consentita all’assemblea l’immediata rinomina ovvero l’immissione in carica dell’amministratore revocato. In effetti l’avverbio “nuovamente” va interpretato nel senso che non può l’assemblea, neppure a maggioranza, nominare nuovamente l’amministratore rimosso giudizialmente. Fatta questa precisazione, resta in piedi la questione se l’impossibilità di insediare nuovamente l’amministratore vale sine die o debba riferirsi soltanto all’esercizio condominiale successivo alla revoca. Chiarito che la norma codicistica impedisce al condominio di poter nominare e insediare l’amministratore nella carica dell’amministratore revocato, tuttavia una volta che il condominio abbia designato un altro amministratore è plausibile che le dimissioni o la scadenza del mandato dell’amministratore in carica, subentrato a quello precedente destituito, non consente più di applicare il divieto previsto dall’art.1129 ce. 9° comma che, secondo dottrina, può riferirsi solo all’immediata conferma dell’amministratore revocato.
Secondo la migliore interpretazione l’avverbio “nuovamente” non avrebbe il significato di impossibilità di nomina sine die, bensì deve intendersi temporaneamente circoscritto a una annualità di gestione, lasciando la possibilità alla maggioranza dei condòmini di nominare nuovamente l’amministratore in precedenza revocato e senza che ciò possa costituire un vulnus dei diritti di coloro che in precedenza hanno promosso l’azione giudiziaria volta alla rimozione dell’amministratore. Impedire per sempre, ovvero a tempo indeterminato, alla maggioranza dei condòmini di rinominare l’amministratore revocato dall’Autorità giudiziaria in anni condominiali passati, è una sanzione eccessiva, ingiustificata e irragionevole, che contrasta con i principi costituzionali di libertà di svolgimento della professione e di autonomia gestionale del condominio nei rapporti contrattuali.
Da quanto innanzi si può trarre la conclusione, interpretando la lettera del testo normativo, che l’effetto sanzionatorio può valere solo per l’immediata rinnovazione della nomina e non può trasformarsi in una sanzione a tempo indeterminato.
[A cura di: avv. Rodolfo Cusano]
La mediazione è uno strumento innovativo ed efficace per la gestione delle controversie in condominio. Grazie all’ausilio di un terzo neutrale – il mediatore-, le parti possono giungere ad una soluzione della lite accettabile e soddisfacente per entrambe.
I VANTAGGI DELLA MEDIAZIONE
Caratteristica dell’istituto è l’individuazione di soluzioni in grado di soddisfare i bisogni di tutte le parti della controversia, non solo di alcune; ciò consente di ripristinare e rafforzare le relazioni (commerciali, economiche…) intercorse tra i protagonisti della lite.
I tempi infiniti del nostro sistema giudiziario e, in particolare, del processo civile, lento e inefficiente, non in grado di dare risposte con la necessaria solerzia, rappresentano per le imprese un rilevante danno. Spesso, poi, i costi sono notevoli ed i risultati concreti, incerti. I vantaggi dell’istituto sono molteplici sia sotto il profilo dei tempi, sia sotto il profilo economico e fiscale, fino a giungere anche a una soluzione del contenzioso che dia una risposta celere, valida, efficiente, proficua, ed a “costo zero”.
MEDIAZIONE IN CONDOMINIO
In condominio, dove la salvaguardia dei rapporti tra amministratore (visto come condominio) e condòmini soffre di condizioni veramente avverse, la mediazione costituisce il primo interesse di una risoluzione delle controversie celere oltre che bonaria. In estrema sintesi, i principali benefici possono essere così riassunti:
LE MATERIE PREVISTE
In materia condominiale, il nuovo art. 71-quater disp. att. c.c. recita “Per controversie in materia di condominio, ai sensi dell’articolo 5, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28, si intendono quelle derivanti dalla violazione o dall’errata applicazione delle disposizioni del libro III, titolo VII, capo II, del codice e degli articoli da 61 a 72 delle presenti disposizioni per l’attuazione del codice. La domanda di mediazione deve essere presentata, a pena di inammissibilità, presso un organismo di mediazione ubicato nella circoscrizione del tribunale nella quale il condominio è situato. Al procedimento è legittimato a partecipare l’amministratore, previa delibera assembleare da assumere con la maggioranza di cui all’articolo 1136, secondo comma, del codice. Se i termini di comparizione davanti al mediatore non consentono di assumere la delibera di cui al terzo comma, il mediatore dispone, su istanza del condominio, idonea proroga della prima comparizione. La proposta di mediazione deve essere approvata dall’assemblea con la maggioranza di cui all’articolo 1136, secondo comma, del codice. Se non si raggiunge la predetta maggioranza, la proposta si deve intendere non accettata. Il mediatore fissa il termine per la proposta di conciliazione di cui all’articolo 11 del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28, tenendo conto della necessità per l’amministratore di munirsi della delibera assembleare”.
LA PROCEDURA DA SEGUIRE
Per cui l’amministratore che si vedrà notificato un tentativo di conciliazione dovrà indire un’apposita assemblea, che dovrà non solo autorizzare o meno l’amministratore a partecipare alla mediazione, ma indicare quali saranno i limiti per cui sarà autorizzato a trattare nonché dovrà dare mandato ad un avvocato, così come disposto dalle modifiche al D.L. 69/2013. Nel caso in cui non ci fossero i termini per la convocazione dell’assemblea per assumere la delibera di cui sopra, il mediatore dispone, su istanza dell’amministratore, idonea proroga della prima comparizione.
L’eventuale accordo raggiunto dovrà essere approvato in assemblea con le maggioranze di cui all’art. 1136 secondo comma, diversamente, se tale quorum non è raggiunto, per un qualsiasi motivo, la proposta si deve intendere come non accettata.
GLI ASPETTI CRITICI
Aspetti critici di questa procedura sono i tempi. Infatti, specialmente in materia di impugnativa di delibera assembleare, il termine dei trenta giorni previsto dall’art. 1137 c.c. a pena di decadenza 1, impone l’avvio della procedura di mediazione entro lo stesso termine dei trenta giorni. Salvo poi essere sospeso, per poi iniziare a decorrere nuovamente dalla chiusura della mediazione.
La prima questione che si pone riguarda il momento in cui il termine per l’impugnativa si sospende. Sul punto, l’art. 5 comma 6 stabilisce: “Dal momento della comunicazione alle altre parti, la domanda di mediazione produce sulla prescrizione gli effetti della domanda giudiziale. Dalla stessa data, la domanda di mediazione impedisce altresì la decadenza per una sola volta, ma se il tentativo fallisce la domanda giudiziale deve essere proposta entro il medesimo termine di decadenza, decorrente dal deposito del verbale di cui all’articolo 11 presso la segreteria dell’organismo”.
Detta norma va letta in uno a quella di cui all’art. 8 comma 1 del D. Lgs. n. 28/2010: “All’atto della presentazione della domanda di mediazione, il responsabile dell’organismo designa un mediatore e fissa il primo incontro tra le parti non oltre trenta giorni dal deposito della domanda. La domanda e la data del primo incontro sono comunicate all’altra parte con ogni mezzo idoneo ad assicurarne la ricezione, anche a cura della parte istante”.
In questi casi si può verificare che la domanda di mediazione sia depositata prima dei 30 giorni previsti per l’impugnativa ma che venga comunicata, a cura dell’ufficio di mediazione, alle altre parti, oltre detto termine. In tale evenienza la parte incolpevole si trova nell’impossibilità di impugnare poi la delibera in sede giudiziale per essersi verificata la decadenza che come abbiamo appena detto è sospesa solo quando viene effettuata la comunicazione alla controparte della domanda di mediazione. All’attualità è pacifico il ritenere non solo che in questi casi si verifichi la decadenza, ma che il termine vero di interruzione è quello in cui l’istanza di mediazione giunge a conoscenza della controparte. Quindi l’alea non è solo quella relativa ai tempi dell’ufficio di mediazione (dal deposito all’invio della domanda) ma anche quella relativa al mezzo usato per la comunicazione ad esempio raccomandata postale. Insomma, l’istanza a causa di un vero e proprio errore-carenza normativa subisce un danno quasi certo non fosse altro per l’incertezza del sistema così congegnato.
Non solo. A voler porre un rimedio a tutto ciò ci sarebbe da consigliare alla parte istante di inviare direttamente l’istanza di mediazione alla controparte oltre che di depositarla. In questo caso la prima alea dei tempi dell’ufficio verrebbe meno. Però tale rimedio comunque non risolverebbe il problema quando l’istanza di mediazione viene fatta partire l’ultimo giorno (dei 30) utile per l’impugnativa. Infatti, sia che venga depositata sia che venga inviata a mezzo posta è inverosimile che possa giungere a conoscenza della controparte nello stesso giorno. Sul punto non vi è molto da fare ci si auspica solo che il legislatore intervenga con ogni urgenza risolvendo il problema.
Pur trovandosi in una procedura diversa da quella giudiziale, perché non applicare anche ad essa il dettato della Corte Costituzionale in tema di termini per la notifica, distinguendo quelli a favore della parte istante e quelli a favore della parte convenuta? Solo così potrebbe veramente risolversi il problema. Ma appunto trattandosi non di procedura giudiziale il discorso di applicazione per analogia non può essere perseguito.
ANNOTAZIONI
Due precisazioni in calce. Innanzitutto le riflessioni di cui sopra fanno riferimento alle sole delibere annullabili e non a quelle nulle, che come tali possono essere impugnate in ogni tempo.
In secondo battuta, non mancano in diritto (Ruvolo) opinioni già espresse nell’immediatezza della riforma di ritenere in questi casi applicabile la giurisprudenza di legittimità di cui alla sentenza della Cass. n. 14087/2006, con la quale la Suprema Corte ebbe a stabilire che in ordine all’impugnativa di licenziamento tale atto non necessita di giungere a conoscenza dell’interessato ma il termine dei 60 giorni ivi previsto è considerato rispettato con il deposito dell’istanza obbligatoria di conciliazione.
[A cura di: Vito Rossi – FiscoOggi, Agenzia delle Entrate]
Novità per i contribuenti israeliani proprietari di immobili: dallo scorso primo gennaio, ogni contribuente che risulti proprietario di più di due case sul territorio nazionale è tenuto a pagare un’imposta su tutti i suoi appartamenti a partire dal terzo. La legge che istituisce la “tassa sul terzo appartamento”, come è già stata battezzata dai media del Paese, è stata approvata dalla Knesset, il Parlamento monocamerale di Israele, a fine 2016, dopo un lungo e acceso confronto. Saranno i cittadini a scegliere quale degli appartamenti tassare e quali due lasciare fuori dal perimetro del nuovo tributo. In altre parole, i proprietari di tre o più appartamenti saranno responsabili di imposta solo per ogni ulteriore appartamento di proprietà a partire dal terzo, in base alla percentuale di proprietà detenuta.
L’imposta, promossa dall’attuale ministro delle Finanze, Moshe Kachlon, fa parte del pacchetto di misure approvate con la legge di Bilancio 2017. Nelle intenzioni del ministro, la nuova tassa dovrebbe calmierare il mercato degli affitti del Paese e abbassare il costo delle case. Secondo la legge, l’aliquota dell’1 per cento al mese si applicherà sul valore stimato di ogni casa o appartamento di proprietà, a partire dalla terza, fino ad un limite massimo di 1.500 NIS (shekel israeliano) al mese (poco meno di 400 euro). Pertanto, i contribuenti potranno pagare al massimo 18.000 NIS all’anno per appartamento.
ESENZIONI
In base alla legge nessuna imposta sarà dovuta nel caso in cui due delle proprietà immobiliari del contribuente saranno valutate meno di 1,15 milioni di NIS (equivalenti a circa 300mila dollari). Poiché in molte città di Israele il valore medio delle case supera il milione e mezzo di NIS, si prevede che la maggior parte degli israeliani coinvolti dalla nuova imposta pagherà l’importo massimo previsto. Il bacino ipotizzato sarebbe quindi di 50mila contribuenti per un totale di 180mila case. Il valore dell’appartamento verrà determinato in base alle dimensioni per metro quadro ed a una serie di indicatori economici, sociali e relativi all’area geografica in cui si trova. Nel caso di appartamenti in comproprietà, l’imposta si applicherà quando un soggetto possiede quote superiori al 249% dei vari appartamenti residenziali considerati. Sono esclusi dall’applicazione della norma, tra gli altri, gli appartamenti posseduti dagli enti senza scopo di lucro, quelli affittati alle classi sociali protette dalle legge e quelli ottenuti in eredità.
DICHIARAZIONE
Per il primo anno di applicazione, entro il 31 marzo 2017 ogni contribuente dovrà presentare una dichiarazione all’Agenzia delle Entrate nazionale (la Israel Tax Authority), in cui vengono indicati i dati di dettaglio di tutti gli appartamenti residenziali detenuti. A partire dal periodo d’imposta successivo, invece, sarà l’Amministrazione finanziaria a inviare una comunicazione ai cittadini, specificando gli appartamenti per cui è dovuta l’imposta e l’importo da versare all’Erario. I contribuenti avranno 30 giorni di tempo dalla ricezione della lettera del Fisco per esprimere la scelta su quali appartamenti sottoporre a tassazione e quali no.
Il pagamento dell’imposta avverrà in due rate semestrali: una rata di acconto entro il 30 giugno e un versamento a saldo entro il 31 dicembre di ogni anno.
[A cura di: avv. Rosario Dolce – accademia Confamministrare]
L’articolo 2 bis, 1º comma, della Legge n. 241 del 1990 riconosce che anche il tempo è un “bene della vita” per il cittadino, sicché il ritardo nella conclusione di un qualunque procedimento è sempre un “costo”, dal momento che il fattore tempo costituisce un’essenziale variabile nella predisposizione e nell’attuazione di un qualsiasi piano o programma da parte del privato interessato alla conclusione del procedimento. Tale principio, secondo il Tar Abruzzo (sentenza 703/2016) è quanto mai attuale e risulta applicabile in quei casi in cui gli enti locali sono tenuti a dare delle risposte immediate ai cittadini, in tema di erogazione dei contributi per la ricostruzione degli immobili danneggiati dal sisma.
IL FATTO
A seguito del sisma del 06.04.2009 che ha interessato la città di L’Aquila, un condominio locale, in persona del suo amministratore, ha presentato avanti al comune locale domanda di contributo ai sensi dell’articolo 2 Ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri (d’ora in avanti O.P.C.M. n. 3790/2009), per la copertura degli oneri relativi alla riparazione, con miglioramento sismico, delle parti comuni danneggiate. L’ente locale ha liquidato il contributo in favore del condominio soltanto in data 23 ottobre 2012, quando il termine di conclusione del procedimento, fissato in 60 giorni dall’articolo 2 dell’O.P.C.M. n. 3790/2009 era già scaduto in data 28 agosto 2011.
Sulla scorta di tali premesse è stato istruito un procedimento giudiziale avanti al TAR locale che si è concluso con la condanna del Comune a risarcire il danno arrecato alla compagine; quantificato, nello specifico, nella differenza negativa tra quanto avrebbe ottenuto, in caso di risposta alla propria istanza nei termini scanditi dalla legge di riferimento (n. 60 gg), e quanto invece ha poi ottenuto a causa del predetto ritardo.
LA SENTENZA
L’articolo 2, comma 6, dell’O.P.C.M. n. 3790 del 9.7.2009 prevede espressamente che il Sindaco del Comune, entro sessanta giorni dalla presentazione della domanda, “autorizza anche dettando prescrizioni gli interventi di riparazione con miglioramento sismico, o ricostruzione, (…) e determina la spettanza del contributo indicandone l’ammontare in relazione alle spese giudicate ammissibili, dandone immediata comunicazione agli interessati”.
Secondo la consolidata giurisprudenza del TAR Abruzzo (cfr. fra le tante, nn. 532 del 2013 e 182 del 2013), l’inerzia nel provvedere, protratta dal Comune dell’Aquila oltre i 60 giorni previsti dall’art. 6 dell’OPCM 3790/09, integra la fattispecie del silenzio-rifiuto a carico di quell’Ente, senza che in contrario rilevi l’inefficienza istruttoria della cosiddetta filiera, costituita da enti strumentali necessari per gli accertamenti tecnici del caso (si pensi all’analisi preliminare che deve rendere il Genio Civile), di cui il Comune si avvale per l’istruttoria delle pratiche.
L’adozione tardiva del provvedimento è stata così valutata – dai predetti giudici amministrativi – come un illecito civile, per violazione colpevole del termine di conclusione del procedimento normativamente stabilito, in violazione dell’articolo 2 bis, comma 1, della Legge n. 241/1990. Quest’ultima norma, in particolare, conferma e rafforza la tutela del privato nei confronti dei ritardi dell’amministrazione, avendo stabilito che quest’ultima è tenuta al ristoro del danno ingiusto derivante dall’illecito permanente costituito dall’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento (cfr. TAR Abruzzo, L’Aquila, 21 novembre 2011, n. 548; Cons. Stato, sez. V, 28 febbraio 2011, n. 1271; 21 marzo 2011, n. 1739).
In conclusione, il pregiudizio patrimoniale subito da parte del condominio ricorrente è stato ritenuto sussistente e valutato, nello specifico, nella differenza tra la somma che avrebbe ottenuto il condominio, qualora l’amministrazione locale avesse adottato tempestivamente il provvedimento (€ 50.846,19), e la somma che poi gli è stata effettivamente liquidata a causa del ritardo posto in essere dalla Pubblica Amministrazione, pur in applicazione della normativa sopravvenuta.