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CHI EDIFICA UN ALLOGGIO SU UN’AREA DI SUA PROPRIETÀ: NON PERDE IL BONUS PRIMA CASA

Arriva un nuovo chiarimento da parte dell’Agenzia delle Entrate su un tema sempre di grande attualità fiscale: quello dei benefici “prima casa”. E, nella fattispecie, si tratta di una presa di posizione destinata ad avere positivi effetti sulla disciplina del regime fiscale di favore. 

A sottolinearlo, in un approfondimento pubblicato su FiscoOggi, rivista ufficiale dell’Agenzia delle Entrate, è l’esperto, Gennaro Napolitano, che rimarca come l’amministrazione, con la risoluzione n. 13/E del 26 gennaio 2017, abbia aggiornato un proprio precedente orientamento e amplia l’ambito delle ipotesi in cui non si decade dall’agevolazione.

Come noto, la disciplina relativa ai benefici “prima casa” (Nota II-bis, articolo 1, Tariffa parte I allegata al Dpr 131/1986) prevede, tra le cause di decadenza, il trasferimento dell’immobile comprato in regime agevolato prima che siano passati cinque anni dall’acquisto. Per evitare la decadenza (e, quindi, il pagamento delle imposte nella misura ordinaria, più una sanzione del 30%), il contribuente deve, entro un anno dalla cessione, acquistare un altro immobile da adibire a propria abitazione principale.

Con precedenti documenti di prassi, peraltro, l’Agenzia aveva chiarito che, in tal caso, l’agevolazione comunque si conserva se il contribuente, sempre entro un anno, compra un terreno su cui costruisce un immobile “non di lusso” utilizzabile come abitazione principale. Ciò anche se il fabbricato non sia stato ultimato, essendo sufficiente che si sia in presenza di un rustico comprensivo delle mura perimetrali e della copertura (cfr. risoluzione n. 44/E del 16 marzo 2004 e circolare n. 38/E del 12 agosto 2005, paragrafo 5.2).

Questa “apertura” dell’Agenzia delle Entrate è stata oggetto di un’ulteriore interpretazione estensiva da parte della Corte di cassazione. In diverse pronunce, infatti, i giudici di legittimità hanno ritenuto che, in caso di vendita infraquinquennale, per evitare la decadenza dai benefici è sufficiente che, entro un anno, il contribuente costruisca un nuovo immobile da adibire a propria abitazione principale, anche se il terreno su cui avviene l’edificazione fosse già di sua proprietà. Pertanto, secondo la Cassazione, ai fini del mantenimento dell’agevolazione, non assume alcuna rilevanza il momento in cui è stato acquistato il terreno su cui sorge il nuovo fabbricato (cfr. sentenze 27 novembre 2015, n. 24253; 12 marzo 2015, n. 8847; 1° luglio 2016, n. 13550; 16 settembre 2016, n. 18214).

Sulla base dell’orientamento della suprema Corte, quindi, l’Agenzia delle Entrate ha rivisto la propria precedente posizione e ha affermato che nell’ipotesi in cui, prima che siano decorsi cinque anni, venga venduto l’immobile acquistato con i benefici “prima casa”, non si decade dall’agevolazione se, entro un anno dalla cessione, su un terreno di cui si sia già proprietari, venga costruito un immobile a uso abitativo (di categoria catastale diversa da A1, A8 e A9), da adibire a propria abitazione principale, che il contribuente utilizzi come dimora abituale.

L’AMMINISTRATORE USCENTE E IL DIFFICILE RECUPERO DELLE SPESE ANTICIPATE

[A cura di: avv. Carlo Pikler – Ufficio Legale ROKLER Management & Consulting S.r.l.]

Il presente articolo si pone l’obbiettivo di esaminare i più recenti approdi giurisprudenziali in merito a un tema che, in ambito condominiale, risulta sempre più attuale. Ciò anche alla luce dei trascorsi anni di crisi economica, che hanno aggravato la generale posizione debitoria di tutte le compagini condominiali. Capita sovente allora che, in seguito al passaggio delle consegne tra un amministratore di condominio uscente e uno entrante, si instauri un contenzioso giudiziario azionato dal primo al fine del recupero di somme dichiaratamente anticipate – nell’arco della propria gestione – in favore del condominio in precedenza amministrato.

IL CREDITO

Secondo la ricostruzione giurisprudenziale dominante, il suddetto credito a titolo di somme anticipate nell’interesse del Condominio trae origine da un ufficio di diritto privato al quale sarebbe ricollegato un rapporto di “mandato” – assimilabile a quello con rappresentanza – che intercorre tra amministratore e condòmini (cfr., da ultimo, Trib. Torino Sez. I Civ., sentenza 29/01/2016 n. 544).

Troverebbe pertanto applicazione l’art. 1720 comma I c.c., in conformità del quale il mandante ha l’obbligo di rimborsare al mandatario le anticipazioni fatte nell’esecuzione dell’incarico. Obbligo che naturalmente perdura oltre la cessazione del medesimo incarico e che legittima l’inoltro della relativa richiesta di restituzione anche nei confronti del singolo condomino inadempiente (cfr. già Cass. n. 1286/1997).

Enucleati tali elementari principi alla base dell’azione in oggetto e considerato che essa, rientrando nell’ampia materia condominiale,  è soggetta al previo esperimento del procedimento di mediazione quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale (ex D.Lgs, n. 28/2010) deve ora dirsi che l’effettivo recupero delle somme così richieste appare in realtà tutt’altro che agevole. Ma questo non tanto dal punto di vista pratico, quanto piuttosto giuridico. Nel senso che l’amministratore, al fine di vedere accogliere giudizialmente le proprie istanze, è “costretto” ad assolvere un difficoltoso onere probatorio.

LE PROVE

Non avendo infatti l’amministratore un generale potere di spesa e fatti salvi i casi di urgenza ex artt. 1130, 1134, 1135 c.c.. – le cui anticipazioni devono in ogni caso essere successivamente ratificate dall’assemblea – qualunque somma anticipata abbisogna di formale “accettazione” della compagine condominiale. Quest’ultima è infatti deputata al formale controllo della gestione del proprio “mandatario”, altrimenti il corrispondente credito non sarebbe né liquido né esigibile (Cass. n. 14197/2011 e Cass. n. 1224/2012).

L’atto di accettazione per eccellenza – e dunque, si potrebbe dire, valevole come ricognizione del debito – è rappresentato dall’approvazione del rendiconto, nel quale confluiscono tutte le poste di spesa, anche quelle a titolo di anticipazioni. Eppure la giurisprudenza ha più volte affermato che tali poste devono essere dotate della necessaria specificità e chiarezza, altrimenti l’onere probatorio non sarebbe per nulla assolto (Cass. n. 10153/2011; Cass. 28/05/2012 n. 8498/2012; Cass. n. 15401/2014).

Peraltro nemmeno la sottoscrizione da parte del nuovo amministratore – all’atto della consegna della documentazione inerente la precedente amministrazione – del verbale di passaggio delle consegne ovvero l’apposizione sullo stesso di diciture del tipo “per accettazione” o “per ratifica” o, ancora, “per approvazione”, è sufficiente ad impegnare il condominio in merito al rimborso di somme anticipate dall’amministratore antecedente (cfr. ancora Cass. n. 8498/2012). E che un decreto ingiuntivo emesso in favore di costui su tale unica base probatoria, ben può essere oggetto di una vittoriosa opposizione da parte del Condominio ingiunto (Trib. Genova Sez. III, 08/02/2012).

CONCLUSIONI

Per concludere la disamina effettuata, allora, l’amministratore che intenda recuperare – con qualche concreta possibilità di successo – l’anticipazione da egli effettuata a titolo di spese di gestione o, comunque, di spese urgenti, dovrà:

1. confrontare il rendiconto bancario condominiale con quello da lui redatto onde accertare pagamenti non risultanti su conto corrente;

2. previa verifica dell’effettivo pagamento di tutte le partite del suo rendiconto, evidenziare la presenza di un saldo passivo del suo rendiconto e la corrispondente assenza di fondi sul conto corrente condominiale;

3. dimostrare l’anticipazione attraverso la produzione dei titoli di pagamento (ovvero bonifici provenienti da suo conto personale, assegni, o testimonianze dirette di versamenti in contanti a pagamento delle singole partite.

Nel condominio, infatti, deve rinvenirsi un rendiconto “reale” costituito dal rendiconto bancario e un rendiconto “virtuale” redatto dall’amministratore. Solo la redazione di quest’ultimo secondo un principio di cassa “puro”, difatti, potrà fondare una base contabile da confrontarsi con le risultanze bancarie. In mancanza di ciò e qualora venga redatto unicamente un rendiconto per “competenza”, dovranno dunque essere considerate solo le spese effettivamente sostenute nel periodo.

Attraverso il riscontro positivo tra il conto corrente e il rendiconto, e con l’esibizione dei titoli di pagamento, il giudice potrà quindi licenziare una consulenza tecnica d’ufficio di tipo “deducente” (che proceda al controllo delle allegazioni del procedente ed alla verifica dei conteggi). In caso contrario, infatti, come precisato dalla recente giurisprudenza di merito, una perizia che dovesse procedere alla revisione della contabilità onde rinvenire eventuali anticipazioni non sarebbe ammessa poiché meramente “esplorativa”, e pertanto in violazione del principio dispositivo del processo (ove spetta alla parte allegare e dimostrare puntualmente ogni richiesta). 

IMPOSTE SULLA CASA, CONFEDILIZIA: ATTENZIONE ALLA DATA DELLE DELIBERE DI IMU E (TASI)

[A cura di: Corrado Sforza Fogliani – pres. Centro studi Confedilizia]

Se la delibera sulle aliquote Imu (ma il discorso per la Tasi è similare) non viene adottata dal Comune entro il termine stabilito dalla legge (fissato al 31 dicembre dell’anno antecedente l’esercizio annuale interessato ma poi in genere prorogato, ogni anno, di qualche mese), le aliquote non sono valide ed il contribuente deve utilizzare quelle in vigore per l’anno precedente. 

Questo principio è stato ribadito dal Tar della Calabria, sezione prima, con la sentenza n. 1284 del 17.6.2016, con cui il giudice amministrativo ha accolto il ricorso presentato dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e, per l’effetto, ha annullato la deliberazione n. 34/2015 nella quale il Consiglio comunale di Taverna aveva determinato le aliquote dell’Imu per l’anno 2015. Nel caso esaminato, la delibera impugnata era stata adottata dal Consiglio comunale in data 3.8.2015. L’art. 1, comma 169, della legge 296/2006 impone invece agli enti locali di fissare le tariffe e le aliquote relative ai tributi di competenza degli stessi (tra i quali, anche l’Imu e la Tasi) entro la data fissata dalle norme statali per la deliberazione del bilancio di previsione, prevedendo, nel contempo, che in caso di mancata approvazione entro il termine indicato, le tariffe e le aliquote si intendono prorogate di anno in anno. 

Per l’anno 2015, il termine per la deliberazione del bilancio di previsione era stato fissato al 30.7.2015 dal decreto del Ministero dell’interno del 13.5.2015. Il termine anzidetto, ha evidenziato il Tribunale, aveva carattere perentorio (come si desume dalla previsione di cui al citato art. 1, comma 169, per la quale, in caso di mancata approvazione entro il termine per la deliberazione del bilancio di previsione, le tariffe e le aliquote si intendono prorogate di anno in anno). Ne conseguiva che la deliberazione consiliare impugnata, adottata successivamente alla data del 30.7.2015, era illegittima e come tale è stata annullata.

CRONACA FLASH DALLA CASA E DAL CONDOMINIO

Amministratore rapinato

delle quote dei condòmini

Un amministratore di condominio di 33 anni è stato rapinato da una banda di malviventi mentre si trovava fuori da un complesso residenziale di Palermo, intento a riscuotere le quote degli inquilini destinati al pagamento delle spese condominiali. I rapinatori sono entrati in azione a volto coperto e hanno puntato un’arma contro il 33enne per farsi consegnare il denaro, salvo poi contrariarsi per la cifra esigua del bottino. L’amministratore, infatti, era solito riscuotere il denaro dei suoi condòmini utilizzando un Pos portatile e, dunque, i contanti non superavano i 1000 euro. Il sospetto è che il gruppetto di ladri fosse, in qualche modo, a conoscenza degli avvisi affissi sulla bacheca del residence, che avvertivano del passaggio dell’amministratore per la riscossione.

Furto in condominio:

bottino di 80mila euro

Una coppia di anziani residenti a Pisa è stata derubata in pieno giorno da alcuni topi d’appartamento che si sono introdotti in casa, approfittando della loro assenza. I malviventi sono passati dalla porta finestra della cucina, sita al primo piano e, dopo aver messo a soqquadro l’abitazione, sono riusciti a trovare i gioielli e gli altri oggetti preziosi che i proprietari avevano nascosto in una scatola, nell’armadio, per un valore complessivo di circa 80mila euro. Beni che appartenevano alla famiglia da generazioni, dal grande valore affettivo, e che sono stati fatti sparire assieme alla serenità della coppia, terrorizzata per la scena che si è trovata davanti.

Accendono braciere in casa:

in tre muoiono per esalazioni 

Sono state trovate senza vita le tre persone che abitavano in una residenza bifamiliare di un comune della provincia di Vicenza. Si tratta di tre uomini di 29, 35 e 40 anni, tutti di nazionalità indiana. Secondo una prima ricostruzione, sarebbero morti nel sonno a causa delle esalazioni da monossido di carbonio scaturite da un braciere che avevano acceso la notte precedente per riscaldarsi. L’allarme è stato lanciato poco dopo le 7 del mattino dall’amico che risiede poco distante dal luogo della tragedia, che si era insospettito non vedendo una delle vittime uscire di casa per andare a lavorare, come invece era solito fare ogni mattina. Sul posto, oltre ai vigili del fuoco, sono arrivati gli operatori del 118 ma per i tre non c’era già più nulla da fare.

Muore carbonizzato

preparando la colazione

Aveva lasciato il fornello acceso per preparare la colazione, ma è stato avvolto dalle fiamme. È morto così, per un banale incidente domestico, l’anziano di 85 anni che viveva da solo in un quartiere della prima cintura di Torino. In pochi istanti le fiamme hanno raggiunto i suoi vestiti e hanno avuto il sopravvento sul pensionato, che nel tentativo di chiamare aiuto è inciampato rovinando a terra. A dare l’allarme è stata la badante che ogni mattina andava ad assisterlo. Quando i vigili del fuoco sono arrivati nell’appartamento, all’ultimo piano di una palazzina, non hanno potuto fare altro che constatare il decesso dell’uomo.

Fuga di gas, esplode casa

Salvi nonno e nipotino 

Tragedia sfiorata in una palazzina di un comune vicino Roma, dove un 60enne è riuscito a mettersi in salvo, assieme al nipotino di tre anni, dall’imminente scoppio di una bombola di gas. L’uomo stava sostituendo il serbatoio del gas che si trovava al piano terra dell’abitazione, quando per un probabile errore di collegamento, una fiammata partita dal fornello ha avvolto l’impianto. Resosi conto del pericolo, l’uomo ha preso in braccio il bimbo ed è corso fuori dalla casa, avendo la prontezza di aprire le finestre e di avvertire i vicini. Pochi istanti dopo, una potente deflagrazione ha quasi distrutto l’appartamento e danneggiato leggermente la casa dei vicini, che sono stati fatti evacuare per precauzione.

PARI DIRITTO DI TUTTI I CONDÒMINI DI FRUIRE DELLA COSA COMUNE

[A cura di: Fna – Confappi]

“Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa”. Sulla base di questo principio, contenuto nell’articolo 1102 del Codice Civile e che disciplina la cosa comune, la Corte di Cassazione ha intimato – con la sentenza n. 21538 del 25 ottobre 2016 – al proprietario di un appartamento sito all’ultimo piano di un palazzo di sostituire, a proprie spese, con una finestra, la porta che gli consentiva di accedere direttamente al terrazzo comune. Il pronunciamento conferma quanto già stabilito dalla Corte di Appello di Roma con la sentenza n. 1739/2011, secondo cui il proprietario dell’alloggio è tenuto a ripristinare, facendosi carico del costo, la situazione originaria del terrazzo, ossia procedere alla chiusura dell’apertura di collegamento fra l’appartamento e il lastrico solare condiviso.

La Cassazione precisa come la succitata porta consentiva – in concreto – un uso che non era un mero uso intensivo consentito. Di conseguenza, chi ha realizzato l’intervento è tenuto a ripristinare la situazione precedente. A proposito dell’uso intensivo della cosa comune, la Suprema Corte aveva già osservato come “ per stabilire se l’uso più intenso da parte di un condomino venga ad alterare il rapporto di equilibrio fra partecipanti al condominio – e perciò da ritenersi non consentito a norma dell’art. 1102 – non deve aversi riguardo all’uso fatto in concreto di detta cosa da altri condòmini in un determinato momento, ma di quello potenziale in relazione ai diritti di ciascuno”. (Cass. 23 marzo 1995, n. 3368). E ancora, l’intervento sarebbe da ritenersi illegittimo “(…) solo ove si accerti che l’incremento dell’uso del singolo partecipante pregiudichi la possibilità degli altri di continuare nell’esercizio del loro uso, e di ampliare eventualmente il medesimo in modo e misura analoghe”. (Cass. 11 luglio 1975, n. 2746).

LE SPESE CONDOMINIALI E LA SUCCESSIONE INTER VIVOS DEI CONDÒMINI

[A cura di: Avv. Gian Vincenzo Tortorici]

Il legislatore del 1942, nel promulgare il codice civile, ha sostanzialmente ripreso il R.D. 15 gennaio 1934, n. 56, omettendo peraltro la definizione di condominio e limitandosi ad elencare nell’art. 1117 cod. civ. le parti e i servizi che si devono presumere comuni, mentre la giurisprudenza lo ha definito, ante riforma 2012, un mero ente di gestione delle cose comuni, sprovvisto di personalità giuridica. La legge 11 dicembre 2012, n. 220 non ha risolto la questione ma, introducendo ex novo alcuni articoli o modificandone altri, inerenti al patrimonio del condominio, ha indotto la giurisprudenza a ritenerlo fornito di soggettività giuridica [Cass., Sezz. Unite, 18 settembre 2014, n. 19663].

LE SPESE

La gestione del condominio comporta l’obbligo, non soltanto di conciliare le diverse esigenze personali dei condòmini, ma anche di effettuare alcune spese al fine di garantire la costante funzionalità di alcuni servizi (ad esempio, il portierato) e la perenne conservazione delle parti e dei manufatti comuni dello stabile (per esempio, il lastrico solare comune o la centrale elettrica).

L’obbligatorietà del pagamento delle spese da parte dei condòmini deriva direttamente dalla circostanza dell’essere comproprietari dei beni comuni ex art. 1117 cod. civ., per i quali sono state effettuate le suddette spese e, quindi, non dal fatto di essere state approvate in assemblea, in quanto trattandosi di una obbligazione propter rem, tale obbligo insorge nel medesimo momento in cui sono attuate le varie attività inerenti alla complessiva gestione del condominio. Quanto sopra dedotto discende dal disposto del secondo e del terzo comma dell’art. 1118 cod. civ., che stabiliscono: 

* il condomino non può rinunziare al suo diritto sulle parti comuni; 

* il condomino non può sottrarsi all’obbligo di contribuire alle spese per la conservazione delle parti comuni, neanche modificando la destinazione d’uso della propria unità immobiliare, salvo quanto disposto da leggi speciali. 

Ne discende che la giurisprudenza ritiene che, nei confronti del condominio, l’obbligo del condomino di pagare i contributi per le spese di manutenzione delle parti comuni dell’edificio deriva non dall’approvazione della spesa e dalla ripartizione della stessa, atteso il carattere meramente dichiarativo di tali delibere, ma dalla circostanza per cui sia sorta la necessità della spesa ovvero l’attuazione concreta e reale di manutenzione e quindi per effetto dell’attività gestionale concretamente compiuta e non per effetto dell’autorizzazione accordata all’amministrazione per il compimento di una di queste attività di gestione. [Cass. civ., Sez. II, 9 settembre 2009, n. 23345].

Normalmente le spese vengono ripartite in base alle differenti carature millesimali (di proprietà, di ascensore, di riscaldamento, di gestione generale, etc.), ma le spese che ineriscono alla manutenzione straordinaria dello stabile, con i relativi beni accessori, e all’adeguamento degli impianti condominiali, alle nuove disposizioni legislative, sono sempre da ripartirsi tra i condòmini in forza della tabella millesimale di proprietà.

Tutte le spese che ineriscono al godimento delle parti e dei servizi comuni devono essere sempre corrisposte dai condòmini anche se un impianto, ad esempio quello centralizzato di riscaldamento, non funziona per omessa riparazione, salvo il diritto dei condòmini danneggiati a pretendere il risarcimento dei danni concretamente subiti [Cass., Sez. II, 4 luglio 2014, n. 15399].

ALIENAZIONE

La problematica sorge allorquando una unità immobiliare viene alienata.

La solidarietà passiva tra alienante ed acquirente di una unità immobiliare, ex art. 63 disp. att. cod. civ., comporta che l’acquirente deve pagare le spese non corrisposte dal suo dante causa esclusivamente per la gestione nel corso della quale avviene il trasferimento di proprietà e per la gestione immediatamente precedente, e ciò anche se nel riparto consuntivo si richiama un saldo relativo a più gestioni condominiali pregresse. 

La responsabilità solidale dell’acquirente per il pagamento dei contributi dovuti al condominio dal venditore è limitata, ut supra dedotto, alla gestione in corso e a quella immediatamente precedente all’acquisto, trovando applicazione l’art. 63, IV comma, disp. att. cod. civ., e non già l’art. 1104 cod.civ., atteso che, giusto il disposto di cui all’art. 1139 cod. civ., la disciplina dettata in tema di comunione si applica (anche) al condominio solamente in mancanza di norme che (come appunto il citato art. 63) specificamente lo regolano [Cass., Sez. II, 27 febbraio 2012, n. 2979; Cass., Sez. II, 18 agosto 2005, n. 16975]; in questa fattispecie l’acquirente è quindi solo garante delle obbligazioni sorte in capo all’alienante e non, in queste, subentrante.

Del resto il legislatore, con questa previsione legislativa, ha voluto consentire al condominio di avere sempre la disponibilità finanziaria necessaria a sopportare le spese indispensabili per la sua gestione, potendo trovarsi, viceversa, in difficoltà se dovesse aggredire il condomino alienante che potrebbe non possedere più alcun bene pignorabile.

Proprio in virtù di ciò l’art. 63, in esame, si applica anche nei confronti dell’aggiudicatario di un’unità immobiliare in conseguenza di una procedura esecutiva immobiliare; non si applica, quindi, l’art. 2919 cod. civ., considerato, da una parte, il testo letterale dell’articolo de quo, che si riferisce genericamente a colui che subentra nella proprietà e, dall’altra, il principio generale, desumibile dall’art. 1104 cod. civ., concernente l’insorgere dell’obligatio propter rem dall’essere divenuto comproprietario delle cose comuni.

EREDITÀ

Tale principio non si applica agli eredi del de cuius che subentrano, a titolo universale, in ogni diritto e in ogni onere del loro dante causa, per cui questi sono obbligati a corrispondere l’intero importo dovuto anche se antecedente l’anno precedente all’accettazione dell’eredità; per contro non vi è tenuto colui che subentri al de cuius a titolo particolare, quale è un legatario [Cass., Sez. II, 13 novembre 2009, n. 24133].

DELIBERAZIONI

Per le spese di gestione e di manutenzione ordinaria l’obbligo al pagamento sorge ex lege al loro compimento stante l’obbligo dell’amministratore di erogare le spese correnti ex art. 1130, n. 3, cod. civ. e, quindi, della gestione stessa dell’amministratore, indipendentemente che la spesa sia stata prevista nel rendiconto preventivo, la cui approvazione ha la sola finalità di convalidare la congruità delle spese che il condominio prevede di dover sostenere.

In sostanza la giurisprudenza sembra distinguere tra obbligazione, che nasce dalla comproprietà dei beni, e debito, determinato dal dovere di adempiere il quantum deliberato dall’assemblea.

Per contro, in caso di vendita di una unità immobiliare in condominio, nel quale siano stati deliberati lavori di straordinaria manutenzione, ristrutturazione o innovazioni sulle parti comuni, è tenuto a sopportarne i costi chi era proprietario dell’immobile al momento della delibera assembleare che abbia disposto l’esecuzione dei detti interventi, avendo tale delibera valore costitutivo della relativa obbligazione, indipendentemente alla circostanza che venditore e compratore si siano diversamente accordati in ordine alla ripartizione delle relative spese, con una clausola ad hoc nel contratto di compravendita. Di conseguenza, ove le spese in questione siano state deliberate antecedentemente alla stipulazione del contratto di vendita, ne risponde il venditore, a nulla rilevando che le opere siano state, in tutto o in parte, eseguite successivamente, e l’acquirente ha diritto di rivalersi, nei confronti del medesimo, di quanto pagato al condominio per tali spese, in forza del principio di solidarietà passiva di cui all’art. 63 disp. att. cod. civ. e nell’arco temporale di questo stabilito [Cass., Sez. II, 3 dicembre 2010, n. 24654].

E la giurisprudenza di merito si è adeguata al principio de quo [Trib. Salerno, Sez. II, 9 luglio 2014 e Trib. Roma, Sez. X, 12 gennaio 2016, in Leggi d’Italia].

LA NOMINA E LA REVOCA DELL’AMMINISTRATORE NEL PICCOLO CONDOMINIO

[A cura di: avv. Massimo Agerli]

Si segnala una controversa ordinanza (del 21.12.2016) depositata dal Tribunale di Torino in sede collegiale, all’esito di un contenzioso cautelare relativo ad un condominio di meno di otto condòmini. La questione era nata dalla richiesta, avanzata in via d’urgenza ex art. 700 c.p.c. da parte di un condomino avente la maggioranza millesimale, in un condominio composto di tre soli condòmini, di restituzione della documentazione condominiale da parte di un amministratore che si riteneva cessato dall’incarico, in quanto non confermato dall’assemblea dopo il decorso dei due anni di cui alla norma dell’art.1129 c.c.. Infatti, la situazione di stallo determinata dall’impossibilità di deliberare per mancanza delle maggioranze – millesimale da un lato e per teste dall’altro – rendeva impossibile trovare un accordo sulla nomina di un amministratore dopo una prima nomina avvenuta nel 2011 (da parte del Tribunale stesso, ai sensi dell’art. 1105 c.c.). 

Era stata posta la questione della inesistenza, per tali piccoli condomini, del regime della prorogatio in quanto si riteneva che, se il condominio non era obbligato alla nomina di nuovo amministratore, non si sarebbe potuto porre termine a detto protrarsi dei poteri se un nuovo amministratore, non voluto, non venisse mai nominato: se non è obbligatorio avere un amministratore non si vede perché un amministratore cessato dall’incarico dovrebbe per forza amministrare in prorogatio contro la volontà dei condòmini o quantomeno del condomino di maggioranza. 

IL GIUDICE MONOCRATICO

In un primo momento il Giudice Monocratico (ordinanza del 3.11.2016) aveva invece ritenuto sussistente il regime della prorogatio dell’amministratore cessato anche nel piccolo condominio per motivi di carattere pubblicistico, nel senso che vi fosse un interesse pubblicistico ad un rappresentante del condominio, mantenendo però il presupposto che l’amministratore fosse comunque cessato dall’incarico, in applicazione dell’art. 1129 c.c.. In conseguenza di tale impostazione il Giudice Monocratico aveva quindi respinto la richiesta di consegna della documentazione condominiale in quanto l’amministratore sarebbe stato tuttora in prorogatio.

IL RICORSO

A seguito di reclamo, il Tribunale in composizione collegiale ha però ribaltato la situazione. Il Collegio ha infatti sostenuto che la norma dell’art. 1129 c.c. in punto nomina e revoca dell’amministratore non si applicherebbe ai piccoli condomini; “L’art. 1129 c.c. disciplina la nomina, la revoca e gli obblighi dell’amministratore quando i condòmini sono più di otto. La ratio è proprio quella di semplificare la gestione condominiale nelle ipotesi di piccoli condomini. Ne consegue, pertanto, che la disciplina prevista per la nomina e revoca dell’amministratore quando i condòmini sono più di otto non possa trovare applicazione nell’ipotesi di piccolo condominio per il quale, ai sensi dell’art. 1139 c.c., si devono osservare le norme sulla comunione in generale”. 

Il Tribunale in composizione collegiale ha dunque ritenuto che, essendo stato l’amministratore nominato dal Tribunale, a seguito di ricorso di un condomino, non dovessero ad esso applicarsi le condizioni di cessazione stabilite dall’art. 1129 c.c. e che pertanto l’amministratore sia tuttora in carica, nel pieno delle sue funzioni, non essendo stato formalmente revocato (in realtà mai revocato perché ritenuto cessato dall’incarico e mai riconfermato).

UNA VALUTAZIONE

Contraddittorio è però l’assunto del Tribunale: infatti, a prescindere da come sia avvenuta la nomina (assembleare o giudiziale), esso è amministratore formalmente a tutti gli effetti e soggetto quindi a tutte le previsioni normative del codice condominiale. La questione si pone in termini nuovi rispetto a quanto si riteneva, ossia che essendo il piccolo condominio pur sempre un condominio, tutte le norme del capo II del titolo VII del codice civile si applicassero anche a tali situazioni; non solo, ma tale impostazione va ad interessare oggi un maggior numero di condomini, in considerazione della riforma dell’art. 1129 c.c. che porta al numero di otto condòmini l’esonero dall’obbligo della nomina di un amministratore.

Ulteriore perplessità nasce dal fatto che l’art. 1139 c.c. rinvia alle norme sulla comunione “per quanto non è espressamente previsto da questo capo. Deve ritenersi che il rinvio alle norme sulla comunione in generale sia da intendersi in senso restrittivo, mentre per quanto attiene alla nomina e revoca dell’amministratore la disciplina sia ampia e specifica e perciò prevalente rispetto alla previsione dell’art. 1139 c.c.; non solo, ma lo stesso art. 1129, c.6, c.c. precisa: “In mancanza dell’amministratore, sul luogo di accesso al condominio o di maggior uso comune, accessibili anche ai terzi, è affissa l’indicazione delle generalità ….della persona che svolge funzioni analoghe a quelle dell’amministratore, con ciò confermando l’applicazione delle norme in punto anche a colui che svolga di fatto dette funzioni.

Inoltre, la conclusione a cui è giunto il Tribunale in sede collegiale comporta, a cascata, inevitabili dubbi su quali norme siano applicabili all’amministratore nominato dal comunista: tutti gli obblighi stabiliti dalla stessa norma dell’art. 1129 c.c., le sue attribuzioni ex art. 1130 c.c., 1130 bis c.c., 1131 c.c. le condizioni di nomina di cui all’art. 71 bis delle disposizioni transitorie; non è infatti chiaro perché solo per la nomina e la revoca dell’amministratore non si dovrebbe applicare la norma dell’art. 1129 c.c., restando invece attuale tutto il resto della normativa.

Infatti, da un lato non si spiega perché ad un amministratore nominato dal Tribunale debba essere applicata una disciplina diversa, rispetto a quello nominato dall’assemblea, entrambi soggetti alle norme del codice del condominio; dall’altro lato il Tribunale, eludendo il problema prospettato circa la inesistenza della prorogatio imperii dell’amministratore cessato nel condominio non obbligato alla nomina di nuovo amministratore, con le conclusioni assunte ha implicitamente escluso la natura di condominio laddove i condòmini siano solo otto o in numero inferiore.

È evidente che la conclusione del Tribunale lascia spazio ad un contenzioso inevitabile, dal momento che a sensi dell’art. 1105 c.c. il comunista che ha la maggioranza delle quote può decidere la nomina e la revoca dell’amministratore senza alcuna possibilità di tutela della minoranza, quindi superando la decisione collegiale.

COME VIENE TASSATA L’ABITAZIONE DATA IN COMODATO AD UN FAMILIARE?

Un interrogativo piuttosto comune quello che ha posto una contribuente alla rubrica di consulenza di FiscoOggi, organo d’informazione ufficiale dell’Agenzia delle Entrate. Tema: l’imposizione fiscale sugli alloggi in comodato. Ecco la domanda: “Sono proprietaria di due case nello stesso comune; una è la mia abitazione principale, nell’altra abita mia zia (contratto di comodato). Ai fini Irpef come è tassata la seconda abitazione?”

Come spiega Gennaro Napolitano, l’esperto che cura la rubrica, “Sono produttivi di reddito fondiario i fabbricati situati nel territorio dello Stato che sono o devono essere iscritti, con attribuzione di rendita, nel catasto edilizio urbano (articolo 25 Tuir). Salvo i casi di esclusione previsti dalla legge, il reddito dei fabbricati deve essere esposto in dichiarazione dei redditi (quadro RB del modello Redditi PF e quadro B del 730) e deve essere calcolato per ciascun immobile, rapportandolo al periodo e alla percentuale di possesso. Gli immobili concessi in comodato non devono essere dichiarati dal comodatario, ma dal proprietario. I fabbricati diversi dall’abitazione principale pagano l’Imu, che sostituisce l’Irpef e le relative addizionali. Tuttavia, se gli immobili a uso abitativo non locati e assoggettati all’Imu sono situati nello stesso comune nel quale si trova l’immobile adibito ad abitazione principale, il relativo reddito concorre alla formazione della base imponibile Irpef e delle relative addizionali nella misura del 50% (articolo 9, comma 9, Dlgs 23/2011; circolare 11/E del 21 maggio 2014, paragrafo 1.2). Si ricorda che il reddito fondiario dei fabbricati (non locati) diversi dall’abitazione principale è costituito dalla rendita catastale rivalutata del 5% e che, nel caso in cui il proprietario abbia già un’abitazione principale, la maggiorazione di 1/3 non si applica quando l’immobile è concesso in uso gratuito a un familiare (coniuge, parenti entro il terzo grado e affini entro il secondo), che vi dimora abitualmente e vi ha l’iscrizione anagrafica”.

VENDITA INFRAQUINQUENNALE DELLA PRIMA CASA: LA PERDITA DEI BENEFICI FISCALI

La decadenza dei benefici fiscali con i quali si era acquistato l’alloggio principale. È un tema costantemente all’ordine del giorno quello oggetto del quesito sottoposto da un contribuente alla rubrica di posta fiscale curata su FiscoOggi – la rivista ufficiale dell’Agenzia delle Entrate – dall’esperto Gennaro Napolitano. Di seguito la domanda e l’interpretazione.

IL QUESITO

Sto per vendere l’appartamento che ho comprato due anni fa usufruendo dei benefici prima casa e non ho intenzione di riacquistarne un altro. Oltre alla differenza d’imposta, dovrò pagare anche una sanzione?

LA RISPOSTA

La vendita dell’immobile acquistato usufruendo delle agevolazioni “prima casa” prima del decorso di cinque anni dalla data dell’acquisto comporta la decadenza dal regime di favore fruito. Alla decadenza, consegue l’obbligo per il contribuente di pagare le imposte nella misura ordinaria nonché una sanzione pari al 30%. La perdita del beneficio non opera qualora il contribuente, entro un anno dall’alienazione, proceda all’acquisto (anche a titolo gratuito) di un altro immobile da adibire a propria abitazione principale (nota II-bis, articolo 1, Tariffa parte I, Dpr 131/1986). Tuttavia, laddove sia ancora pendente il termine di un anno previsto per il nuovo acquisto e il contribuente, anche per motivi personali, si trovi nella condizione di non voler ovvero di non poter procedere all’acquisto di un nuovo immobile, lo stesso può comunicare la propria intenzione all’amministrazione finanziaria. A tal fine, è necessario presentare un’apposita dichiarazione all’ufficio presso il quale è stato registrato l’atto di vendita dell’immobile acquistato con le agevolazioni. Con tale dichiarazione il contribuente manifesta espressamente la sua intenzione di non voler procedere all’acquisto di un nuovo immobile entro l’anno e richiede contestualmente la riliquidazione delle imposte dovute. Successivamente, l’ufficio procede alla notifica dell’avviso di liquidazione dell’imposta dovuta (data dalla differenza tra quanto già pagato in misura agevolata e l’ammontare delle imposte in misura ordinaria) e degli interessi (calcolati a decorrere dalla data di stipula dell’atto di compravendita dell’immobile oggetto di agevolazione), senza applicare la sanzione del 30% (risoluzione 112/E del 27 dicembre 2012). Al contrario, decorso il termine di un anno dall’alienazione senza che il contribuente abbia proceduto all’acquisto di un nuovo immobile ovvero abbia comunicato al competente ufficio dell’Agenzia delle Entrate l’intenzione di non voler più fruire del trattamento agevolativo, si verifica la decadenza dai benefici “prima casa”. In tale ipotesi, il contribuente potrà comunque accedere, ricorrendone i presupposti, all’istituto del ravvedimento operoso, presentando apposita istanza all’ufficio dell’Agenzia presso il quale è stato registrato l’atto, con la quale dichiarare l’intervenuta decadenza dall’agevolazione e richiedere la riliquidazione dell’imposta e l’applicazione delle sanzioni in misura ridotta (risoluzione 105/E del 31 ottobre 2011).

SUCCESSIONE E VOLTURE: LA NUOVA DICHIARAZIONE SOSTITUTIVA ON LINE

[A cura di: Daniela Buonocore – FiscoOggi, Agenzia delle Entrate]

L’Agenzia delle Entrate fornisce ulteriori chiarimenti sul nuovo metodo di presentazione delle dichiarazioni di successione e delle domande di volture catastali, e in un articolo pubblicato sull’organo di informazione ufficiale, FiscoOggi, a firma di Daniela Buonocore, dedica un focus al meccanismo delle integrazioni/modifiche e sostituzioni di dichiarazioni già inviate, per cui vale il principio “vecchio con vecchio” e “nuovo con nuovo”, sia con riguardo alla modulistica da utilizzare che alla metodologia da seguire.

DICHIARAZIONE SOSTITUTIVA DI UNA PRECEDENTEMENTE PRESENTATA

Se deve essere presentata una dichiarazione che modifica una precedentemente inviata con il nuovo modello, per la medesima successione, bisogna utilizzare sempre il nuovo modello e compilare la relativa casella “dichiarazione sostitutiva” presente sul frontespizio, riportando gli estremi di registrazione della prima dichiarazione di successione (anno, volume e numero). Qualunque modifica potrà essere operata con una sostituzione integrale della dichiarazione già inviata.

Diversamente, nel caso vi sia la necessità di presentare una dichiarazione integrativa, sostitutiva o modificativa di una dichiarazione presentata con il precedente modello 4 (cartaceo), occorrerà continuare a utilizzare tale modulistica, seguendo le relative modalità di presentazione. In questo caso, ad esempio, il modello 4 cartaceo dovrà essere presentato all’ufficio territoriale presso cui era stata presentata la dichiarazione che si intende modificare, integrare o sostituire.

La scelta del suddetto principio nasce dalle notevoli differenze espositive, nonché contenutistiche tra i due modelli dichiarativi; tali differenze, quindi, si riflettono anche sulla struttura delle relative banche dati che rimangono, pertanto, distinte. Si dovrà, quindi, presentare la “dichiarazione sostitutiva” anche per modificare o integrare la precedente dichiarazione nel caso in cui:

* occorre inserire nell’asse ereditario altri beni che non sono stati indicati nella dichiarazione principale;

* sopravviene un evento che dà luogo a mutamento della devoluzione dell’eredità o del legato ovvero ad applicazione delle imposte in misura superiore (tranne i casi in cui, successivamente alla presentazione della dichiarazione di successione, sopravviene l’erogazione di rimborsi fiscali, nonché nei casi previsti in materia di alienazione di beni culturali – articolo 13, comma 4, del Tus);

* si presenta la necessità di modificare i dati identificativi degli eredi, degli immobili, il loro valore e/o la misura delle quote.

Nel presentare la dichiarazione sostitutiva, occorre compilare anche i quadri non soggetti a modifica, in quanto la precedente dichiarazione viene integralmente sostituita. La dichiarazione sostitutiva può essere inviata telematicamente solo dal dichiarante che ha presentato la precedente dichiarazione che si intende sostituire. La modifica della dichiarazione precedentemente inviata è possibile oltre il termine di presentazione della dichiarazione, se l’ufficio non ha ancora notificato l’avviso di liquidazione e/o rettifica della maggiore imposta e, comunque, non oltre il termine previsto per la notificazione dell’avviso.

Sono state previste tre tipologie di dichiarazioni sostitutive:

* dichiarazione che, per effetto delle modifiche alla precedente, comporta una nuova trascrizione e voltura (ad esempio, variazione dei dati di uno o più beneficiari, dei dati catastali, del valore dell’immobile). Per tale dichiarazione occorre indicare il codice “1” nel relativo campo del frontespizio;

* dichiarazione che, per effetto delle modifiche alla precedente, non comporta una nuova trascrizione e voltura (ad esempio, se si devono apportare modifiche o integrazioni che non riguardano beni immobili, come nel caso dell’indicazione di conti correnti). Per tale dichiarazione occorre indicare il codice “2” nel relativo campo del frontespizio;

* dichiarazione con cui si vuole esclusivamente integrare o modificare gli allegati presentati con la precedente dichiarazione. In questo caso, bisogna presentare solo il frontespizio e il quadro tramite il quale allegare la documentazione integrativa o modificativa della precedente (quadro EG). Per tale dichiarazione occorre indicare il codice “3” nel relativo campo del frontespizio.

Quest’ultima tipologia rappresenta un importante elemento di novità nonché di semplificazione degli adempimenti tributari per il cittadino, unitamente alle disposizioni contenute nel decreto legislativo 175/2014, che permette l’allegazione alla dichiarazione di successione di copie non autentiche in luogo di quelle autentiche, limitatamente ai documenti previsti alle lettere c), d), g), h) e i), comma 1 dell’articolo 30 del Tus. Si ricorda, infatti, che la citata norma ha espressamente previsto, per le suddette casistiche, la possibilità di allegare alla dichiarazione di successione le copie non autentiche, purché accompagnate dalle relative dichiarazioni sostitutive di atto notorio attestanti che le stesse costituiscono copie degli originali, facendo comunque salva la facoltà dell’Agenzia delle Entrate di richiedere l’originale o la copia autentica, qualora lo ritenga necessario.

La dichiarazione sostitutiva contenente solo allegati, infatti, dà la possibilità al dichiarante di regolarizzare la dichiarazione precedentemente inviata, ripresentando autonomamente, senza doversi necessariamente recare all’ufficio territoriale competente, eventuali allegati che risultano non corretti o incompleti (allegato illeggibile, non coerente, eccetera); tale dichiarazione sostitutiva non dà luogo a nuova trascrizione e voltura. In questo modo, il cittadino verrà aiutato a regolarizzare la documentazione allegata alla dichiarazione con la compilazione del solo frontespizio, l’indicazione dei riferimenti della dichiarazione di successione oggetto di integrazione (anno, volume e numero) e l’allegazione dei file dei documenti da integrare, in luogo di una dichiarazione sostitutiva che necessita di tutti i quadri precedentemente compilati anche se non oggetto di modifica.

DICHIARAZIONI SUCCESSIVE ALLA PRIMA 

Se, successivamente all’invio della dichiarazione, un soggetto diverso dal dichiarante (ad esempio, uno degli altri coeredi/chiamati all’eredità) voglia, per la stessa successione, procedere in via autonoma all’invio di una propria dichiarazione, dovrà necessariamente recarsi all’ufficio territoriale competente, che ne curerà l’invio telematico. La dichiarazione di successione presentata e trasmessa dall’ufficio competente viene classificata come una “seconda prima dichiarazione” mantenendo, quindi, una valenza dichiarativa autonoma e distinta rispetto a quella già presentata da un altro coerede; pertanto, dovranno essere regolarmente pagate le imposte, tasse e tributi previsti come se fosse una “prima” dichiarazione.

Eccezione a tale regola è ammessa nel caso di una successione testamentaria in cui sono presenti dei legati. Infatti, al legatario viene data la facoltà di presentare “da casa” la dichiarazione di successione, senza quindi recarsi all’ufficio territoriale competente, indipendentemente dalle modalità con cui gli altri beneficiari dell’eredità decidano di adempiere all’obbligazione tributaria posta a loro carico.

La scelta di differenziare le modalità di presentazione della dichiarazione di successione, in funzione del soggetto dichiarante (dichiarante che ha inviato per primo la dichiarazione di successione oppure no), nasce dall’esigenza di gestire in maniera chiara e tracciabile alcune frequenti situazioni di contrasto (anche giudiziale) tra i diversi beneficiari dell’eredità e di garantire una maggiore “pulizia” delle informazioni contenute nella relativa banca dati, che verrà alimentata esclusivamente dalle dichiarazioni di successione presentate utilizzando il nuovo modello. Non bisogna dimenticare, infatti, che la dichiarazione di successione ha una valenza esclusivamente fiscale e non civilistica, pertanto eventuali “dispute ereditarie” non possono dare vita a controproducenti sovrapposizioni dichiarative che sino a oggi si sono susseguite in modo spesso “frenetico”.