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Vendere casa prima di cinque anni dall’acquisto

Si sente spesso dire che non si può vendere casa prima che siano trascorsi cinque anni dall’acquisto. Ma in realtà le cose non stanno in questo modo. Non si tratta infatti di un divieto, ma di una condizione per non perdere le agevolazioni fiscali delle quali si è eventualmente beneficiato in sede di stipula dell’atto di compravendita o donazione, il cosiddetto “bonus prima casa”. Pertanto, una volta decadute le agevolazioni, bisogna restituire al fisco tutte le imposte che non si erano versate prima, con le sanzioni.

Il cosiddetto “bonus prima casa” consiste in una agevolazione fiscale che spetta a chi compra o riceve in donazione un immobile. Comporta un netto taglio delle imposte che si dovrebbero altrimenti versare all’atto del rogito.

Si chiama “bonus prima casa” ma non è destinato necessariamente alla prima casa. L’importante è che il contribuente non possegga un altro immobile per il quale abbia già usufruito dell’agevolazione.
Per chi acquista da privato, il bonus prima casa consiste nelle seguenti agevolazioni:
– l’abbattimento dell’imposta di registro al 2% (anziché al 9%);
– il versamento dell’imposta ipotecaria e catastale in misura fissa, pari a 50 euro ciascuna (e non nelle misure rispettivamente del 2% e dell’1%).

Per chi acquista da una ditta, come un costruttore, le agevolazioni sono le seguenti:
– Iva al 4% (anziché al 10%);
– imposta ipotecaria e catastale pari a 200 euro ciascuna.

Per avere diritto al bonus prima casa è necessario:
– non essere proprietari (neanche per quote) di altra civile abitazione nel Comune ove si trova l’immobile che si acquista o si riceve in donazione. In caso contrario, esso va ceduto prima del nuovo rogito;
– non essere proprietari (neanche per quote) di un’altra abitazione, ovunque situata, per la quale sia stato in precedenza ottenuto il bonus prima casa. Diversamente è possibile cederla entro 1 anno dal nuovo rogito (si potrà così donarla o venderla);
– spostare la propria residenza entro 18 mesi dal rogito nel Comune ove si trova il nuovo immobile. Non è richiesto un trasferimento nella medesima via e numero civico ove si trova detta abitazione. Questo consente di comprare con il bonus prima casa anche un immobile da destinare a investimento. In alternativa, bisogna avere la sede di lavoro nel Comune medesimo;
– la casa che si acquista non deve essere di lusso, ossia accatastata nelle categorie A/1, A/8 o A/9.

Poiché scopo del bonus prima casa è quello di agevolare chi cerca un’abitazione ove vivere e non anche chi intende fare investimenti e guadagnare dalla rivendita, l’ultima condizione per avere il bonus è non rivendere casa prima di cinque anni. È un impegno che si assume al momento del rogito. Chi non lo rispetta sarà tenuto a versare le imposte che aveva risparmiato nel precedente atto di compravendita o donazione, maggiorate delle sanzioni pari al 30% e degli interessi maturati.
Pertanto:
– se è stata pagata l’imposta di registro al 2% invece del 9%, si dovrà versare la differenza;
– se è stato acquistato l’immobile da un’impresa con l’IVA agevolata al 4%, si dovrà restituire la differenza rispetto all’IVA ordinaria al 10% (o a 22% per immobili di lusso);
– se sono state pagate le imposte ipotecaria e catastale fisse (pari a 50 euro ciascuna per gli acquisti da privati o pari a 200 euro per quelli da ditta), si dovrà versare la differenza rispetto alle imposte ordinarie (che sono nella misura rispettivamente del 2% e dell’1%).

Come emerge dalla risposta ad interpello 441 /2022, l’Agenzia delle Entrate è ferma nel ritenere che la decadenza dal trattamento fiscale agevolato si verifica non solo in caso di cessione della piena proprietà, ma anche di costituzione dell’usufrutto. In tale circostanza si determina la decadenza dall’agevolazione fruita, limitatamente alla parte di prezzo corrispondente al diritto parziario. Ai fini fiscali, sul valore del diritto alienato va recuperata la differenza tra la tassazione agevolata e quella ordinaria, oltre alla sanzione e agli interessi.

Il divieto di rivendita vale anche quando questa riguarda solo una parte dell’immobile (ad esempio a seguito di frazionamento). In tale ipotesi il ricalcolo delle imposte avviene in modo proporzionato alla parte dell’abitazione ceduta.

L’ufficio delle imposte ha la possibilità di accertare se il contribuente ha rispettato le condizioni previste per ottenere l’agevolazione prima casa entro il termine di tre anni. Secondo la Cassazione (Sent. n. 20265/2018), tale termine decorre non dalla registrazione dell’acquisto dell’immobile, ma dallo scadere dell’anno successivo alla vendita.

Il contribuente che si accorge che non può o non vuole più rispettare l’impegno di non rivendere la casa prima di cinque anni, può evitare l’applicazione della sanzione del 30% comunicando tale intenzione all’Agenzia delle Entrate e dichiarandosi disponibile a pagare la differenza tra le imposte a suo tempo versate e quelle che avrebbe dovuto pagare in assenza delle agevolazioni sulla prima casa.

Tramite questa comunicazione, il contribuente evita di versare le sanzioni in misura piena ed ha la possibilità di usufruire del ravvedimento operoso. Si tratta della possibilità di sanare autonomamente la propria posizione, prima della notifica di azioni di accertamento da parte dell’Agenzia delle Entrate
Per non decadere dal bonus prima casa, e quindi non dover né restituire le imposte risparmiate, né versare la sanzione del 30% con gli interessi, bisogna riacquistare, entro un anno dalla vendita, un altro immobile da destinare ad abitazione principale.

Un altro caso in cui non si decade dal bonus prima casa è quando l’immobile viene trasferito alla moglie o ai figli a seguito di un accordo di separazione o divorzio consensuale (Cassazione 22023/2017 e 8104/2017, Ag. Entrate risoluzione 80/2019).

L’amministrazione dello stabile da Sas alla Srl

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Imposta di registro sotto la lente

Chiamata anche “tassa”, l’imposta di registro è un tributo che si versa per la registrazione degli atti. È infatti desinata a coprire i costi per la registrazione e per il tracciamento degli atti che hanno rilevanza pubblica.

Il tracciamento è necessario affinché l’atto, una volta registrato, non possa essere modificato, se non con la stessa procedura, sempre tracciata. Questo comporta, ad esempio, che è sempre possibile ricostruire la storia di un immobile e avere certezza sui proprietari e su eventuali diritti vantati da altri soggetti, come l’iscrizione di un’eventuale ipoteca.

L’imposta di registro è disciplinata dal Dpr 131 del 1986, e deve essere annoverata tra le imposte indirette.

L’imposta di registro può essere fissa o commisurata al valore dell’atto. Infatti per le diverse tipologie vi sono aliquote diverse.

Il campo di applicazione dell’imposta di registro è definito dall’articolo 2 del Dpr 131 del 1986, il stabilisce che si applica a:
– atti indicati nella tariffa, se formati per iscritto nel territorio dello Stato;
– ai contratti verbali indicati nell’articolo 3 comma 1 (li analizziamo a breve);
– operazioni delle società ed enti esteri indicate nell’art. 4;
– atti formati all’estero che comportano trasferimento della proprietà ovvero costituzione o trasferimento di altri diritti reali, anche di garanzia, su beni immobili o aziende esistenti nel territorio dello Stato e quelli che hanno per oggetto la locazione o l’affitto di tali beni.

L’articolo 3, comma 1, precisa che si applica l’imposta di registro ai contratti di locazione o di affitto di beni immobili esistenti nel territorio dello Stato, cessione risoluzioni e proroghe anche tacite degli stessi contratti.
Sempre in base all’articolo 3, l’imposta di registro si applica agli atti di trasferimento e di affitto di aziende esistenti nel territorio dello Stato e di costituzione o trasferimento di diritti reali di godimento sulle stesse e relative cessioni, risoluzioni e proroghe anche tacite.

L’articolo 4 disciplina, invece, l’imposta di registro da applicarsi agli atti societari, ad esempio l’atto di costituzione di una società, trasferimento, cessione di un ramo e in genere gli atti che nel tempo modificano gli atti societari.

Ci sono atti per i quali è prevista la registrazione obbligatoria, si tratta di:
– i contratti di locazione;
– il trasferimento di immobili tra privati;
– il trasferimento di immobili destinati a prima casa;
– il trasferimento di terreni, anche quelli non edificabili ad imprenditori agricoli;
– la cessione e la locazione di aziende;
– la locazione di beni mobili.

Competente alla registrazione degli atti è l’ufficio del registro nella cui circoscrizione risiede il pubblico ufficiale obbligato a richiedere la registrazione.

Per l’imposta di registro non si può parlare di un sistema di calcolo unico, in quanto vi sono diverse modalità e diverse aliquote a seconda della tipologia dell’atto. In linea di massima l’importo da versare dipende dal valore dell’atto.
Ad esempio, ’imposta di registro per l’acquisto della casa varia in base al valore dell’immobile, al prezzo concordato e al fatto che il contratto di compravendita riguardi la prima casa, abitazione principale, o un immobile ulteriore.

Per il contratto di locazione, invece la differenza della base imponibile è data dalla tipologia di contratto: libero o a canone concordato, ma anche la natura del bene dato in locazione.
In particolare, in caso di acquisto della prima casa, l’imposta di registro è fissata con aliquota al 2%, questa può essere applicata su due diverse basi imponibili (a scelta del soggetto passivo): sistema prezzo-valore o in base al prezzo di acquisto dell’immobile.
Se l’immobile è acquistato da una società e quindi è soggetto a Iva, è necessario versare l’Iva al 4% e l’imposta di registro in misura fissa in 200 euro.
Se l’immobile acquistato non è prima casa, l’imposta di registro prevede l’applicazione di un’aliquota al 9%.
Per il contratto di locazione l’imposta di registro prevede un’aliquota al 2% applicata al canone fissato dai contraenti, con un minimo di 67 euro. Se si preferisce il canone concordato la base imponibile è abbattuta del 30%.

Per quanto riguarda i termini di scadenza, anche in questo caso molto dipende dalla tipologia di atto da registrare. In generale il termine per la registrazione dell’atto e il versamento è di 20 giorni. Nel caso di contratti di locazione o altri atti inerenti beni immobili, il termine è di 30 giorni. Per gli atti formati all’estero il termine generalmente è di 60 giorni.

In molti casi l’imposta viene versata per conto del soggetto passivo dal sostituto di imposta, cioè il notaio o altro pubblico ufficiale.
Il pagamento dell’imposta di registro può avvenire utilizzando il modello F24, lo stesso può essere utilizzato anche per versare eventuali sanzioni in caso di ritardo.
Per i contratti di locazione ed altri atti relativi ad immobili è stata attivata una procedura di registrazione telematica, che sostituisce la presentazione diretta all’Ufficio.

Nella maggior parte dei casi omettere il versamento dell’imposta di registro è impossibile perché l’adempimento è delegato ai sostituti che lo esercitano contestualmente alla registrazione dell’atto. Se non registro l’atto di compravendita di un immobile, lo stesso non ha validità, se non verso l’imposta di registro, non posso registrare l’atto.
Sono però frequenti i controlli del Fisco nei casi in cui l’importo sia calcolato sul valore del contratto/atto.
In caso di omissione di registrazione degli atti e quindi mancato versamento dell’imposta di registro, la sanzione applicata è varia dal 120% al 240% dell’imposta dovuta.
Nel caso in cui la richiesta di registrazione sia effettuata con un ritardo non superiore a 30 giorni, la sanzione amministrativa varia dal 60% al 120% delle imposte dovute, ma l’importo minimo è di 200 euro.
In caso di insufficiente versamento, oltre ad essere tenuti a versare le somme originariamente dovute, si applica una sanzione amministrative del 30% del maggiore importo dovuto.
Infine, è possibile provvedere anche al ravvedimento operoso con riduzione delle sanzioni.

Rischi e sanzioni per l’ “affitto in nero”

affittasi

È un fenomeno molto più diffuso di quanto si pensi, quello dell’“affitto in nero”, ovvero della mancata registrazione del contratto d’affitto.

Ma è anche una pratica che può portare a pesanti sanzioni a carico sia del proprietario dell’immobile, sia del suo affittuario.

Si tratta infatti di evasione fiscale. Proprio per questo il legislatore punisce questo diffusissimo fenomeno con multe esemplari.

In caso di omessa registrazione del contratto d’affitto, e quindi suo mancato inserimento nella dichiarazione dei redditi del proprietario dell’immobile, si rischia infatti di dover corrispondere dal 120 al 240% dell’imposta originariamente dovuta. Si rischiano inoltre accertamenti fiscali fino ai cinque anni precedenti all’omessa regolarizzazione.

L’affitto in nero si concretizza quando il proprietario dell’immobile e il suo inquilino si accordano per evitare la sottoscrizione del contratto previsto per legge. Proprietario e affittuario ricorrono a questo stratagemma per ottenere vantaggi quali:
– un canone d’affitto più vantaggioso per l’inquilino, che corrisponderà l’importo pattuito in contanti al fine di evitare i metodi di pagamento tracciati;
– il proprietario può eludere la tassazione vigente sulla locazione poiché, non esistendo un regolare contratto d’affitto, l’accordo non viene reso noto al Fisco.

Affittare un immobile senza registrarne il regolare contratto d’affitto, è di fatto evasione fiscale. La disciplina sulla locazione è infatti fortemente regolamentata in Italia, in particolare dalla Legge 431/98, sottoposta a revisione nel 2005 proprio per introdurre pesanti sanzioni nel tentativo di limitare il fenomeno degli affitti in nero.

A essere esposto maggiormente è il proprietario dell’immobile, sul quale penderanno le multe più gravose. Il locatore colto in flagrante può infatti ricevere diverse sanzioni:
– una sanzione dal 120 al 240% dell’imposta di registro dovuta se il contratto d’affitto non viene registrato o se viene registrato dopo i 30 giorni previsti per legge;
– una sanzione dal 60 al 120% dell’imposta non versata, se il reddito da locazione non è stato specificato in sede di dichiarazione dei redditi;
– una sanzione tra il 90 e il 180% dell’imposta dovuta, quando viene dichiarato un importo inferiore a quello sul quale ci si è effettivamente accordati per l’affitto;
– la scoperta di un accordo in nero espone il proprietario non solo alle sanzioni per l’anno in corso, ma a controlli fiscali da parte dell’Agenzia delle Entrare fino ai 5 anni precedenti.

Il proprietario che si espone con un affitto in nero, inoltre, rinuncia a tutte quelle tutele garantite dal un regolare contratto d’affitto. Infatti, in caso di morosità dell’inquilino moroso, il proprietario dell’immobile non potrà avvalersi delle procedure di sfratto, poiché il contratto non esiste.

Le conseguenze di un affitto in nero ricadono anche sull’inquilino. Scoperto un affitto in nero, infatti, l’Agenzia delle Entrate potrebbe richiedere all’inquilino di corrispondere le imposte omesse e le relative sanzioni: per quanto riguarda l’imposta di registro, sono le medesime che vengono applicate al proprietario.

Oltre ai rischi legati agli oneri fiscali, l’inquilino privo di contratto è ovviamente anche privo di tutele. Ad esempio, il proprietario potrebbe intimare la liberazione dei locali senza preavviso e senza il rispetto di nessuna scadenza normalmente prevista per legge. Inoltre, l’assenza del contratto impedisce di accedere ai bonus oggi disponibili per calmierare i costi degli affitti. Anche l’inquilino, infine, come il proprietario, scoperto l’affitto in nero potrebbe essere il bersaglio di controlli fiscali fino ai 5 anni precedenti.

Per regolarizzare un affitto in nero è sufficiente la registrazione di un regolare contratto d’affitto.

La detrazione del 50% per la cucina a legna

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I rifiuti diminuiscono, ma la Tari aumenta

Diminuisce in Italia la produzione di rifiuti, ma aumenta la tassa. Secondo il più recente rapporto Ispra-Utilitalia, nel 2022 l’immondizia conferita dai cittadini è calata dell’1,8% rispetto all’anno prima, mentre la raccolta differenziata nazionale ha superato il 65%.

Contemporaneamente però, secondo uno studio Uil di oggi, la spesa media destinata alla tassa sui rifiuti (Tari) per le famiglie italiane ha subito un notevole incremento dal 2018 al 2023, pari al 9,69%. E solo per il 2023, l’aumento è stato dell’1,66% rispetto al 2022.

In particolare, tra il 2022 e il 2023, ben 51 città capoluogo di provincia su 109 hanno registrato una crescita della tassa. In termini assoluti, una famiglia di quattro persone residente in un’abitazione di 80 metri quadri e con reddito Isee pari a 25mila euro, ha pagato, in media, 331 euro per la tassa sui rifiuti nel 2023, rispetto ai 302 euro versati nel 2018.

Questo aumento è stato più evidente nelle regioni meridionali, dove la spesa media è salita a 395 euro, rispetto ai 363 euro del 2018. Nel Nord Est, invece, l’importo medio è passato da 248 euro nel 2018 a 272 euro nel 2023, sottolinea lo studio del Servizio Fisco e Previdenza della Uil, che ha analizzato le delibere di 109 capoluoghi di provincia.

Non è stato possibile includere le previsioni per il 2024, poiché molti Comuni non hanno ancora approvato le nuove tariffe o pubblicato i relativi provvedimenti.

Con i dati allo scorso anno Pisa detiene il primato del costo maggiore, con una media annuale di 545 euro per famiglia. Seguono Brindisi (518 euro), Genova (508), Latina e Napoli (495), Pistoia (492), Catania (475), Trapani (472), Messina (470) e Taranto (469). Invece a Belluno, nel 2023 le famiglie hanno pagato decisamente meno per la Tari, con una spesa media annua di 178 euro, confermandosi così come la città più virtuosa in assoluto. Seguono Novara con 183 euro, Pordenone con 186 e Brescia con 187. Anche Ascoli Piceno ha una spesa media di 187 euro, mentre Macerata e Trento si attestano entrambe a 189 euro, Fermo 191 euro, Mantova 192 euro e Vercelli chiude con 197 euro.

Fra le città metropolitane, a Genova ha la tassa rifiuti più alta con 508 euro all’anno a famiglia. Torino e Firenze sono a metà classifica rispettivamente con 335 e 334 euro. A Bologna la tassa rifiuti più bassa tra le città considerate, con 228 euro a famiglia.

Agevolazioni prima casa in caso di divorzio e separazione

violenza in casa

Comprare casa è il sogno di tutte le coppie che iniziano un’avventura di vita insieme. Capita però, con sempre maggiore frequenza, che le cose non vadano per il meglio e che occorra separarsi. In caso di divorzio, che fine fanno le eventuali agevolazioni prima casa per l’acquisto dell’immobile?

Per comprenderlo analizziamo insieme due diverse situazioni: un caso pratico che ha fatto scuola nella giurisprudenza tributaria recente ed un altro caso analizzato da un documento di prassi pubblicato dall’Agenzia delle Entrate.

Innanzitutto, è bene precisare che non decade dall’agevolazione prima casa il contribuente che, dopo aver acquistato l’immobile con l’agevolazione, lo vende ad un terzo prima del decorso del termine quinquennale in ragione degli accordi stipulati in sede di separazione consensuale o di divorzio. È questo l’importante principio di diritto confermato dalla Corte di Cassazione con l’Ordinanza numero 7966/2019.

Agevolazioni fiscali prima casa coppia sposata: cosa succede con il divorzio?
La Commissione Regionale accoglieva l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate avverso la sentenza di primo grado che aveva accolto il ricorso proposto da un contribuente avverso un avviso di liquidazione emesso per la revoca delle agevolazioni relative all’acquisto della prima casa.
Nel caso in esame il contribuente aveva ceduto l’immobile di proprietà prima dello scadere del quinquennio in ragione degli accordi stipulati in sede di separazione consensuale dal coniuge e, per questo, l’Ufficio ne revocava i benefici in termini di imposta di registro.
I giudici d’appello avevano accolto le motivazioni dell’amministrazione finanziaria evidenziando che il venir meno del beneficio non contrastava con le disposizioni con cui i coniugi erano pervenuti alla separazione.
Di diverso avviso i giudici della Corte di Cassazione, che hanno accolto il ricorso del contribuente chiudendo definitivamente il caso.
A parere dei giudici di legittimità è corretto il richiamo invocato dal contribuente all’esenzione prevista dall’articolo 19 della legge 74/1987 che esenta dall’imposta di bollo, di registro e da ogni altra tassa “tutti gli atti, i documenti ed i provvedimenti relativi al procedimento di scioglimento del matrimonio”.
Con specifico riferimento all’agevolazione “prima casa” i giudici di Piazza Cavour hanno richiamato il principio per cui “il trasferimento dell’immobile prima del decorso del termine di cinque anni dall’acquisto, se effettuato in favore del coniuge in virtù di una modifica delle condizioni di separazione, pur non essendo riconducibile alla forza maggiore, non comporta la decadenza dai benefici fiscali, attesa la ratio dell’art. 19 della I. n. 74 del 1987, che è quella di favorire la complessiva sistemazione dei rapporti patrimoniali tra i coniugi in occasione della crisi, escludendo che derivino ripercussioni fiscali sfavorevoli dagli accordi intervenuti in tale sede”.
Dunque, l’esenzione prevista dalla norma ha la ratio di agevolare la sistemazione dei rapporti patrimoniali in essere tra coniugi in occasione di una separazione o di un divorzio e tale principio si applica anche nell’ipotesi in cui il trasferimento dell’immobile acquistato con le agevolazioni prima casa sia effettuato a favore di un terzo diverso dal coniuge.
Così disponendo il Legislatore ha voluto tutelare gli atti stipulati in sede di separazione – o divorzio – risiedendo la causa di tali atti “nello spirito di sistemazione, in occasione dell’evento di separazione consensuale, dei rapporti patrimoniali dei coniugi sia pure maturati nel corso della convivenza matrimoniale”
In quest’ottica, la ripresa fiscale da parte dell’Ufficio erariale si tradurrebbe di fatto in una nuova imposta su un trasferimento immobiliare avvenuto in esecuzione dell’accordo tra coniugi, in palese contrasto con l’obiettivo della richiamata disposizione di esenzione.
Da qui il rigetto delle motivazioni dell’Ufficio che, con la revoca dell’agevolazione, ha considerato la cessione a terzi dell’immobile estranea alla negoziazione globale dei rapporti coniugali conseguenti alla separazione, in netto contrasto con il principio evocato dalla Corte di legittimità.

Bonus prima casa, separazione e nuovo acquisto: solo la vendita della quota salva le agevolazioni
Il tema è molto delicato ed in questa sede appare opportuno citare anche un documento di prassi molto interessante, ovvero la risposta all’interpello numero 634/2021 dell’Agenzia delle Entrate.
Nel documento viene spiegato cosa succede se uno dei due coniugi in comunione dei beni dopo la separazione acquista un secondo immobile applicando nuovamente le imposte in misura ridotta.
Sotto la lente di ingrandimento ci sono quindi il meccanismo agevolativo del bonus prima casa che permette l’applicazione dell’imposta di registro del 2 per cento, anziché del 9 per cento, sul valore catastale dell’immobile, e delle imposte ipotecaria e catastale nella misura fissa di 50 euro.
In seguito alla separazione consensuale tra i coniugi, è stato stabilito che la casa familiare possa essere usata dal marito fino al 2026.
A novembre 2020 la moglie ha acquistato una nuova abitazione, adibita a residenza propria e dei propri figli, chiedendo di poter beneficiare di nuovo delle agevolazioni e, come previsto in caso di secondo acquisto, si è impegnata ad alienare la propria quota della casa ex coniugale entro il termine di un anno previsto dal comma 4-bis, della Nota II-bis, all’articolo 1, del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131.
Tra il dire e il fare, però, c’è di mezzo il mare. Non sembra, infatti, possibile mantenere la parola data dal momento che l’ex marito non ha intenzione di acquistare la sua quota ed è improbabile immaginare una vendita a terzi di una sola parte dell’immobile.
Senza la vendita del primo immobile, però, si verifica una decadenza dai benefici con la conseguenza e la necessità di procedere con il pagamento delle imposte di registro, ipotecarie e catastali nella misura ordinaria sul secondo e della relativa sanzione.
La contribuente si rivolge all’Agenzia delle Entrate per verificare la possibilità di ricevere un particolare trattamento alla luce dei fatti: la conservazione del bonus prima casa o la non applicazione della sanzione con il pagamento della sola differenza tra misura ordinaria e misura agevolata delle imposte dovute per il secondo acquisto.
La contribuente ritiene infatti di avere la mera titolarità di una quota di un’abitazione che non può utilizzare. In altre parole, sostiene di avere un immobile non idoneo a soddisfare le esigenze abitative.
Ma per l’Agenzia delle Entrate, che si esprime sul punto con la risposta all’interpello numero 634 del 30 settembre 2021, non c’è ragione che tenga: o procede all’alienazione della sua quota o decade dall’agevolazione, non esiste una terza via.
“Considerata la titolarità in capo all’istante del diritto di proprietà di altra casa di abitazione, acquistata con le agevolazioni in esame, lo stesso dovrà procedere alla alienazione della quota in sua proprietà della casa pre-posseduta, al fine di non incorrere nella decadenza dall’agevolazione fruita per il secondo acquisto”.
La linea rigida adottata dall’Amministrazione finanziaria ha le sue basi nella normativa di riferimento, richiamata nel documento che chiarisce le regole per l’applicazione del bonus prima casa nelle ipotesi di separazione e acquisto di una nuova abitazione da parte di uno dei coniugi. A regolare l’accesso alle agevolazioni è la Nota II bis, posta in calce all’ articolo 1 della Tariffa, Parte I, allegata al d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131.
La possibilità di versare le imposte di registro, ipotecarie e catastali in misura ridotta è offerta in linea generale a chi dichiara di non essere titolare, neppure per quote, anche in regime di comunione legale su tutto il territorio nazionale dei diritti di proprietà, usufrutto, uso, abitazione e nuda proprietà su altra casa di abitazione acquistata dallo stesso soggetto o dal coniuge con le agevolazioni in questione.
Ma la norma prevede anche un’eccezione: chi ha già acquistato un’abitazione con il bonus prima casa, ha la possibilità di comprare un altro immobile alle stesse condizioni a patto che la casa già posseduta sia venduta entro un anno dal nuovo acquisto.
In ogni caso se non si rispetta questa regola nei tempi stabiliti, si decade dal beneficio fruito per il secondo acquisto e bisogna versare le imposte di registro, ipotecaria e catastale nella misura ordinaria, insieme a una sanzione pari al 30 per cento delle stesse imposte e gli interessi.
Come sottolinea l’Agenzia delle Entrate, anche nel caso analizzato è necessario procedere con l’alienazione della quota dell’immobile acquistato beneficiando delle agevolazioni.
“Tenuto conto che le disposizioni di cui alla citata Nota II-bis hanno natura agevolativa e, quindi, non sono suscettibili di interpretazione che ne estenda la portata applicativa ad ipotesi non espressamente contemplate, non si condivide la presunta inidoneità dell’immobile in oggetto pre-posseduto a soddisfare quelle esigenze abitative, quale elemento rilevante per impedire l’applicazione della citata disposizione di legge che prevede, tra l’altro, la decadenza dal beneficio fiscale in esame”. Non è previsto alcun trattamento particolare.

https://www.informazionefiscale.it/agevolazioni-prima-casa-divorzio-separazione

Superbonus, la plusvalenza non si tassa per la vendita di case ereditate

Nel 2022 ho ereditato da mia madre i due sesti di un immobile, dopo averne già ereditato un sesto da mio padre nel 2003. La parte restante è pervenuta a mio fratello con le stesse modalità. L’immobile è una seconda casa ed è locato a terzi. Ora entrambi vorremmo cedere le nostre quote a una società immobiliare. Vorrei sapere se la plusvalenza generata dalla cessione, che avviene prima dei 5 anni dall’acquisizione da parte nostra, è soggetta a tassazione? Visto che per adeguare l’immobile sono state utilizzate le agevolazioni previste dal Superbonus, tale plusvalenza è soggetta ad ulteriore tassazione?

L’acquisizione dell’unità abitativa per successione ereditaria costituisce una esimente prevista dall’articolo 67, comma 1, lettera b, del Tuir (Dpr 917/1986), in funzione della quale l’eventuale plusvalenza realizzata in seguito alla vendita non è soggetta a prelievo d’imposta, neppure nell’evenienza in cui la durata del possesso sia inferiore a cinque anni.

Bonus colf e badanti 2024: i requisiti per ottenere l’agevolazione

È fissato al 31 dicembre 2025, il termine ultimo per richiedere il bonus colf e badanti.

La misura varata può contare su un budget di 10 milioni di euro per il 2024 e di 39,9 milioni per il 2025.

Il bonus garantirà un sostegno concreto al settore domestico, prevedendo un’esenzione totale sia dai versamenti contributivi INPS, sia da quelli assicurativi INAIL, fino a un massimo di 3.000 euro annui per beneficiario.

Il bonus colf e badanti 2024 rappresenta dunque una significativa opportunità per i datori di lavoro domestico, offrendo un esonero completo dal versamento dei contributi previdenziali.

Questa misura, inserita nel contesto del decreto Pnrr dell’ultimo trimestre e attuata con il supporto del programma ‘Giovani, donne e lavoro 2021-2027‘, mira a facilitare l’assistenza domestica e a migliorare le condizioni lavorative nel settore.

I requisiti per accedere al bonus sono specifici e mirano a sostenere le fasce più vulnerabili della popolazione.

I beneficiari devono essere anziani di età superiore agli 80 anni con un ISEE non superiore a 6.000 euro all’anno.

Gli altri criteri includono:
– avere un’invalidità riconosciuta dall’INPS;
– essere percettori dell’indennità di accompagnamento;
– avere un contratto di lavoro domestico regolare con la colf o la badante.

L’agevolazione è quindi indirizzata a sostenere non solo gli anziani bisognosi ma anche a incentivare la regolarizzazione e la stabilizzazione del lavoro domestico, contribuendo positivamente all’economia e al benessere sociale.

Esenzione canone Rai

Il pagamento del canone Rai può essere evitato in alcune situazioni di cittadine e cittadini che possono beneficiare dell’esenzione.
Così come per gli anni passati, anche nel 2024 sono tenuti a pagare il canone Rai tutti coloro che possiedono in casa un televisore oppure un apparecchio che consente la ricezione dei canali televisivi.
L’importo della tassa annuale per l’abbonamento nel 2024 è di 70 euro, e anche per quest’anno sarà addebitato direttamente sulla bolletta dell’energia elettrica.
Non tutti però sono obbligati al pagamento e anche nel 2024 sono in vigore specifici esoneri, con scadenze diverse a seconda dei soggetti e della richiesta.

L’importo in bolletta scende a 70 euro
La Legge di Bilancio 2024 ha ridotto da 90 a 70 euro il costo annuale del canone. Questa riduzione rappresenta la prima fase della “riforma” del canone e delle regole di pagamento della tassa. L’Italia, infatti, su richiesta della Commissione Europea, è tenuta a revisionare le regole con l’obiettivo di rendere più trasparenti le bollette dell’energia elettrica.
L’Agenzia delle Entrate con la risoluzione n. 1/2024 ha fatto il punto delle novità introdotte e fornito le nuove tabelle per il pagamento a rate. Per le utenze già attive l’addebito avverrà in 10 rate da 7 euro ciascuna. Per le nuove utenze le rate sono differenziate sulla base della data di attivazione.

Gli obbligati e gli esonerati
Sono tenuti a pagamento della tassa del canone Rai tutte le persone che possiedono in casa una televisione oppure un apparecchio in grado di ricevere il segnale televisivo.
Non c’è alcuna differenza se il televisore viene effettivamente utilizzato o meno. Infatti l’azienda precisa: “Trattandosi di un’imposta sulla detenzione dell’apparecchio, il canone deve essere pagato indipendentemente dall’uso del televisore o dalla scelta delle emittenti televisive”.
Gli apparecchi per cui risulta obbligatorio il pagamento della tassa sono:
– Ricevitori TV fissi;
– Ricevitori TV portatili;
– Ricevitori TV per mezzi mobili;
– Ricevitori radio fissi;
– Ricevitori radio portatili;
– Ricevitori radio per mezzi mobili;
– Terminale d’utente per telefonia mobile dotato di ricevitore-radio/TV (esempio cellulare DVB-H);
– Riproduttore multimediale dotato di ricevitore radio/TV (per esempio, lettore mp3 con radio FM integrata)
– Videoregistratore dotato di sintonizzatore TV;
– Chiavetta USB dotata di sintonizzatore radio/TV;
– Scheda per computer dotata di sintonizzatore radio/TV;
– Decoder per la TV digitale terrestre;
– Ricevitore radio/TV satellitare;
– Riproduttore multimediale, dotato di ricevitore radio/TV, senza trasduttori (per esempio, Media Center dotato di sintonizzatore radio/TV).

Gli apparecchi esenti sono invece:
– PC senza sintonizzatore TV,
– monitor per computer,
– casse acustiche,
– videocitofoni.
Viene esentato dal pagamento chi dichiara di non avere alcun televisore in casa: non deve avere apparecchi in nessuna delle abitazioni ad uso domestico residenziale in cui è attiva un’utenza elettrica a suo nome.

Le altre categorie per cui si applica l’agevolazione sono:
– gli anziani con più di 75 anni con un reddito inferiore a 8.000 euro;
– i militari delle Forze Armate Italiane: ospedali militari, Case del soldato e Sale convegno dei militari delle Forze armate. Attenzione però: se un membro delle Forze Armate si trova in un appartamento privato situato all’interno di una struttura militare non è esonerato dal pagamento del canone;
– i militari di cittadinanza straniera appartenenti alle Forze Nato;
– gli agenti diplomatici e consolari: solo per quei Paesi per cui è previsto lo stesso trattamento per i diplomatici italiani;
– i rivenditori e negozi in cui vengono riparate TV.

Esenzione anziani over 75 anni
L’esenzione dal canone Rai 2024 per gli anziani si applica a tutti i contribuenti in possesso di specifici requisiti, senza novità rispetto agli anni passati:
– almeno 75 anni d’età;
– reddito non superiore a 8.000 euro.
Ai fini dell’esenzione dal canone Rai 2024, il limite di reddito va considerato calcolando sia le somme percepite dal soggetto richiedente sia dal coniuge.
Inoltre, questa si applica solamente nel caso in cui l’anziano non conviva con altri soggetti titolari di reddito proprio, oltre al coniuge. Sono esclusi dal requisito gli anziani che hanno assunto collaboratori domestici, colf o badanti.

Per poter beneficiare dell’esonero dal pagamento del canone Rai 2024 in bolletta, gli interessati devono presentare la domanda tenendo conto della data di compimento dei 75 anni. I richiedenti che intendono presentare la domanda per l’esonero annuale, infatti, devono aver compiuto i 75 anni d’età entro il 31 gennaio 2024.
Nel caso in cui il requisito d’età dovesse essere raggiunto entro il 31 luglio 2024, invece, l’esonero spetterà solo per il secondo semestre. Chi compie i 75 anni dopo questa data potrà richiedere l’esonero dal 2025.
Chi ha già inviato la domanda l’anno scorso non dovrà inviarla di nuovo.

Disdetta per chi non ha TV in casa
Chi non ha una televisione in casa e, quindi, non usufruisce del servizio può essere esonerato dal pagamento del canone Rai 2024.
Il possesso di una TV è assunto per tutti gli intestatari di utenza ad uso domestico residenziale, è però possibile presentare la richiesta per la disdetta.
Anche in questo caso sarà necessario presentare la domanda all’Agenzia delle Entrate.
Pertanto, possono disdire l’abbonamento alla televisione ed evitare di pagare il canone Rai tutti i contribuenti che non possiedono apparecchio televisivi in casa anche se sono intestatari di utenze di energia elettrica per uso domestico residenziale.
Chi ha intenzione di cancellare l’abbonamento alla televisione e smettere di pagare il canone Rai nel 2024 perché non ha una TV in casa, dovrà presentare l’apposito modulo di domanda entro specifiche scadenze.
Per beneficiare dell’esonero per tutto l’anno, la richiesta va presentata entro il 31 gennaio dell’anno di riferimento, quindi in questo caso del 2024.
Nel caso in cui si saltasse la scadenza, sarà comunque possibile usufruire dell’esonero, ma solamente per il secondo semestre dell’anno. In questo caso la domanda va inviata entro il 30 giugno 2024. La domanda inviata oltre tale data darà diritto all’esonero per il 2025.
La domanda di esonero dal pagamento in bolletta del canone Rai 2024 deve essere presentata direttamente dal soggetto a cui è intestata l’utenza elettrica.

Esenzione canone Rai 2024 e nuova utenza
Chi dovesse attivare una nuova utenza elettrica durante l’anno senza possedere anche un apparecchio per la ricezione del segnale televisivo potrà comunque presentare la domanda di esonero dal pagamento del canone Rai 2024.
Potrà farlo entro la fine del mese successivo a quello di attivazione della fornitura. Così facendo il canone Rai non sarà addebitato in bolletta.
In caso contrario sarà possibile presentare domanda di rimborso.

Esenzione per la seconda casa
Il canone Rai 2024 non deve essere pagato sulla seconda casa. Il pagamento, infatti, va effettuato una sola volta per ogni nucleo familiare in cui è presente una fornitura elettrica.
L’esonero dal versamento dei 70 euro di canone si applica, quindi, anche nel caso in cui nella stessa famiglia due soggetti fossero titolari di due bollette. Per disdire l’abbonamento, anche in questo caso, bisogna presentare il modello di domanda secondo le modalità ordinarie.
Per ulteriori dettagli, si consiglia di seguire le indicazioni dell’Agenzia delle Entrate.

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