Cucinare, pulire, fare la spesa, prendersi cura dei figli, degli anziani o di persone fragili: il lavoro domestico è una forza silenziosa che sostiene ogni giorno l’economia italiana. Eppure, chi lo svolge senza retribuzione continua a non godere di una tutela piena e strutturata. Il cosiddetto “bonus casalinghe”, spesso evocato nei titoli, non esiste come misura unica. Esistono invece strumenti frammentati che offrono un minimo di protezione a chi dedica la propria vita alla cura della casa e della famiglia.
Il principale è il Fondo di previdenza volontaria per casalinghe e casalinghi, istituito nel 1996 e gestito dall’INPS. Possono aderirvi le persone tra i 16 e i 65 anni che non hanno un lavoro retribuito né altre coperture previdenziali. Con versamenti annuali a partire da 309,84 euro, è possibile costruire una pensione di vecchiaia, accessibile già dai 57 anni se l’importo maturato supera una soglia minima, oppure dai 65 anni. Dopo almeno cinque anni di contributi, si può accedere anche alla pensione di inabilità. Tuttavia, non essendo previsto un trattamento minimo, l’importo può risultare molto basso se i versamenti sono sporadici.
Per chi non ha mai versato contributi, esiste l’assegno sociale, destinato agli over 67 in condizioni economiche svantaggiate. Nel 2025, l’assegno pieno spetta a chi non ha reddito personale e, se in coppia, a chi ha un reddito familiare inferiore a circa 7.000 euro annui. È una misura assistenziale, non legata al lavoro domestico, ma spesso rappresenta l’unico sostegno per chi ha dedicato la vita alla cura della casa.
Un’altra possibilità è l’Assegno di Inclusione, pensato per i nuclei familiari in difficoltà. Chi si occupa di minori, disabili o anziani può essere esonerato dagli obblighi di partecipazione ai percorsi di formazione o lavoro previsti dalla misura.
A livello locale, alcuni Comuni e Regioni offrono corsi di formazione e incentivi per il reinserimento lavorativo o l’avvio di attività autonome, rivolti a chi ha svolto per anni attività domestiche non retribuite.
Secondo l’Istat, oltre il 90% degli italiani tra i 20 e i 74 anni svolge quotidianamente attività domestiche o di cura non retribuite, per una media di oltre tre ore al giorno. Il valore economico stimato di questo lavoro supera i 700 miliardi di euro l’anno, pari a circa il 40% del PIL nazionale. Eppure, nonostante il suo impatto, il lavoro domestico resta privo di un riconoscimento normativo pieno.
La Corte Costituzionale, già nel 1995, lo aveva definito un’attività meritevole di tutela, richiamando l’articolo 35 della Costituzione. Ma a distanza di trent’anni, chi si dedica alla cura domestica può contare solo su un mosaico di misure, senza un vero “bonus” dedicato. Un vuoto che continua a pesare su milioni di persone, soprattutto donne, che ogni giorno sostengono il Paese senza tutele né retribuzione.
In tutte le stagioni, quando il tempo è bello, il desiderio di accendere il barbecue e cucinare sul balcone si fa sempre più forte. Ma attenzione: la normativa condominiale e il Codice Civile impongono regole ben precise per evitare disturbi ai vicini, controversie legali e, in alcuni casi, vere e proprie sanzioni.
Se da un lato il Codice Civile garantisce il diritto di ogni proprietario a utilizzare la propria abitazione, dall’altro esistono limiti normativi e regolamenti condominiali che possono vietare o limitare questa pratica. La Corte di Cassazione, inoltre, con diverse sentenze in materia, ha chiarito quando una grigliata in condominio può essere contestata e quando, invece, può essere autorizzata.
Ecco tutto quello che c’è da sapere prima di accendere il fuoco.
Le immissioni e il principio della normale tollerabilità
Il punto di riferimento principale è l’ articolo 844 del Codice Civile, che regola il tema delle immissioni tra proprietà confinanti: rumori, odori e fumi devono rispettare la normale tollerabilità, cioè non devono arrecare disturbo eccessivo ai vicini.
La valutazione di questa soglia dipende da diversi fattori:
• Per i rumori, si considerano i limiti di decibel stabiliti dalle normative nazionali e locali.
• Per fumi e odori, il giudice valuta caso per caso, tenendo conto di frequenza, intensità e distanza tra le abitazioni.
Se i fumi e gli odori della cottura diventano eccessivi, il vicino può chiedere la cessazione delle immissioni o, in casi estremi, richiedere un risarcimento danni.
Il vicino che si ritiene danneggiato dalle immissioni del barbecue, può agire in giudizio con due tipi di azioni:
• Azione inibitoria – per ottenere la cessazione delle immissioni.
• Azione risarcitoria – per ottenere un compenso per il disagio subito.
Sul punto, la Cassazione ha precisato che il giudice, nel valutare le immissioni, non è vincolato a una misura precisa: può decidere di ordinare la cessazione oppure di imporre accorgimenti idonei a ridurre il disagio (Cass. 26882/2019, 23245/2016, 7420/2000).
Il ruolo del regolamento condominiale
Anche se le immissioni di fumo sono entro la soglia di tollerabilità, esiste un altro ostacolo alla grigliata in condominio: il regolamento condominiale.
Il regolamento condominiale può infatti vietare esplicitamente la possibilità di cucinare sul balcone, anche se i fumi derivanti dalla cottura non superano la normale soglia di tollerabilità.
Se il divieto è stato approvato all’unanimità dai condòmini o inserito nel rogito notarile al momento dell’acquisto, allora è vincolante per tutti i residenti.
Se invece il regolamento è stato adottato a maggioranza, non può imporre restrizioni sulle unità immobiliari private, ma solo sulle parti comuni.
In alcuni casi, il regolamento può prevedere limitazioni specifiche, come:
• Divieto di barbecue e grigliate per evitare fumi e odori molesti.
• Orari prestabiliti per l’uso di attrezzature da cucina all’aperto.
• Obbligo di dispositivi di filtraggio per ridurre le immissioni.
Sentenze giuridiche
La Corte di Cassazione ha più volte affrontato il tema delle immissioni moleste in condominio. Alcune sentenze chiave includono:
• Cass. n. 26882/2019 – Il giudice può ordinare la cessazione delle immissioni se superano la normale tollerabilità, anche senza un divieto esplicito nel regolamento condominiale.
• Cass. n. 15246/2017 – Un barbecue in muratura con comignolo deve rispettare le distanze minime dai confini, poiché può essere considerato un forno ai sensi dell’articolo 890 del Codice civile.
• Cass. n. 23245/2016 – Se le immissioni causano disagi significativi, il vicino può chiedere un risarcimento danni.
Queste pronunce dimostrano che, anche in assenza di un divieto esplicito, cucinare sul balcone può diventare illegale se provoca disturbo eccessivo ai vicini.
Sicurezza e normative edilizie
Oltre alle questioni legali, cucinare sul balcone può comportare rischi di sicurezza. Le normative antincendio prevedono restrizioni per l’uso di fiamme libere in spazi aperti, soprattutto in edifici con strutture vicine.
Inoltre, molti condomini non dispongono di adeguate predisposizioni per l’uscita dei fumi, rendendo la cucina sul balcone impraticabile e potenzialmente pericolosa.
Installazione di barbecue e normativa edilizia
Per chi dispone di un giardino, l’opzione di un barbecue in muratura può essere interessante. In questo caso, la normativa stabilisce che l’installazione rientra nell’ edilizia libera e non necessita di autorizzazioni, come chiarito dal Glossario dell’Edilizia Libera allegato al decreto del Ministero delle Infrastrutture del 2 marzo 2018.
Conclusioni
Per evitare problemi legali, ecco tre verifiche fondamentali da fare prima di accendere il barbecue o cucinare sul balcone in condominio, per evitare liti con i vicini e rischi legali:
• Verificare se il regolamento condominiale vieta esplicitamente le grigliate sul balcone: nel caso, il divieto è vincolante.
• Evitare immissioni eccessive: se i vicini lamentano fumo intenso o odori persistenti, potrebbero agire legalmente.
• Se si installa un barbecue in muratura, verificare le distanze e le norme edilizie per evitare contestazioni.
Garantire una corretta ricezione del segnale televisivo è un diritto di tutti i residenti, anche in ambito condominiale. Per questo motivo, negli edifici collettivi possono essere predisposti impianti di antenna TV, sia centralizzati sia privati. La scelta tra le due soluzioni dipende da diversi fattori, tra cui la normativa vigente, il regolamento condominiale e le esigenze dei singoli proprietari.
Negli edifici di nuova costruzione, la legge impone l’installazione di impianti centralizzati per la ricezione televisiva e radiofonica. La normativa, introdotta con la Legge 249 del 1997 e successivamente aggiornata dalla Legge 66 del 2001, stabilisce che tali impianti debbano garantire un accesso uniforme ai segnali e ridurre la proliferazione di antenne individuali, anche per preservare il decoro architettonico. L’obbligo vale sin dalla fase progettuale e si estende anche agli impianti satellitari.
Diversa è la situazione per gli edifici più datati, costruiti prima dell’entrata in vigore della normativa. In questi casi, l’installazione di un impianto centralizzato può essere deliberata dall’assemblea condominiale, purché non vi siano vincoli nel regolamento. Se il regolamento è assembleare, può contenere indicazioni su tipologia, colore e posizione delle antenne. Se invece è contrattuale, le limitazioni possono essere più rigide, fino a vietare l’installazione su balconi o facciate. In assenza di divieti, l’assemblea può approvare l’installazione come innovazione, con la maggioranza dei presenti che rappresenti almeno due terzi dei millesimi. Se l’intervento comporta modifiche al regolamento contrattuale, sarà necessaria l’unanimità.
In caso di ristrutturazione generale dell’edificio, il condominio è tenuto ad adeguare l’impianto alle nuove esigenze tecnologiche, come previsto dal decreto ministeriale del 22 gennaio 2013. Se l’impianto centralizzato è assente, va predisposto; se esiste ma non è più adeguato, va aggiornato per ricevere i nuovi segnali digitali.
Accanto agli impianti comuni, ogni condomino ha diritto di installare un’antenna privata, ad esempio per migliorare la ricezione o accedere a contenuti satellitari. Il diritto d’antenna, regolato dal Decreto Legislativo 259 del 2003, è considerato espressione del diritto all’informazione. Tuttavia, l’installazione non deve compromettere la stabilità, la sicurezza o l’estetica dell’edificio. Se avviene sulle parti comuni, è necessario rispettare l’articolo 1102 del Codice Civile, che consente l’uso condiviso purché non si alteri la destinazione d’uso né si impedisca agli altri condomini di fare altrettanto. In caso di modifiche strutturali, l’assemblea deve approvare l’intervento con almeno un terzo dei millesimi.
Sempre più spesso, i condomini si chiedono se sia possibile staccarsi dall’impianto centralizzato, magari per adottare soluzioni alternative come la visione via Internet. In linea generale, il distacco è consentito, purché venga comunicato all’amministratore e sia tecnicamente possibile rimuovere ogni collegamento, comprese le prese domestiche. Se il distacco non compromette il funzionamento dell’impianto comune, il condomino non sarà tenuto a partecipare alle spese future, a condizione che non vi siano debiti pregressi. Se invece il distacco non è tecnicamente completo, il condomino potrebbe essere chiamato a contribuire comunque. Per evitare controversie, è consigliabile affidarsi a un tecnico certificato che possa attestare l’effettiva disconnessione.
La ripartizione delle spese dipende dalla natura dell’impianto. Se l’antenna è centralizzata, i costi di installazione, manutenzione e riparazione sono suddivisi tra tutti i condomini in base ai millesimi, come previsto dall’articolo 1123 del Codice Civile. Tuttavia, l’articolo 1121 stabilisce che, in caso di innovazioni gravose o suscettibili di uso separato, chi non intende usufruirne può essere esonerato, purché rinunci al collegamento. In futuro, potrà rientrare nel servizio versando la propria quota.
I costi variano in base alla complessità dell’impianto e al numero di unità servite. L’installazione può oscillare tra i 500 e i 2.000 euro complessivi, mentre la manutenzione annuale può costare tra i 50 e i 300 euro per ciascun condomino. Per le antenne private, invece, tutte le spese sono a carico del singolo proprietario. Va infine ricordato che, se il condomino è ancora collegato all’impianto centralizzato, anche se non lo utilizza, sarà comunque tenuto a contribuire alle spese comuni.
Lo smart working non è automaticamente sinonimo di sostenibilità ambientale. A dirlo è uno studio firmato dai ricercatori ENEA Roberta Roberto e Alessandro Zini, pubblicato dall’ISPI, che analizza l’impatto del lavoro da remoto su traffico, consumi energetici ed emissioni. Il verdetto? I benefici ci sono, ma non sono garantiti.
«Spostare il lavoro dall’ufficio a casa o in spazi condivisi modifica la domanda di mobilità, con effetti potenzialmente positivi su traffico e qualità dell’aria», spiegano gli autori. Tuttavia, avvertono, la riduzione di consumi ed emissioni non è automatica: entrano in gioco variabili come l’efficienza energetica degli edifici, le abitudini di consumo e persino la scelta del luogo in cui si vive. Chi si trasferisce in periferia, ad esempio, potrebbe finire per percorrere più chilometri, vanificando i vantaggi ambientali.
Lo studio evidenzia anche un altro paradosso: più tempo trascorso in casa per lavorare significa più energia consumata per riscaldamento, raffrescamento, illuminazione ed elettronica. E se gli uffici restano comunque operativi, il bilancio energetico rischia di peggiorare.
Un’indagine condotta da ENEA su circa 2.000 dipendenti pubblici in smart working in quattro città italiane (Roma, Bologna, Trento e Torino) ha stimato un risparmio medio di 600 kg di CO₂ e 8,6 GJ di carburante per lavoratore all’anno, con picchi significativi a Roma, dove i tragitti casa-lavoro sono più lunghi e l’uso dell’auto privata è prevalente. Ma anche qui, l’effetto rimbalzo non è da sottovalutare: in alcuni casi, il telelavoro ha generato un aumento della mobilità locale, ad esempio per commissioni o attività nel quartiere.
Perché lo smart working possa davvero diventare una leva di sostenibilità, servono politiche integrate. Lo studio ENEA propone tre azioni chiave: pianificare, connettere e coinvolgere.
– Pianificare significa ripensare le città in chiave compatta, contrastando la dispersione urbana e avvicinando abitazioni, uffici e servizi.
– Connettere vuol dire investire in trasporti pubblici e mobilità attiva, riducendo la dipendenza dall’auto privata.
– Coinvolgere implica promuovere comportamenti sostenibili attraverso campagne di sensibilizzazione e strumenti di partecipazione pubblica.
«Quantificare gli effetti netti del lavoro da remoto resta una sfida aperta», concludono i ricercatori. «Serve un approccio sistemico che vada oltre l’azienda e abbracci l’organizzazione delle città nel loro insieme».
Chi decide di installare un impianto di domotica può contare su una detrazione fiscale pari al 65% delle spese sostenute, a condizione che l’immobile sia detenuto o posseduto in base a un titolo idoneo. A chiarirlo è l’Agenzia delle Entrate, intervenuta in risposta a un quesito posto da una contribuente.
L’agevolazione, attiva per le spese effettuate a partire dal 1° gennaio 2016, riguarda l’acquisto, l’installazione e la messa in opera di dispositivi multimediali destinati al controllo da remoto degli impianti di riscaldamento, climatizzazione o produzione di acqua calda. Si tratta della cosiddetta “building automation”, una tecnologia pensata per migliorare l’efficienza energetica e aumentare la consapevolezza dei consumi da parte degli utenti.
Per accedere al beneficio, i dispositivi devono essere in grado di fornire dati periodici sui consumi energetici, mostrare le condizioni di funzionamento e la temperatura di regolazione degli impianti, e consentire la gestione da remoto, inclusa l’accensione, lo spegnimento e la programmazione settimanale. La detrazione copre non solo le apparecchiature elettriche, elettroniche e meccaniche, ma anche le opere murarie ed elettriche necessarie per l’installazione e la messa in funzione dell’impianto. Sono inoltre agevolabili le spese per le prestazioni professionali, come la produzione della documentazione tecnica e la direzione dei lavori.
Restano escluse dal beneficio le spese per l’acquisto di dispositivi di interfaccia, come smartphone, tablet o computer, utilizzati per interagire con gli impianti domotici.
Per quanto riguarda i limiti di detrazione, l’Agenzia delle Entrate precisa che per gli interventi avviati prima del 6 ottobre 2020 non è previsto un tetto massimo. In questi casi, le spese vanno indicate con il codice 7. Per i lavori iniziati a partire da quella data, invece, la detrazione è riconosciuta fino a un massimo di 15.000 euro per unità immobiliare, da segnalare con il codice 16.
Un ulteriore chiarimento riguarda la possibilità di cumulare la detrazione con altri interventi di riqualificazione energetica. Se l’installazione dei dispositivi multimediali avviene contestualmente, ad esempio, alla sostituzione di impianti di climatizzazione con caldaie a condensazione o pompe di calore ad alta efficienza, oppure all’installazione di pannelli solari, la spesa è considerata connessa e rientra nel limite massimo previsto per l’intervento principale. Inoltre, la detrazione è ammessa anche nel caso in cui l’impianto domotico venga installato successivamente o indipendentemente da altri lavori di riqualificazione.
È stato firmato il 16 settembre dal vicepresidente del Consiglio e ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Matteo Salvini, il decreto che approva lo stralcio 2025 del Piano Nazionale di Interventi Infrastrutturali e per la Sicurezza nel Settore Idrico (PNIISSI).
Il provvedimento stanzia 957 milioni di euro per 75 interventi distribuiti su 19 Regioni, con l’obiettivo di rafforzare la resilienza delle reti idriche ai cambiamenti climatici e ridurre le perdite di risorsa su scala nazionale.
Il Piano, operativo nel periodo 2025-2029, destina almeno il 40% delle risorse agli interventi nel Mezzogiorno, in linea con le politiche di riequilibrio territoriale. Alla sola fase di progettazione sono assegnati circa 36 milioni di euro. La selezione degli interventi ha privilegiato criteri di sostenibilità e ha dato priorità al completamento di opere già avviate. Il monitoraggio dell’attuazione sarà garantito attraverso la Banca Dati delle Amministrazioni Pubbliche, con l’obiettivo di assicurare il rispetto dei cronoprogrammi da parte dei soggetti attuatori.
Un piano strategico per l’acqua: visione integrata e investimenti mirati
Il PNIISSI rappresenta uno strumento di pianificazione strategica per il settore idrico, adottato a dicembre 2024 con una visione di medio-lungo termine. Il modello di analisi su cui si basa integra quattro dimensioni: economico-finanziaria, ambientale, sociale e istituzionale. Il piano complessivo include 418 interventi ammissibili per un valore di circa 12 miliardi di euro e 565 interventi già programmati, finanziati dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti per un totale di circa 5 miliardi.
Lo stralcio 2025 si inserisce in questo quadro come primo passo concreto verso il rafforzamento delle infrastrutture idriche nazionali. Gli interventi previsti spaziano dalla manutenzione delle reti esistenti alla realizzazione di nuovi impianti, con l’obiettivo di mitigare gli effetti della siccità e garantire una gestione più efficiente e sostenibile della risorsa idrica.
Sostenibilità e territorio: priorità al Sud e alle opere già avviate
Il Piano nazionale punta a ridurre le vulnerabilità del sistema idrico italiano, sempre più esposto agli effetti del cambiamento climatico. L’attenzione al Mezzogiorno, che riceverà almeno il 40% delle risorse, riflette la necessità di intervenire in aree storicamente più fragili dal punto di vista infrastrutturale. La scelta di privilegiare il completamento di opere già avviate risponde invece all’esigenza di accelerare l’efficacia degli investimenti e massimizzare l’impatto delle risorse pubbliche.
Con il via libera allo stralcio 2025, il PNIISSI entra nella sua fase operativa, segnando un passo decisivo verso una gestione più moderna, sicura e sostenibile dell’acqua in Italia. Un investimento che guarda al futuro, con l’ambizione di trasformare le reti idriche in infrastrutture resilienti e capaci di affrontare le sfide ambientali dei prossimi decenni.
Nel mondo delle compravendite immobiliari, il diritto di prelazione è uno strumento giuridico che può fare la differenza. Spesso citato in ambito di affitti, successioni o imprese familiari, è poco conosciuto nei suoi dettagli, ma può influenzare in modo significativo il destino di una trattativa. Ecco cosa prevede la legge italiana e in quali casi si applica.
Il diritto di prelazione immobiliare garantisce a determinati soggetti la possibilità di acquistare un immobile prima che venga ceduto a terzi. In pratica, chi ha diritto di prelazione deve essere informato della vendita e può esercitare la propria priorità accettando le stesse condizioni offerte da un potenziale acquirente esterno. Solo se il prelazionario rinuncia, il proprietario può procedere con la vendita a terzi.
Esistono due tipi di prelazione: quella legale, prevista direttamente dalla normativa, e quella volontaria, frutto di un accordo tra le parti. Nel primo caso, il prelazionario può addirittura riscattare l’immobile già venduto a terzi, mentre nel secondo ha diritto solo a un eventuale risarcimento se l’accordo non viene rispettato.
Uno dei casi più comuni riguarda gli inquilini. Se il proprietario decide di vendere l’immobile alla scadenza del primo contratto di locazione e non possiede altri immobili abitativi, deve offrire all’affittuario la possibilità di acquistarlo. L’inquilino ha 60 giorni per decidere e, se accetta, deve versare il prezzo entro i successivi 30. Il diritto decade se la casa viene ceduta a un familiare o se la vendita avviene dopo la prima scadenza del contratto.
Anche in ambito successorio la prelazione gioca un ruolo importante. Se uno dei coeredi vuole vendere la propria quota di un immobile ereditato, gli altri hanno diritto di precedenza. Questo vale solo per i beni in comproprietà e non per quelli di proprietà esclusiva.
La prelazione si applica anche nelle imprese familiari, dove i membri hanno priorità in caso di vendita o trasferimento dell’azienda. E nel settore agricolo, gli affittuari che coltivano un terreno da almeno due anni possono esercitare il diritto di prelazione se il fondo viene venduto o ceduto in enfiteusi. In questo caso, devono comunicare la volontà di acquistare entro 30 giorni e completare il pagamento entro 90.
Il meccanismo può sembrare complesso, ma è pensato per tutelare chi ha un legame diretto con l’immobile, sia esso abitativo, ereditario, commerciale o agricolo. Conoscere il diritto di prelazione è fondamentale per evitare sorprese e per affrontare una compravendita con maggiore consapevolezza.
Il mercato dei mutui in Piemonte si sta evolvendo, e lo fa in direzione di maggiore diversità e gioventù. Secondo l’analisi socio-demografica condotta da Kìron Partner SpA (Gruppo Tecnocasa), nel 2024 il 77,1% dei finanziamenti ipotecari è stato erogato a cittadini italiani, ma si registra una crescita significativa tra gli stranieri: il 13,4% dei mutuatari proviene da Paesi europei, mentre il 9,5% da aree extraeuropee, con una forte presenza di asiatici, latinoamericani e africani.
Le nazionalità più rappresentate tra gli acquirenti stranieri sono Romania, Albania e Moldavia, segno di una crescente integrazione nel tessuto socio-economico regionale. L’età media del mutuatario piemontese è di 40,1 anni, ma il dato più interessante riguarda la fascia più giovane: il 34,9% dei mutui è stato sottoscritto da persone tra i 18 e i 34 anni, seguite da quelle tra i 35 e i 44 anni (33,3%).
Sul fronte occupazionale, la stabilità economica resta il requisito fondamentale per accedere al credito. L’86,7% dei mutui è stato concesso a lavoratori dipendenti a tempo indeterminato e pensionati, mentre solo il 9,7% ha riguardato liberi professionisti, autonomi e titolari d’impresa. I lavoratori a tempo determinato rappresentano appena il 2,4% del totale.
La fotografia scattata da Kìron ed Epicas mostra un mercato in trasformazione, dove il mattone continua a rappresentare un obiettivo centrale per le famiglie, ma dove l’accesso al credito resta fortemente legato alla solidità reddituale e alla capacità di pianificare a lungo termine.
A Roma, come in molte altre città italiane, la raccolta differenziata è diventata un campo minato per la convivenza condominiale. Le multe per errori nella gestione dei rifiuti arrivano puntuali, anche a chi rispetta scrupolosamente le regole. Il problema? Basta un condòmino distratto per far scattare sanzioni che colpiscono tutti.
La normativa ambientale è chiara. L’articolo 183 del Codice dell’Ambiente definisce la raccolta differenziata come la separazione dei rifiuti per tipologia, finalizzata al corretto trattamento e riciclo. Ma quando si vive in condominio, la responsabilità non è sempre individuale. L’amministratore, in quanto rappresentante legale, ha il compito di gestire i contenitori, informare i residenti sulle modalità di conferimento e garantire il decoro degli spazi comuni. Tuttavia, non può controllare ogni sacchetto.
La questione si complica quando arrivano le sanzioni. La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 25905 del 2024, ha stabilito che in caso di violazioni non attribuibili a un singolo responsabile, l’intero condominio è chiamato a rispondere. È il principio della responsabilità solidale: se non si riesce a individuare chi ha sbagliato, pagano tutti. Le multe, secondo i regolamenti comunali, possono arrivare fino a 500 euro.
Una posizione che ribalta quanto affermato dalla stessa Corte nel 2023, quando aveva ritenuto illegittime le sanzioni collettive in assenza di una base normativa chiara. Ora, invece, il quadro giuridico è definito: gli articoli 192 del Codice Ambiente e 7 bis e 50 del Testo unico degli enti locali legittimano l’intervento dei Comuni.
Ma esiste una via d’uscita? In teoria sì, ma in pratica è complicato. L’amministratore può imputare la sanzione al singolo condomino solo se dispone di prove certe e inequivocabili, come immagini o testimonianze. Inoltre, il regolamento condominiale deve prevedere espressamente l’obbligo di rispettare le regole sulla differenziata e le relative sanzioni interne, che possono arrivare fino a 200 euro.
Per tutelarsi, i condomìni possono adottare alcune misure preventive. La prima è aggiornare il regolamento interno, introducendo norme chiare sulla gestione dei rifiuti e sanzioni per chi non le rispetta. La seconda, più delicata, è installare sistemi di videosorveglianza nelle aree di conferimento, nel rispetto delle normative sulla privacy. Solo così sarà possibile individuare con certezza i responsabili e evitare che le multe diventino un peso collettivo.
In attesa di una maggiore responsabilizzazione individuale, la raccolta differenziata resta una sfida di civiltà. E in condominio, come spesso accade, la convivenza si misura anche nel rispetto di un sacchetto ben chiuso.