Garantire una corretta ricezione del segnale televisivo è un diritto di tutti i residenti, anche in ambito condominiale. Per questo motivo, negli edifici collettivi possono essere predisposti impianti di antenna TV, sia centralizzati sia privati. La scelta tra le due soluzioni dipende da diversi fattori, tra cui la normativa vigente, il regolamento condominiale e le esigenze dei singoli proprietari.
Negli edifici di nuova costruzione, la legge impone l’installazione di impianti centralizzati per la ricezione televisiva e radiofonica. La normativa, introdotta con la Legge 249 del 1997 e successivamente aggiornata dalla Legge 66 del 2001, stabilisce che tali impianti debbano garantire un accesso uniforme ai segnali e ridurre la proliferazione di antenne individuali, anche per preservare il decoro architettonico. L’obbligo vale sin dalla fase progettuale e si estende anche agli impianti satellitari.
Diversa è la situazione per gli edifici più datati, costruiti prima dell’entrata in vigore della normativa. In questi casi, l’installazione di un impianto centralizzato può essere deliberata dall’assemblea condominiale, purché non vi siano vincoli nel regolamento. Se il regolamento è assembleare, può contenere indicazioni su tipologia, colore e posizione delle antenne. Se invece è contrattuale, le limitazioni possono essere più rigide, fino a vietare l’installazione su balconi o facciate. In assenza di divieti, l’assemblea può approvare l’installazione come innovazione, con la maggioranza dei presenti che rappresenti almeno due terzi dei millesimi. Se l’intervento comporta modifiche al regolamento contrattuale, sarà necessaria l’unanimità.
In caso di ristrutturazione generale dell’edificio, il condominio è tenuto ad adeguare l’impianto alle nuove esigenze tecnologiche, come previsto dal decreto ministeriale del 22 gennaio 2013. Se l’impianto centralizzato è assente, va predisposto; se esiste ma non è più adeguato, va aggiornato per ricevere i nuovi segnali digitali.
Accanto agli impianti comuni, ogni condomino ha diritto di installare un’antenna privata, ad esempio per migliorare la ricezione o accedere a contenuti satellitari. Il diritto d’antenna, regolato dal Decreto Legislativo 259 del 2003, è considerato espressione del diritto all’informazione. Tuttavia, l’installazione non deve compromettere la stabilità, la sicurezza o l’estetica dell’edificio. Se avviene sulle parti comuni, è necessario rispettare l’articolo 1102 del Codice Civile, che consente l’uso condiviso purché non si alteri la destinazione d’uso né si impedisca agli altri condomini di fare altrettanto. In caso di modifiche strutturali, l’assemblea deve approvare l’intervento con almeno un terzo dei millesimi.
Sempre più spesso, i condomini si chiedono se sia possibile staccarsi dall’impianto centralizzato, magari per adottare soluzioni alternative come la visione via Internet. In linea generale, il distacco è consentito, purché venga comunicato all’amministratore e sia tecnicamente possibile rimuovere ogni collegamento, comprese le prese domestiche. Se il distacco non compromette il funzionamento dell’impianto comune, il condomino non sarà tenuto a partecipare alle spese future, a condizione che non vi siano debiti pregressi. Se invece il distacco non è tecnicamente completo, il condomino potrebbe essere chiamato a contribuire comunque. Per evitare controversie, è consigliabile affidarsi a un tecnico certificato che possa attestare l’effettiva disconnessione.
La ripartizione delle spese dipende dalla natura dell’impianto. Se l’antenna è centralizzata, i costi di installazione, manutenzione e riparazione sono suddivisi tra tutti i condomini in base ai millesimi, come previsto dall’articolo 1123 del Codice Civile. Tuttavia, l’articolo 1121 stabilisce che, in caso di innovazioni gravose o suscettibili di uso separato, chi non intende usufruirne può essere esonerato, purché rinunci al collegamento. In futuro, potrà rientrare nel servizio versando la propria quota.
I costi variano in base alla complessità dell’impianto e al numero di unità servite. L’installazione può oscillare tra i 500 e i 2.000 euro complessivi, mentre la manutenzione annuale può costare tra i 50 e i 300 euro per ciascun condomino. Per le antenne private, invece, tutte le spese sono a carico del singolo proprietario. Va infine ricordato che, se il condomino è ancora collegato all’impianto centralizzato, anche se non lo utilizza, sarà comunque tenuto a contribuire alle spese comuni.
Lo smart working non è automaticamente sinonimo di sostenibilità ambientale. A dirlo è uno studio firmato dai ricercatori ENEA Roberta Roberto e Alessandro Zini, pubblicato dall’ISPI, che analizza l’impatto del lavoro da remoto su traffico, consumi energetici ed emissioni. Il verdetto? I benefici ci sono, ma non sono garantiti.
«Spostare il lavoro dall’ufficio a casa o in spazi condivisi modifica la domanda di mobilità, con effetti potenzialmente positivi su traffico e qualità dell’aria», spiegano gli autori. Tuttavia, avvertono, la riduzione di consumi ed emissioni non è automatica: entrano in gioco variabili come l’efficienza energetica degli edifici, le abitudini di consumo e persino la scelta del luogo in cui si vive. Chi si trasferisce in periferia, ad esempio, potrebbe finire per percorrere più chilometri, vanificando i vantaggi ambientali.
Lo studio evidenzia anche un altro paradosso: più tempo trascorso in casa per lavorare significa più energia consumata per riscaldamento, raffrescamento, illuminazione ed elettronica. E se gli uffici restano comunque operativi, il bilancio energetico rischia di peggiorare.
Un’indagine condotta da ENEA su circa 2.000 dipendenti pubblici in smart working in quattro città italiane (Roma, Bologna, Trento e Torino) ha stimato un risparmio medio di 600 kg di CO₂ e 8,6 GJ di carburante per lavoratore all’anno, con picchi significativi a Roma, dove i tragitti casa-lavoro sono più lunghi e l’uso dell’auto privata è prevalente. Ma anche qui, l’effetto rimbalzo non è da sottovalutare: in alcuni casi, il telelavoro ha generato un aumento della mobilità locale, ad esempio per commissioni o attività nel quartiere.
Perché lo smart working possa davvero diventare una leva di sostenibilità, servono politiche integrate. Lo studio ENEA propone tre azioni chiave: pianificare, connettere e coinvolgere.
– Pianificare significa ripensare le città in chiave compatta, contrastando la dispersione urbana e avvicinando abitazioni, uffici e servizi.
– Connettere vuol dire investire in trasporti pubblici e mobilità attiva, riducendo la dipendenza dall’auto privata.
– Coinvolgere implica promuovere comportamenti sostenibili attraverso campagne di sensibilizzazione e strumenti di partecipazione pubblica.
«Quantificare gli effetti netti del lavoro da remoto resta una sfida aperta», concludono i ricercatori. «Serve un approccio sistemico che vada oltre l’azienda e abbracci l’organizzazione delle città nel loro insieme».
Chi decide di installare un impianto di domotica può contare su una detrazione fiscale pari al 65% delle spese sostenute, a condizione che l’immobile sia detenuto o posseduto in base a un titolo idoneo. A chiarirlo è l’Agenzia delle Entrate, intervenuta in risposta a un quesito posto da una contribuente.
L’agevolazione, attiva per le spese effettuate a partire dal 1° gennaio 2016, riguarda l’acquisto, l’installazione e la messa in opera di dispositivi multimediali destinati al controllo da remoto degli impianti di riscaldamento, climatizzazione o produzione di acqua calda. Si tratta della cosiddetta “building automation”, una tecnologia pensata per migliorare l’efficienza energetica e aumentare la consapevolezza dei consumi da parte degli utenti.
Per accedere al beneficio, i dispositivi devono essere in grado di fornire dati periodici sui consumi energetici, mostrare le condizioni di funzionamento e la temperatura di regolazione degli impianti, e consentire la gestione da remoto, inclusa l’accensione, lo spegnimento e la programmazione settimanale. La detrazione copre non solo le apparecchiature elettriche, elettroniche e meccaniche, ma anche le opere murarie ed elettriche necessarie per l’installazione e la messa in funzione dell’impianto. Sono inoltre agevolabili le spese per le prestazioni professionali, come la produzione della documentazione tecnica e la direzione dei lavori.
Restano escluse dal beneficio le spese per l’acquisto di dispositivi di interfaccia, come smartphone, tablet o computer, utilizzati per interagire con gli impianti domotici.
Per quanto riguarda i limiti di detrazione, l’Agenzia delle Entrate precisa che per gli interventi avviati prima del 6 ottobre 2020 non è previsto un tetto massimo. In questi casi, le spese vanno indicate con il codice 7. Per i lavori iniziati a partire da quella data, invece, la detrazione è riconosciuta fino a un massimo di 15.000 euro per unità immobiliare, da segnalare con il codice 16.
Un ulteriore chiarimento riguarda la possibilità di cumulare la detrazione con altri interventi di riqualificazione energetica. Se l’installazione dei dispositivi multimediali avviene contestualmente, ad esempio, alla sostituzione di impianti di climatizzazione con caldaie a condensazione o pompe di calore ad alta efficienza, oppure all’installazione di pannelli solari, la spesa è considerata connessa e rientra nel limite massimo previsto per l’intervento principale. Inoltre, la detrazione è ammessa anche nel caso in cui l’impianto domotico venga installato successivamente o indipendentemente da altri lavori di riqualificazione.
È stato firmato il 16 settembre dal vicepresidente del Consiglio e ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Matteo Salvini, il decreto che approva lo stralcio 2025 del Piano Nazionale di Interventi Infrastrutturali e per la Sicurezza nel Settore Idrico (PNIISSI).
Il provvedimento stanzia 957 milioni di euro per 75 interventi distribuiti su 19 Regioni, con l’obiettivo di rafforzare la resilienza delle reti idriche ai cambiamenti climatici e ridurre le perdite di risorsa su scala nazionale.
Il Piano, operativo nel periodo 2025-2029, destina almeno il 40% delle risorse agli interventi nel Mezzogiorno, in linea con le politiche di riequilibrio territoriale. Alla sola fase di progettazione sono assegnati circa 36 milioni di euro. La selezione degli interventi ha privilegiato criteri di sostenibilità e ha dato priorità al completamento di opere già avviate. Il monitoraggio dell’attuazione sarà garantito attraverso la Banca Dati delle Amministrazioni Pubbliche, con l’obiettivo di assicurare il rispetto dei cronoprogrammi da parte dei soggetti attuatori.
Un piano strategico per l’acqua: visione integrata e investimenti mirati
Il PNIISSI rappresenta uno strumento di pianificazione strategica per il settore idrico, adottato a dicembre 2024 con una visione di medio-lungo termine. Il modello di analisi su cui si basa integra quattro dimensioni: economico-finanziaria, ambientale, sociale e istituzionale. Il piano complessivo include 418 interventi ammissibili per un valore di circa 12 miliardi di euro e 565 interventi già programmati, finanziati dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti per un totale di circa 5 miliardi.
Lo stralcio 2025 si inserisce in questo quadro come primo passo concreto verso il rafforzamento delle infrastrutture idriche nazionali. Gli interventi previsti spaziano dalla manutenzione delle reti esistenti alla realizzazione di nuovi impianti, con l’obiettivo di mitigare gli effetti della siccità e garantire una gestione più efficiente e sostenibile della risorsa idrica.
Sostenibilità e territorio: priorità al Sud e alle opere già avviate
Il Piano nazionale punta a ridurre le vulnerabilità del sistema idrico italiano, sempre più esposto agli effetti del cambiamento climatico. L’attenzione al Mezzogiorno, che riceverà almeno il 40% delle risorse, riflette la necessità di intervenire in aree storicamente più fragili dal punto di vista infrastrutturale. La scelta di privilegiare il completamento di opere già avviate risponde invece all’esigenza di accelerare l’efficacia degli investimenti e massimizzare l’impatto delle risorse pubbliche.
Con il via libera allo stralcio 2025, il PNIISSI entra nella sua fase operativa, segnando un passo decisivo verso una gestione più moderna, sicura e sostenibile dell’acqua in Italia. Un investimento che guarda al futuro, con l’ambizione di trasformare le reti idriche in infrastrutture resilienti e capaci di affrontare le sfide ambientali dei prossimi decenni.
Nel mondo delle compravendite immobiliari, il diritto di prelazione è uno strumento giuridico che può fare la differenza. Spesso citato in ambito di affitti, successioni o imprese familiari, è poco conosciuto nei suoi dettagli, ma può influenzare in modo significativo il destino di una trattativa. Ecco cosa prevede la legge italiana e in quali casi si applica.
Il diritto di prelazione immobiliare garantisce a determinati soggetti la possibilità di acquistare un immobile prima che venga ceduto a terzi. In pratica, chi ha diritto di prelazione deve essere informato della vendita e può esercitare la propria priorità accettando le stesse condizioni offerte da un potenziale acquirente esterno. Solo se il prelazionario rinuncia, il proprietario può procedere con la vendita a terzi.
Esistono due tipi di prelazione: quella legale, prevista direttamente dalla normativa, e quella volontaria, frutto di un accordo tra le parti. Nel primo caso, il prelazionario può addirittura riscattare l’immobile già venduto a terzi, mentre nel secondo ha diritto solo a un eventuale risarcimento se l’accordo non viene rispettato.
Uno dei casi più comuni riguarda gli inquilini. Se il proprietario decide di vendere l’immobile alla scadenza del primo contratto di locazione e non possiede altri immobili abitativi, deve offrire all’affittuario la possibilità di acquistarlo. L’inquilino ha 60 giorni per decidere e, se accetta, deve versare il prezzo entro i successivi 30. Il diritto decade se la casa viene ceduta a un familiare o se la vendita avviene dopo la prima scadenza del contratto.
Anche in ambito successorio la prelazione gioca un ruolo importante. Se uno dei coeredi vuole vendere la propria quota di un immobile ereditato, gli altri hanno diritto di precedenza. Questo vale solo per i beni in comproprietà e non per quelli di proprietà esclusiva.
La prelazione si applica anche nelle imprese familiari, dove i membri hanno priorità in caso di vendita o trasferimento dell’azienda. E nel settore agricolo, gli affittuari che coltivano un terreno da almeno due anni possono esercitare il diritto di prelazione se il fondo viene venduto o ceduto in enfiteusi. In questo caso, devono comunicare la volontà di acquistare entro 30 giorni e completare il pagamento entro 90.
Il meccanismo può sembrare complesso, ma è pensato per tutelare chi ha un legame diretto con l’immobile, sia esso abitativo, ereditario, commerciale o agricolo. Conoscere il diritto di prelazione è fondamentale per evitare sorprese e per affrontare una compravendita con maggiore consapevolezza.
Il mercato dei mutui in Piemonte si sta evolvendo, e lo fa in direzione di maggiore diversità e gioventù. Secondo l’analisi socio-demografica condotta da Kìron Partner SpA (Gruppo Tecnocasa), nel 2024 il 77,1% dei finanziamenti ipotecari è stato erogato a cittadini italiani, ma si registra una crescita significativa tra gli stranieri: il 13,4% dei mutuatari proviene da Paesi europei, mentre il 9,5% da aree extraeuropee, con una forte presenza di asiatici, latinoamericani e africani.
Le nazionalità più rappresentate tra gli acquirenti stranieri sono Romania, Albania e Moldavia, segno di una crescente integrazione nel tessuto socio-economico regionale. L’età media del mutuatario piemontese è di 40,1 anni, ma il dato più interessante riguarda la fascia più giovane: il 34,9% dei mutui è stato sottoscritto da persone tra i 18 e i 34 anni, seguite da quelle tra i 35 e i 44 anni (33,3%).
Sul fronte occupazionale, la stabilità economica resta il requisito fondamentale per accedere al credito. L’86,7% dei mutui è stato concesso a lavoratori dipendenti a tempo indeterminato e pensionati, mentre solo il 9,7% ha riguardato liberi professionisti, autonomi e titolari d’impresa. I lavoratori a tempo determinato rappresentano appena il 2,4% del totale.
La fotografia scattata da Kìron ed Epicas mostra un mercato in trasformazione, dove il mattone continua a rappresentare un obiettivo centrale per le famiglie, ma dove l’accesso al credito resta fortemente legato alla solidità reddituale e alla capacità di pianificare a lungo termine.
A Roma, come in molte altre città italiane, la raccolta differenziata è diventata un campo minato per la convivenza condominiale. Le multe per errori nella gestione dei rifiuti arrivano puntuali, anche a chi rispetta scrupolosamente le regole. Il problema? Basta un condòmino distratto per far scattare sanzioni che colpiscono tutti.
La normativa ambientale è chiara. L’articolo 183 del Codice dell’Ambiente definisce la raccolta differenziata come la separazione dei rifiuti per tipologia, finalizzata al corretto trattamento e riciclo. Ma quando si vive in condominio, la responsabilità non è sempre individuale. L’amministratore, in quanto rappresentante legale, ha il compito di gestire i contenitori, informare i residenti sulle modalità di conferimento e garantire il decoro degli spazi comuni. Tuttavia, non può controllare ogni sacchetto.
La questione si complica quando arrivano le sanzioni. La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 25905 del 2024, ha stabilito che in caso di violazioni non attribuibili a un singolo responsabile, l’intero condominio è chiamato a rispondere. È il principio della responsabilità solidale: se non si riesce a individuare chi ha sbagliato, pagano tutti. Le multe, secondo i regolamenti comunali, possono arrivare fino a 500 euro.
Una posizione che ribalta quanto affermato dalla stessa Corte nel 2023, quando aveva ritenuto illegittime le sanzioni collettive in assenza di una base normativa chiara. Ora, invece, il quadro giuridico è definito: gli articoli 192 del Codice Ambiente e 7 bis e 50 del Testo unico degli enti locali legittimano l’intervento dei Comuni.
Ma esiste una via d’uscita? In teoria sì, ma in pratica è complicato. L’amministratore può imputare la sanzione al singolo condomino solo se dispone di prove certe e inequivocabili, come immagini o testimonianze. Inoltre, il regolamento condominiale deve prevedere espressamente l’obbligo di rispettare le regole sulla differenziata e le relative sanzioni interne, che possono arrivare fino a 200 euro.
Per tutelarsi, i condomìni possono adottare alcune misure preventive. La prima è aggiornare il regolamento interno, introducendo norme chiare sulla gestione dei rifiuti e sanzioni per chi non le rispetta. La seconda, più delicata, è installare sistemi di videosorveglianza nelle aree di conferimento, nel rispetto delle normative sulla privacy. Solo così sarà possibile individuare con certezza i responsabili e evitare che le multe diventino un peso collettivo.
In attesa di una maggiore responsabilizzazione individuale, la raccolta differenziata resta una sfida di civiltà. E in condominio, come spesso accade, la convivenza si misura anche nel rispetto di un sacchetto ben chiuso.
Dal gennaio 2025, l’importo del canone Rai è tornato a 90 euro annui. Una tassa che devono pagare tutti coloro che possiedono una televisione o qualsiasi apparecchio in grado di ricevere il segnale televisivo. Tuttavia, esistono alcune esenzioni, tra cui quella riservata agli anziani con più di 75 anni d’età.
Questa agevolazione permette a migliaia di pensionati di non pagare il canone, offrendo un piccolo ma significativo sollievo sul bilancio familiare. Ma quali sono i requisiti richiesti per ottenere l’esenzione e quali passi bisogna seguire per inviare la domanda?
Chi può ottenere l’esenzione dal pagamento del canone Rai
Come accade ormai da diversi anni, anche nel 2025 gli anziani over 75 possono essere esonerati dal pagamento del canone Rai, a patto di rispettare alcune condizioni. Il beneficio è riservato a chi:
– Ha compiuto almeno 75 anni
– Ha un reddito annuo complessivo inferiore a 8mila euro, considerando non solo quello personale ma anche quello del coniuge
Oltre al requisito economico, è importante tenere presente che l’anziano non deve convivere con altre persone che abbiano un reddito proprio, fatta eccezione per il coniuge. Inoltre, l’esenzione non è concessa a chi ha assunto collaboratori domestici, colf o badanti, poiché la loro presenza implica condizioni economiche più stabili.
Quando presentare la domanda di esonero
Per ottenere l’esenzione del canone Rai 2025, è necessario presentare un’apposita domanda, tenendo conto della data di compimento del 75° anno di età.
– Chi ha compiuto 75 anni entro il 31 gennaio 2025 potrà beneficiare dell’esonero per tutto l’anno;
– Chi raggiunge il requisito anagrafico entro il 31 luglio 2025 avrà diritto all’esonero solo per il secondo semestre;
– Infine, chi compirà 75 anni dopo il 31 luglio, potrà chiedere l’esenzione a partire dall’anno successivo e dovrà inviare la domanda entro il 31 gennaio 2026.
È importante rispettare le scadenze, per evitare di dover pagare il canone e successivamente richiederne il rimborso.
Come inviare la richiesta di esenzione o rimborso
L’Agenzia delle Entrate ha stabilito diverse modalità per presentare la domanda:
– Invio postale, tramite plico raccomandato senza busta, da spedire all’indirizzo: Agenzia delle Entrate – Direzione Provinciale I di Torino – Ufficio Canone TV – Casella postale 22 – 10121 Torino. È necessario allegare una copia di un valido documento di riconoscimento.
– Trasmissione via PEC, firmando digitalmente la richiesta e inviandola all’indirizzo cp22.canonetv@postacertificata.rai.it.
– Consegna diretta presso un qualsiasi ufficio territoriale dell’Agenzia delle Entrate.
Per chi ha già inviato la domanda negli anni precedenti, non è necessario ripresentarla, a meno che non siano intervenute variazioni nei requisiti.
Tempi di elaborazione e interruzione dell’addebito in bolletta
Considerati i tempi tecnici necessari per la lavorazione delle dichiarazioni, il canone verrà rimosso dalla bolletta seguendo queste tempistiche:
– Domande inviate entro il 15 del mese: l’esonero sarà applicato a partire dal mese successivo.
– Domande inviate dopo il 15 del mese: la rimozione dell’addebito scatterà due mesi dopo l’invio della richiesta.
Per chi ha già effettuato il pagamento ma rientra nei criteri di esenzione, sarà possibile richiedere il rimborso, seguendo le stesse modalità di presentazione della domanda.
Nel 2025, il canone RAI è tornato all’importo di 90 euro, da versare direttamente nella bolletta elettrica, salvo il caso in cui il contribuente rientri in una delle categorie esonerate previste dalla normativa. Ma le persone con disabilità, beneficiarie della Legge 104, possono evitare il pagamento?
L’esenzione dal canone RAI: chi ne ha diritto
In Italia, il canone di abbonamento alla televisione pubblica è obbligatorio per chi possiede un televisore o un dispositivo capace di ricevere il segnale TV. Tuttavia, esistono alcuni casi specifici di esenzione, tra cui:
– Chi non possiede un televisore o apparecchi con funzione di ricezione del segnale TV.
– Gli anziani over 75 con un reddito annuo inferiore a 8.000 euro.
– I militari delle Forze Armate Italiane e quelli stranieri appartenenti alle Forze Nato.
– Agenti diplomatici e consolari, nel rispetto delle convenzioni internazionali.
Per quanto riguarda le persone con disabilità, la normativa non prevede un’esenzione automatica legata al riconoscimento della Legge 104.
Disabili e canone RAI: quando è possibile l’esonero
Se la Legge 104 garantisce una serie di agevolazioni fiscali, permessi e congedi per i lavoratori con disabilità e i loro familiari, non include il diritto all’esonero dal pagamento del canone RAI.
Gli unici casi in cui una persona disabile può non pagare il canone sono quelli in cui rientra nelle categorie già protette dalla normativa, ovvero:
– Non possiede un televisore in casa.
– Ha più di 75 anni e un reddito inferiore a 8.000 euro.
A queste condizioni si aggiunge un’ulteriore possibilità per le persone con disabilità ricoverate in case di riposo o strutture simili. In questi casi, il contribuente può presentare una dichiarazione attestando di non possedere alcun apparecchio TV, ottenendo così l’esenzione.
Come richiedere l’esenzione
Per non pagare il canone RAI, è necessario seguire la procedura prevista dalla legge, compilando l’apposito modulo di richiesta di esonero, da inviare all’ Agenzia delle Entrate.
La domanda deve contenere tutte le informazioni necessarie, inclusi i requisiti che danno diritto all’esenzione, e va presentata entro i termini stabiliti per evitare il pagamento automatico sulla bolletta elettrica.
La Legge 104 non esonera dal canone RAI
In definitiva, non esiste un’esenzione specifica dal canone RAI per i beneficiari della Legge 104. Solo chi rientra nelle categorie esonerate, indipendentemente dalla condizione di disabilità, può richiedere l’agevolazione.
Un tema che potrebbe suscitare nuove discussioni sulle agevolazioni fiscali per le persone con disabilità, ma che al momento non rientra nelle modifiche legislative previste per il 2025.