Nel cuore delle città contemporanee, dove il cemento domina e le temperature estive si fanno sempre più estreme, una soluzione naturale sta prendendo piede con forza: il tetto verde. Non si tratta di un semplice ornamento architettonico, ma di una strategia urbana capace di rispondere simultaneamente a esigenze ambientali, economiche e sociali. Rivestiti da strati di vegetazione — erbacee, graminacee, arbusti e talvolta anche alberi — i tetti verdi si distinguono dai tradizionali tetti in asfalto o tegole per la loro capacità di trasformare superfici passive in veri ecosistemi urbani.
Uno dei benefici più evidenti è la mitigazione delle cosiddette “isole di calore urbane”. Le superfici vegetate, infatti, possono abbassare la temperatura dell’aria circostante fino a 3 °C e quella della copertura dell’edificio fino a 25 °C rispetto ai tetti convenzionali. Questo effetto termoregolatore si traduce in un risparmio energetico significativo, con stime che arrivano fino al 60% in meno di consumo per il raffrescamento estivo. Un vantaggio che incide direttamente sull’efficienza energetica degli edifici e sulla riduzione delle emissioni.
Ma i tetti verdi non si limitano a raffreddare l’ambiente. Sono anche strumenti efficaci per la gestione sostenibile delle acque meteoriche. Possono assorbire fino al 50% delle precipitazioni, rilasciando l’acqua gradualmente sotto forma di vapore, riducendo così il rischio di allagamenti e alleggerendo il carico sulle reti fognarie. La vegetazione agisce inoltre come filtro naturale per polveri sottili e agenti inquinanti, contribuendo al miglioramento della qualità dell’aria. E non meno importante, offre rifugio a insetti, uccelli e piccoli animali, favorendo la biodiversità anche in contesti altamente urbanizzati.
In Europa, città come Basilea hanno fatto scuola: da oltre 15 anni, la capitale svizzera ha reso obbligatoria la presenza di spazi verdi sui nuovi edifici, trasformando oltre un milione di metri quadrati di tetti in giardini urbani. Anche in Italia il trend è in crescita. Secondo ANACI, le città italiane stanno adottando sempre più tetti verdi, con progetti attivi a Milano, Bologna, Torino, Bolzano e Verona, dove scuole e ospedali sono già dotati di coperture vegetate.
La normativa italiana riconosce il valore di queste soluzioni. La UNI 11235 stabilisce i requisiti tecnici per la realizzazione dei tetti verdi, dalla capacità drenante alla resistenza biologica, fino alla promozione della biodiversità. La progettazione segue una logica “dal basso verso l’alto”, con strati funzionali che includono impermeabilizzazione, protezione anti-radice, drenaggio, filtraggio e substrato colturale. Nei tetti estensivi, lo spessore è contenuto (meno di 15 cm), mentre quelli intensivi, più profondi, permettono la crescita di piante più grandi e offrono spazi ricreativi come orti, giardini pensili e aree relax.
Sempre più amministrazioni locali incentivano la diffusione dei tetti verdi attraverso strumenti urbanistici e agevolazioni fiscali. In alcuni Comuni, la loro realizzazione garantisce punteggi aggiuntivi nelle pratiche edilizie, sconti sugli oneri di urbanizzazione o incrementi di volumetria compensativa nei progetti di riqualificazione.
In definitiva, i tetti verdi rappresentano una risposta concreta e versatile alle sfide climatiche e sociali delle città di oggi. Contribuiscono a migliorare il microclima, ridurre le emissioni, aumentare la biodiversità e offrire nuovi spazi di vita. E mentre il mondo cerca soluzioni sostenibili per il futuro urbano, forse la più promettente è già sopra le nostre teste.
Quando in un condominio cambia amministratore, tutto dovrebbe avvenire in modo semplice e lineare: chi lascia consegna i documenti, chi subentra continua la gestione.
Nella realtà, però, non sempre accade così.
Può succedere che l’amministratore uscente trattenga, ritardi o ostacoli la consegna della documentazione condominiale, creando un’impasse gestionale che mette in difficoltà non solo il nuovo incaricato, ma anche l’intera comunità dei condòmini.
Senza i documenti, infatti, non è possibile sapere con precisione quali spese siano state sostenute, quali contratti siano in corso o quali situazioni pendenti debbano ancora essere risolte.
Ma cosa prevede la legge in questi casi?
L’articolo 1129, comma 8, del Codice Civile è chiarissimo: alla cessazione dell’incarico, l’amministratore deve consegnare tutta la documentazione in suo possesso riguardante il condominio e i singoli condòmini.
Non si tratta di una cortesia o di un gesto di collaborazione, ma di un obbligo giuridico vero e proprio.
Rientrano in questo obbligo atti, contratti, rendiconti consuntivi e preventivi, giustificativi delle spese, verbali, corrispondenza, archivi digitali e l’anagrafe condominiale prevista dall’articolo 1130 del Codice Civile.
E se l’amministratore non consegna?
La legge e la giurisprudenza non lasciano spazio ai dubbi.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 40134 del 15 dicembre 2021, ha affermato che l’amministratore cessato è tenuto alla consegna di tutta la documentazione, anche di quella nella disponibilità dei singoli proprietari, perché il dovere deriva dal principio di diligenza e collaborazione che ogni mandatario deve avere (art. 1710 c.c.).
Un’ulteriore ordinanza, la n. 18185 del 24 giugno 2021, ha precisato che questo obbligo esiste anche senza una richiesta formale: la consegna è automatica, poiché la documentazione appartiene al condominio e non alla persona che ha amministrato.
E se l’amministratore uscente continua a rifiutarsi?
In questo caso il nuovo amministratore può rivolgersi al giudice chiedendo un provvedimento d’urgenza, previsto dall’articolo 700 del Codice di procedura civile.
Il giudice può ordinare la consegna immediata dei documenti e, se necessario, imporre anche una somma di denaro per ogni giorno di ritardo, secondo quanto stabilito dall’articolo 614-bis.
Si tratta di una misura concreta, che serve a garantire il rispetto dell’ordine giudiziario e a scoraggiare chi tenta di eludere i propri obblighi.
E se nemmeno questo basta?
La legge prevede anche la possibilità di un intervento più incisivo: il giudice può autorizzare l’accesso forzoso presso lo studio dell’amministratore uscente, con l’assistenza dell’ufficiale giudiziario e, se necessario, della forza pubblica.
Inoltre, trattenere indebitamente la documentazione può configurare un reato di appropriazione indebita (art. 646 c.p.), mentre il mancato rispetto di un ordine del giudice può portare alla mancata esecuzione dolosa di un provvedimento giudiziario (art. 388 c.p.).
Un esempio recente lo ha fornito il Tribunale di Foggia con un’ordinanza del maggio 2025.
In quel caso, il nuovo amministratore aveva ottenuto un provvedimento d’urgenza per la consegna dei documenti, ma l’ex amministratore aveva ignorato l’ordine.
Il giudice, constatata la sua inottemperanza, ha applicato l’articolo 614-bis, condannandolo a una penale di 50 euro per ogni giorno di ritardo e autorizzando il condominio, tramite incaricati e con l’assistenza dell’ufficiale giudiziario, ad accedere allo studio per recuperare la documentazione anche in formato digitale.
Una decisione che conferma un principio essenziale: i documenti condominiali non appartengono all’amministratore, ma ai condòmini.
Ma oltre alle norme, c’è una questione di etica professionale.
Un amministratore serio sa che il suo compito non finisce con la revoca o con la scadenza dell’incarico. Consegnare tutta la documentazione, senza riserve, significa rispettare la fiducia ricevuta e la comunità che si è rappresentata.
L’amministratore non è proprietario dei documenti, ma custode temporaneo di beni e informazioni collettive.
Come dovrebbe comportarsi chi subentra?
In caso di ritardo o rifiuto, è necessario inviare una diffida scritta, fissando un termine perentorio preciso, e se il problema persiste, rivolgersi al giudice.
La legge, come abbiamo visto, tutela il condominio in modo chiaro e deciso.
Perché in fondo, la trasparenza non è un favore ma un dovere.
Cambiare amministratore non significa ricominciare da zero, ma garantire continuità, ordine e rispetto.
Chi lascia deve permettere a chi arriva di proseguire il lavoro con serenità e chiarezza.
I documenti non sono un potere da trattenere, ma un dovere da restituire.
E la vera professionalità di un amministratore si riconosce proprio nel modo in cui si lascia il testimone.
A cura di Sabrina Schemani
Amministratore di condominio – Studio Schemani ( Torino – Bardonecchia)
Dal 12 aprile 2025, data di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della legge di conversione del Decreto Sicurezza, l’occupazione abusiva di immobili ad uso abitativo è ufficialmente un reato autonomo, punito con pene più severe e strumenti di tutela più rapidi per i proprietari. L’articolo 634-bis del Codice Penale, introdotto dalla Legge n. 80 del 9 giugno 2025, prevede la reclusione da due a sette anni per chi occupa o detiene illecitamente un immobile, impedendo al legittimo proprietario o detentore di rientrarne in possesso. La stessa pena si applica anche a chi si appropria di un immobile con l’inganno e lo cede a terzi.
La novità più rilevante è la possibilità di ottenere lo sgombero immediato dell’immobile occupato, anche in caso di inquilini morosi che rifiutano di lasciare l’alloggio. La procedura semplificata consente alla polizia giudiziaria di intervenire direttamente, su autorizzazione del Pubblico Ministero, qualora vi siano fondati motivi per ritenere l’occupazione abusiva. Il giudice può emettere un decreto di rilascio immediato, accelerando notevolmente i tempi rispetto alle tradizionali azioni civili, spesso lunghe e complesse.
Oltre allo sgombero, il proprietario ha diritto a richiedere il risarcimento dei danni subiti. Secondo la giurisprudenza consolidata, il danno da occupazione abusiva è considerato “presunto”, ma deve comunque essere dimostrato. Le prove possono essere fornite anche per presunzione, come previsto dall’articolo 2727 del Codice Civile. Se il danno non è quantificabile con precisione, il giudice può stabilirlo in via equitativa, facendo riferimento al valore del canone di locazione mensile dell’immobile. In molti casi, il risarcimento viene fissato forfettariamente — ad esempio, 200 euro per ogni mese di occupazione arbitraria.
La norma consente anche di richiedere il risarcimento per danni non patrimoniali, come il disagio psicologico o i turbamenti subiti dal proprietario. Tuttavia, per ottenere questo tipo di risarcimento, è necessario fornire prove concrete. In presenza di una condanna penale, la dimostrazione è automatica; in assenza, spetta al danneggiato dimostrare che l’illecito può essere considerato penalmente rilevante.
In parallelo, l’articolo 648-bis del Codice Penale continua a disciplinare il reato di riciclaggio, punendo chi trasferisce o occulta beni provenienti da attività illecite. Le pene previste vanno da quattro a dodici anni di reclusione, con multe fino a 25.000 euro. Le condotte punite includono la sostituzione, il trasferimento e qualsiasi operazione volta a ostacolare l’identificazione della provenienza illecita dei beni.
Con l’introduzione dell’articolo 634-bis, il legislatore ha voluto rafforzare la tutela della proprietà privata, offrendo ai cittadini strumenti più efficaci per contrastare l’occupazione abusiva. Una svolta normativa che segna un cambio di passo nella difesa del diritto all’abitazione e alla disponibilità del proprio patrimonio immobiliare.
L’Italia cambia volto anche dentro casa. Secondo l’ultima indagine ISTAT sui consumi energetici delle famiglie, pubblicata il 9 ottobre 2025, il 2024 segna un’accelerazione verso impianti più efficienti, autonomi e sostenibili. Il 99,4% delle famiglie dispone di un sistema di riscaldamento, ma è l’impianto autonomo a dominare: presente nel 79% delle abitazioni, con un balzo di quasi sette punti percentuali rispetto al 2021. Un dato che racconta una crescente voglia di controllo, efficienza e comfort.
Le pompe di calore si impongono come protagoniste della transizione energetica: nel 2024, il 40,4% delle famiglie utilizza sistemi caldo/freddo, contro il 32,6% di tre anni prima. In molti casi si tratta di impianti multisplit intelligenti, capaci di regolare temperatura e consumi. Il trend è particolarmente marcato nelle Isole e nel Nord-est, dove la diffusione supera il 45%.
Il condizionamento domestico è ormai una realtà consolidata: il 56% delle famiglie italiane ne è dotato, quasi il doppio rispetto al 2013. Nei grandi centri urbani e nei comuni di pianura, la quota supera il 60%, segno di una crescente attenzione al comfort estivo e alla qualità dell’aria indoor.
Ma il panorama energetico italiano resta variegato. Gli impianti centralizzati scendono al 15,4%, con una presenza più forte nel Nord-ovest, dove il teleriscaldamento è ancora diffuso. Al Sud e nelle Isole, invece, prevalgono soluzioni semplici e indipendenti, con una quota di famiglie ancora priva di riscaldamento (1,7%) e una maggiore dipendenza da apparecchi singoli come stufe e caminetti.
La frammentazione impiantistica è evidente: il 43,2% delle famiglie utilizza più sistemi di riscaldamento nella stessa abitazione, combinando impianti principali e ausiliari. Un segnale di transizione, ma anche di una riqualificazione energetica ancora incompleta.
Accanto alle tecnologie elettriche, biomasse come legna e pellet mantengono un ruolo centrale. Il 16% delle famiglie usa legna da ardere, il 7,8% pellet, quasi il doppio rispetto al 2013. In regioni come Trentino-Alto Adige, Umbria e Calabria, oltre un terzo delle famiglie si affida ancora alla legna per il riscaldamento. Secondo Domenico Brugnoni, presidente di AIEL, “la modernizzazione degli impianti a biomassa è strategica per rendere questa filiera ancora più efficiente e sostenibile”.
Il report ISTAT conferma che le politiche nazionali ed europee, unite a una crescente consapevolezza ambientale, stanno orientando le scelte delle famiglie italiane. L’efficienza energetica non è più solo una questione tecnica, ma un valore condiviso, capace di migliorare la qualità della vita e contribuire alla sostenibilità del Paese.
Partecipare a un’asta immobiliare è un’opportunità interessante per chi desidera acquistare un immobile a condizioni vantaggiose, ma è fondamentale conoscere i requisiti richiesti e le modalità di accesso per affrontare la procedura con consapevolezza. In linea generale, qualsiasi persona maggiorenne e legalmente capace può prendere parte a un’asta, purché sia in possesso di un codice fiscale italiano. Questo vale anche per i cittadini stranieri, a condizione che abbiano la residenza fiscale in Italia o siano comunque in possesso del codice fiscale. L’unica eccezione riguarda il debitore esecutato, ovvero il proprietario dell’immobile messo all’asta, che non può partecipare alla vendita del proprio bene.
Per essere ammessi all’asta, è necessario presentare una serie di documenti, tra cui un valido documento d’identità, il codice fiscale e la domanda di partecipazione debitamente compilata e firmata. A questi si aggiunge la ricevuta del versamento della cauzione, che solitamente corrisponde al dieci per cento del prezzo base indicato nell’avviso di vendita. Nel caso in cui a partecipare sia una società, occorre allegare anche la visura camerale aggiornata, l’atto costitutivo o il verbale di assemblea, oltre al documento d’identità del rappresentante legale.
Le aste possono svolgersi in presenza, presso il Tribunale o lo studio del professionista delegato, oppure in modalità telematica. In quest’ultimo caso, è necessario disporre di una casella di posta elettronica certificata (PEC), di una firma digitale e, in alcuni casi, di una carta di credito per il pagamento dell’imposta di bollo. Se si partecipa in coppia e non si è in comunione dei beni, è richiesta una procura notarile che autorizzi l’uso della PEC e della firma digitale da parte di uno dei due.
Una volta aggiudicato l’immobile, l’acquirente è tenuto a saldare l’importo entro i termini stabiliti nell’avviso di vendita. È quindi fondamentale aver già valutato la propria disponibilità economica o la possibilità di accedere a un finanziamento, come un mutuo. L’asta immobiliare, pur essendo una procedura trasparente e regolata, richiede attenzione e preparazione: conoscere i requisiti e le regole è il primo passo per affrontarla con successo.
Nel mercato libero dell’energia, cambiare gestore di luce e gas è diventato un’operazione semplice, veloce e sempre più vantaggiosa. Con decine di offerte disponibili e la possibilità di scegliere quella più adatta alle proprie abitudini di consumo, lo “switch” – come viene chiamato il passaggio da un fornitore all’altro – può essere effettuato senza costi e senza interruzioni nella fornitura.
La procedura è interamente amministrativa: non sono richiesti interventi tecnici né modifiche al contatore. Basta analizzare la propria bolletta, confrontare le tariffe sul Portale Offerte dell’ARERA o su comparatori indipendenti, scegliere il nuovo gestore e firmare il contratto. Il nuovo operatore si occuperà di comunicare la disdetta al precedente e attivare la nuova fornitura.
I tempi di attivazione variano, ma sono destinati a ridursi. Attualmente, il cambio gestore avviene entro uno o due mesi, a partire dal primo giorno del mese successivo alla sottoscrizione del contratto. Per esempio, se lo switch viene richiesto entro il 10 febbraio, il nuovo contratto partirà dal 1° marzo. Se la richiesta arriva dopo il 10, slitterà al mese successivo. In caso di sottoscrizione fuori sede – online o telefonica – bisogna attendere i 14 giorni previsti per il diritto di recesso prima che la procedura venga avviata.
Dal 1° gennaio 2026, però, tutto cambierà: secondo una direttiva europea recepita dall’Italia, il passaggio dovrà essere completato entro 24 ore in qualsiasi giorno lavorativo. Un obiettivo ambizioso, che punta a rendere il mercato dell’energia ancora più competitivo e trasparente.
Sul fronte dei costi, il cambio gestore è generalmente gratuito. Non sono previsti oneri di disattivazione né spese di allaccio. Tuttavia, in alcuni casi possono essere applicati costi accessori, come l’imposta di bollo da 16 euro per chi passa dal mercato libero a quello tutelato, o un deposito cauzionale rimborsabile a fine contratto. Attenzione anche alle penali per recesso anticipato: secondo le regole ARERA, i fornitori possono applicarle, ma solo se proporzionate alla perdita economica subita.
La scelta del fornitore più conveniente dipende da diversi fattori. Il costo della materia prima è centrale, ma anche la tipologia di contratto (prezzo fisso o variabile), i consumi personali (monorari o biorari) e i servizi accessori offerti, come app dedicate, bollette digitali, assistenza tecnica o bonus fedeltà.
In un contesto in cui il risparmio energetico è sempre più cruciale, cambiare gestore può essere una mossa intelligente. Basta informarsi, confrontare e scegliere con consapevolezza.
Cucinare, pulire, fare la spesa, prendersi cura dei figli, degli anziani o di persone fragili: il lavoro domestico è una forza silenziosa che sostiene ogni giorno l’economia italiana. Eppure, chi lo svolge senza retribuzione continua a non godere di una tutela piena e strutturata. Il cosiddetto “bonus casalinghe”, spesso evocato nei titoli, non esiste come misura unica. Esistono invece strumenti frammentati che offrono un minimo di protezione a chi dedica la propria vita alla cura della casa e della famiglia.
Il principale è il Fondo di previdenza volontaria per casalinghe e casalinghi, istituito nel 1996 e gestito dall’INPS. Possono aderirvi le persone tra i 16 e i 65 anni che non hanno un lavoro retribuito né altre coperture previdenziali. Con versamenti annuali a partire da 309,84 euro, è possibile costruire una pensione di vecchiaia, accessibile già dai 57 anni se l’importo maturato supera una soglia minima, oppure dai 65 anni. Dopo almeno cinque anni di contributi, si può accedere anche alla pensione di inabilità. Tuttavia, non essendo previsto un trattamento minimo, l’importo può risultare molto basso se i versamenti sono sporadici.
Per chi non ha mai versato contributi, esiste l’assegno sociale, destinato agli over 67 in condizioni economiche svantaggiate. Nel 2025, l’assegno pieno spetta a chi non ha reddito personale e, se in coppia, a chi ha un reddito familiare inferiore a circa 7.000 euro annui. È una misura assistenziale, non legata al lavoro domestico, ma spesso rappresenta l’unico sostegno per chi ha dedicato la vita alla cura della casa.
Un’altra possibilità è l’Assegno di Inclusione, pensato per i nuclei familiari in difficoltà. Chi si occupa di minori, disabili o anziani può essere esonerato dagli obblighi di partecipazione ai percorsi di formazione o lavoro previsti dalla misura.
A livello locale, alcuni Comuni e Regioni offrono corsi di formazione e incentivi per il reinserimento lavorativo o l’avvio di attività autonome, rivolti a chi ha svolto per anni attività domestiche non retribuite.
Secondo l’Istat, oltre il 90% degli italiani tra i 20 e i 74 anni svolge quotidianamente attività domestiche o di cura non retribuite, per una media di oltre tre ore al giorno. Il valore economico stimato di questo lavoro supera i 700 miliardi di euro l’anno, pari a circa il 40% del PIL nazionale. Eppure, nonostante il suo impatto, il lavoro domestico resta privo di un riconoscimento normativo pieno.
La Corte Costituzionale, già nel 1995, lo aveva definito un’attività meritevole di tutela, richiamando l’articolo 35 della Costituzione. Ma a distanza di trent’anni, chi si dedica alla cura domestica può contare solo su un mosaico di misure, senza un vero “bonus” dedicato. Un vuoto che continua a pesare su milioni di persone, soprattutto donne, che ogni giorno sostengono il Paese senza tutele né retribuzione.
In tutte le stagioni, quando il tempo è bello, il desiderio di accendere il barbecue e cucinare sul balcone si fa sempre più forte. Ma attenzione: la normativa condominiale e il Codice Civile impongono regole ben precise per evitare disturbi ai vicini, controversie legali e, in alcuni casi, vere e proprie sanzioni.
Se da un lato il Codice Civile garantisce il diritto di ogni proprietario a utilizzare la propria abitazione, dall’altro esistono limiti normativi e regolamenti condominiali che possono vietare o limitare questa pratica. La Corte di Cassazione, inoltre, con diverse sentenze in materia, ha chiarito quando una grigliata in condominio può essere contestata e quando, invece, può essere autorizzata.
Ecco tutto quello che c’è da sapere prima di accendere il fuoco.
Le immissioni e il principio della normale tollerabilità
Il punto di riferimento principale è l’ articolo 844 del Codice Civile, che regola il tema delle immissioni tra proprietà confinanti: rumori, odori e fumi devono rispettare la normale tollerabilità, cioè non devono arrecare disturbo eccessivo ai vicini.
La valutazione di questa soglia dipende da diversi fattori:
• Per i rumori, si considerano i limiti di decibel stabiliti dalle normative nazionali e locali.
• Per fumi e odori, il giudice valuta caso per caso, tenendo conto di frequenza, intensità e distanza tra le abitazioni.
Se i fumi e gli odori della cottura diventano eccessivi, il vicino può chiedere la cessazione delle immissioni o, in casi estremi, richiedere un risarcimento danni.
Il vicino che si ritiene danneggiato dalle immissioni del barbecue, può agire in giudizio con due tipi di azioni:
• Azione inibitoria – per ottenere la cessazione delle immissioni.
• Azione risarcitoria – per ottenere un compenso per il disagio subito.
Sul punto, la Cassazione ha precisato che il giudice, nel valutare le immissioni, non è vincolato a una misura precisa: può decidere di ordinare la cessazione oppure di imporre accorgimenti idonei a ridurre il disagio (Cass. 26882/2019, 23245/2016, 7420/2000).
Il ruolo del regolamento condominiale
Anche se le immissioni di fumo sono entro la soglia di tollerabilità, esiste un altro ostacolo alla grigliata in condominio: il regolamento condominiale.
Il regolamento condominiale può infatti vietare esplicitamente la possibilità di cucinare sul balcone, anche se i fumi derivanti dalla cottura non superano la normale soglia di tollerabilità.
Se il divieto è stato approvato all’unanimità dai condòmini o inserito nel rogito notarile al momento dell’acquisto, allora è vincolante per tutti i residenti.
Se invece il regolamento è stato adottato a maggioranza, non può imporre restrizioni sulle unità immobiliari private, ma solo sulle parti comuni.
In alcuni casi, il regolamento può prevedere limitazioni specifiche, come:
• Divieto di barbecue e grigliate per evitare fumi e odori molesti.
• Orari prestabiliti per l’uso di attrezzature da cucina all’aperto.
• Obbligo di dispositivi di filtraggio per ridurre le immissioni.
Sentenze giuridiche
La Corte di Cassazione ha più volte affrontato il tema delle immissioni moleste in condominio. Alcune sentenze chiave includono:
• Cass. n. 26882/2019 – Il giudice può ordinare la cessazione delle immissioni se superano la normale tollerabilità, anche senza un divieto esplicito nel regolamento condominiale.
• Cass. n. 15246/2017 – Un barbecue in muratura con comignolo deve rispettare le distanze minime dai confini, poiché può essere considerato un forno ai sensi dell’articolo 890 del Codice civile.
• Cass. n. 23245/2016 – Se le immissioni causano disagi significativi, il vicino può chiedere un risarcimento danni.
Queste pronunce dimostrano che, anche in assenza di un divieto esplicito, cucinare sul balcone può diventare illegale se provoca disturbo eccessivo ai vicini.
Sicurezza e normative edilizie
Oltre alle questioni legali, cucinare sul balcone può comportare rischi di sicurezza. Le normative antincendio prevedono restrizioni per l’uso di fiamme libere in spazi aperti, soprattutto in edifici con strutture vicine.
Inoltre, molti condomini non dispongono di adeguate predisposizioni per l’uscita dei fumi, rendendo la cucina sul balcone impraticabile e potenzialmente pericolosa.
Installazione di barbecue e normativa edilizia
Per chi dispone di un giardino, l’opzione di un barbecue in muratura può essere interessante. In questo caso, la normativa stabilisce che l’installazione rientra nell’ edilizia libera e non necessita di autorizzazioni, come chiarito dal Glossario dell’Edilizia Libera allegato al decreto del Ministero delle Infrastrutture del 2 marzo 2018.
Conclusioni
Per evitare problemi legali, ecco tre verifiche fondamentali da fare prima di accendere il barbecue o cucinare sul balcone in condominio, per evitare liti con i vicini e rischi legali:
• Verificare se il regolamento condominiale vieta esplicitamente le grigliate sul balcone: nel caso, il divieto è vincolante.
• Evitare immissioni eccessive: se i vicini lamentano fumo intenso o odori persistenti, potrebbero agire legalmente.
• Se si installa un barbecue in muratura, verificare le distanze e le norme edilizie per evitare contestazioni.
Garantire una corretta ricezione del segnale televisivo è un diritto di tutti i residenti, anche in ambito condominiale. Per questo motivo, negli edifici collettivi possono essere predisposti impianti di antenna TV, sia centralizzati sia privati. La scelta tra le due soluzioni dipende da diversi fattori, tra cui la normativa vigente, il regolamento condominiale e le esigenze dei singoli proprietari.
Negli edifici di nuova costruzione, la legge impone l’installazione di impianti centralizzati per la ricezione televisiva e radiofonica. La normativa, introdotta con la Legge 249 del 1997 e successivamente aggiornata dalla Legge 66 del 2001, stabilisce che tali impianti debbano garantire un accesso uniforme ai segnali e ridurre la proliferazione di antenne individuali, anche per preservare il decoro architettonico. L’obbligo vale sin dalla fase progettuale e si estende anche agli impianti satellitari.
Diversa è la situazione per gli edifici più datati, costruiti prima dell’entrata in vigore della normativa. In questi casi, l’installazione di un impianto centralizzato può essere deliberata dall’assemblea condominiale, purché non vi siano vincoli nel regolamento. Se il regolamento è assembleare, può contenere indicazioni su tipologia, colore e posizione delle antenne. Se invece è contrattuale, le limitazioni possono essere più rigide, fino a vietare l’installazione su balconi o facciate. In assenza di divieti, l’assemblea può approvare l’installazione come innovazione, con la maggioranza dei presenti che rappresenti almeno due terzi dei millesimi. Se l’intervento comporta modifiche al regolamento contrattuale, sarà necessaria l’unanimità.
In caso di ristrutturazione generale dell’edificio, il condominio è tenuto ad adeguare l’impianto alle nuove esigenze tecnologiche, come previsto dal decreto ministeriale del 22 gennaio 2013. Se l’impianto centralizzato è assente, va predisposto; se esiste ma non è più adeguato, va aggiornato per ricevere i nuovi segnali digitali.
Accanto agli impianti comuni, ogni condomino ha diritto di installare un’antenna privata, ad esempio per migliorare la ricezione o accedere a contenuti satellitari. Il diritto d’antenna, regolato dal Decreto Legislativo 259 del 2003, è considerato espressione del diritto all’informazione. Tuttavia, l’installazione non deve compromettere la stabilità, la sicurezza o l’estetica dell’edificio. Se avviene sulle parti comuni, è necessario rispettare l’articolo 1102 del Codice Civile, che consente l’uso condiviso purché non si alteri la destinazione d’uso né si impedisca agli altri condomini di fare altrettanto. In caso di modifiche strutturali, l’assemblea deve approvare l’intervento con almeno un terzo dei millesimi.
Sempre più spesso, i condomini si chiedono se sia possibile staccarsi dall’impianto centralizzato, magari per adottare soluzioni alternative come la visione via Internet. In linea generale, il distacco è consentito, purché venga comunicato all’amministratore e sia tecnicamente possibile rimuovere ogni collegamento, comprese le prese domestiche. Se il distacco non compromette il funzionamento dell’impianto comune, il condomino non sarà tenuto a partecipare alle spese future, a condizione che non vi siano debiti pregressi. Se invece il distacco non è tecnicamente completo, il condomino potrebbe essere chiamato a contribuire comunque. Per evitare controversie, è consigliabile affidarsi a un tecnico certificato che possa attestare l’effettiva disconnessione.
La ripartizione delle spese dipende dalla natura dell’impianto. Se l’antenna è centralizzata, i costi di installazione, manutenzione e riparazione sono suddivisi tra tutti i condomini in base ai millesimi, come previsto dall’articolo 1123 del Codice Civile. Tuttavia, l’articolo 1121 stabilisce che, in caso di innovazioni gravose o suscettibili di uso separato, chi non intende usufruirne può essere esonerato, purché rinunci al collegamento. In futuro, potrà rientrare nel servizio versando la propria quota.
I costi variano in base alla complessità dell’impianto e al numero di unità servite. L’installazione può oscillare tra i 500 e i 2.000 euro complessivi, mentre la manutenzione annuale può costare tra i 50 e i 300 euro per ciascun condomino. Per le antenne private, invece, tutte le spese sono a carico del singolo proprietario. Va infine ricordato che, se il condomino è ancora collegato all’impianto centralizzato, anche se non lo utilizza, sarà comunque tenuto a contribuire alle spese comuni.
Lo smart working non è automaticamente sinonimo di sostenibilità ambientale. A dirlo è uno studio firmato dai ricercatori ENEA Roberta Roberto e Alessandro Zini, pubblicato dall’ISPI, che analizza l’impatto del lavoro da remoto su traffico, consumi energetici ed emissioni. Il verdetto? I benefici ci sono, ma non sono garantiti.
«Spostare il lavoro dall’ufficio a casa o in spazi condivisi modifica la domanda di mobilità, con effetti potenzialmente positivi su traffico e qualità dell’aria», spiegano gli autori. Tuttavia, avvertono, la riduzione di consumi ed emissioni non è automatica: entrano in gioco variabili come l’efficienza energetica degli edifici, le abitudini di consumo e persino la scelta del luogo in cui si vive. Chi si trasferisce in periferia, ad esempio, potrebbe finire per percorrere più chilometri, vanificando i vantaggi ambientali.
Lo studio evidenzia anche un altro paradosso: più tempo trascorso in casa per lavorare significa più energia consumata per riscaldamento, raffrescamento, illuminazione ed elettronica. E se gli uffici restano comunque operativi, il bilancio energetico rischia di peggiorare.
Un’indagine condotta da ENEA su circa 2.000 dipendenti pubblici in smart working in quattro città italiane (Roma, Bologna, Trento e Torino) ha stimato un risparmio medio di 600 kg di CO₂ e 8,6 GJ di carburante per lavoratore all’anno, con picchi significativi a Roma, dove i tragitti casa-lavoro sono più lunghi e l’uso dell’auto privata è prevalente. Ma anche qui, l’effetto rimbalzo non è da sottovalutare: in alcuni casi, il telelavoro ha generato un aumento della mobilità locale, ad esempio per commissioni o attività nel quartiere.
Perché lo smart working possa davvero diventare una leva di sostenibilità, servono politiche integrate. Lo studio ENEA propone tre azioni chiave: pianificare, connettere e coinvolgere.
– Pianificare significa ripensare le città in chiave compatta, contrastando la dispersione urbana e avvicinando abitazioni, uffici e servizi.
– Connettere vuol dire investire in trasporti pubblici e mobilità attiva, riducendo la dipendenza dall’auto privata.
– Coinvolgere implica promuovere comportamenti sostenibili attraverso campagne di sensibilizzazione e strumenti di partecipazione pubblica.
«Quantificare gli effetti netti del lavoro da remoto resta una sfida aperta», concludono i ricercatori. «Serve un approccio sistemico che vada oltre l’azienda e abbracci l’organizzazione delle città nel loro insieme».