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Anie, sicurezza antincendio: pubblicata la guida

Anie Sicurezza ha pubblicato la guida “Protezione elettronica antincendio”, giunta alla sua quinta edizione.
Si tratta di un volume elettronico, pratico e aggiornato, indispensabile per chi progetta sistemi antincendio.

È infatti pensato, studiato e realizzato per gli operatori del settore delle tecnologie per la sicurezza e la prevenzione degli incendi, per supportarli nella progettazione di sistemi a regola d’arte.

Questo strumento si rivolge a tutti i professionisti dell’ambito della sicurezza antincendio che vogliano saperne di più e accrescere il proprio know-how in tema di progettazione di soluzioni automatiche per la rivelazione degli incendi, con particolare riferimento alla conformità alle più recenti normative in fatto di sicurezza.

In particolare, nel volume vengono affrontati due aspetti fondamentali della sicurezza antincendio:
– la prevenzione, che assicura la sicurezza delle persone e la protezione dei beni,
– la rivelazione incendio, che aiuta a identificare in modo tempestivo la presenza di fumo o fiamme in un edificio, al fine di mettere in campo una risposta rapida per ridurre il più possibile i potenziali danni.

Tra i più importanti riferimenti normativi c’è la UNI 9795, relativa alla progettazione, all’installazione e alla gestione di sistemi fissi automatici di rivelazione e di segnalazione allarme d’incendio del 2021, che traccia le linee guida per assicurare la conformità di tali soluzioni a standard di sicurezza vigenti non solo in Italia.

Altre due normative fondamentali sono la UNI 11224, dedicata alla manutenzione dei sistemi di rivelazione incendi, che risale al 2019; e il Codice di prevenzione incendi (D.M. 3 agosto 2015), che offre un ampio sguardo sulle norme e sui regolamenti sulla prevenzione a livello nazionale.

La guida Protezione elettronica antincendio supporta il professionista nel districarsi nel complicato contesto normativo, che è sempre in aggiornamento, dal momento che per legge spetta all’operatore l’obbligo di accertare la conformità di apparecchi, impianti e prodotti.

Tutte le informazioni su come ottenere una copia del volume sul sito di Anie Sicurezza.

“Prima i piemontesi”: la nuova legge sulla casa

Equità sociale, premialità per chi ha scelto di fare del Piemonte la propria casa e, di conseguenza, nuovi criteri di punteggio per l’assegnazione della casa popolare.

Il Consiglio Regionale del Piemonte ha approvato la nuova legge regionale sulla Casa, frutto di anni di lavoro e di studio da parte dell’assessore regionale alle Politiche per la Casa, Chiara Caucino e dei suoi uffici.

La nuova legge è destinata a rivedere in maniera significativa i punteggi di assegnazione, partendo dal presupposto di creare nuovi strumenti di premialità, in particolare in due fattispecie. La prima per dare un riconoscimento ai cittadini aventi diritto alla casa popolare, di qualsiasi nazionalità d’origine, che risiedono in Piemonte da 15, 20 o 25 anni.

L’idea è quella di premiare chi in Piemonte risiede da anni, nella regione ha lavorato e pagato le tasse, contribuendo allo sviluppo socio-economico del territorio. La seconda premialità riguarda invece i nuclei famigliari mono genitoriali con figli minori a carico, che vedranno aumentare il proprio punteggio di assegnazione.

La nuova legge punta anche fortemente a mettere un punto fermo nel contrasto all’illegalità, compresi i «furbetti», coloro che si costruiscono una situazione reddituale tale da avere diritto alla casa popolare, ma che poi si scopre che posseggono beni «da ricchi». Per questa categoria ci sarà un sostanzioso giro di vite: l’assegnatario, per avere la casa, non potrà infatti più possedere beni mobili registrati come automobili, motoveicoli di grossa cilindrata, o caravan inquadrati nella categoria dei beni di lusso. Inoltre sono stati esclusi dall’applicazione della legge 3 del 2010 gli immobili che verranno destinati alle forze dell’ordine per garantire sicurezza nei contesti più disagiati.

La legge punta quindi a promuovere, con queste ed altre azioni, l’equità sociale, premiando allo stesso tempo le persone che qui hanno vissuto e che hanno fatto del Piemonte la propria «casa».

«Oltre a tutto ciò – spiega Caucino – abbiamo inserito nuovi principi orientati alla legalità come il divieto di assegnazione a favore di coloro che hanno occupato abusivamente uno stabile Atc nei 10 anni precedenti e, fermo restando la decadenza del diritto di assegnazione nel momento in cui l’assegnatario fosse soggetto a una condanna detentiva, con le nuove regole, per tutelare la famiglia del potenziale reo, il titolo passerà automaticamente al coniuge, ai figli oppure ai parenti conviventi».

Prosegue Caucino: «Abbiamo lavorato anni per raggiungere questo risultato, con l’unica finalità di agevolare sempre di più i fragili, coloro che versano in condizioni di maggior difficoltà. Sono certa che quello raggiunto sia un obiettivo importante ed ambizioso, orientato esclusivamente a criteri di giustizia e di equità. Un passo avanti importante per un Piemonte che, grazie a questa giunta, ha saputo, in questi anni, mantenere le sue promesse: non lasciare mai nessuno indietro o, peggio ancora, da solo».

Marco Traverso – Ufficio Comunicazione Assessore per le Politiche della casa

Mal’Aria di città 2024: i dati sull’inquinamento atmosferico nelle città italiane

La lotta allo smog nelle città italiane è ancora in salita secondo il nuovo report di Legambiente “Mal Aria di città 2024”, redatto nell’ambito della Clean Cities Campaign.

Infatti, nonostante una riduzione dei livelli di inquinanti atmosferici nel 2023, le città faticano ad accelerare il passo verso un miglioramento sostanziale della qualità dell’aria.

I loro livelli attuali sono stabili ormai da diversi anni, in linea con la normativa attuale, ma restano distanti dai limiti normativi che verranno approvati a breve dall’UE, previsti per il 2030 e soprattutto dai valori suggeriti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, evidenziando la necessità di un impegno deciso, non più rimandabile, per tutelare la salute delle persone.

Il report di Legambiente ha analizzato i dati del 2023 nei capoluoghi di provincia, sia per quanto riguarda i livelli delle polveri sottili (PM10, PM2.5) che del biossido di azoto (NO2).

In sintesi, 18 città sulle 98 monitorate, hanno superato gli attuali limiti normativi per gli sforamenti di PM10 (35 giorni all’anno con una media giornaliera superiore ai 50 microgrammi/metro cubo). Erano state 29 le città fuorilegge nel 2022 e 31 nel 2021.

In testa alla classifica delle città c’è Frosinone (con la centralina di Frosinone Scalo) con 70 giorni di sforamento, il doppio rispetto ai valori ammessi, seguita da Torino (Grassi) con 66, Treviso (strada S. Agnese) 63 e Mantova (via Ariosto), Padova (Arcella) e Venezia (via Beccaria) con 62. Anche le tre città venete, Rovigo (Centro), Verona (B.go Milano), e Vicenza (Ferrovieri), superano i 50 giorni, rispettivamente 55, 55 e 53.

Milano (Senato) registra 49 giorni, Asti (Baussano) 47, Cremona (P.zza Cadorna) 46, Lodi (V.le Vignati) 43, Brescia (Villaggio Sereno) e Monza (via Machiavelli) 40. Chiudono la lista Alessandria (D’Annunzio) con 39, Napoli (Ospedale Pellerini) e Ferrara (Isonzo) con 36.

I dati evidenziano un miglioramento rispetto all’anno precedente, principalmente attribuibile alle condizioni meteorologiche “favorevoli” che hanno caratterizzato il 2023, anziché a un effettivo successo delle azioni politiche intraprese per affrontare l’emergenza smog. Tuttavia, le città italiane, da Nord a Sud, presentano ancora considerevoli ritardi rispetto ai valori più stringenti proposti dalla revisione della Direttiva europea sulla qualità dell’aria che entrerà in vigore dal 2030 (20 µg/mc per il PM10, 10 µg/mc per il PM2.5 e 20 µg/mc per l’NO2).

Se il 2030 fosse già qui, il 69% delle città risulterebbe fuorilegge per il PM10, con le situazioni più critiche a Padova, Verona e Vicenza con 32 µg/mc, seguite da Cremona e Venezia (31 µg/mc), e infine da Brescia, Cagliari, Mantova, Rovigo, Torino e Treviso (30 µg/mc). Situazione analoga anche per il PM2.5: saranno oltre i futuri limiti l’84% delle città, con i valori più alti registrati a Padova (24 µg/mc), Vicenza (23 µg/mc), Treviso e Cremona (21 µg/mc), Bergamo e Verona (20 µg/mc).

L’NO2 è l’unico inquinante in calo negli ultimi 5 anni, ma il 50% delle città resterebbe comunque fuori legge. Napoli (38 µg/mc), Milano (35 µg/mc), Torino (34 µg/mc), Catania e Palermo (33 µg/mc), Bergamo e Roma (32 µg/mc), Como (31 µg/mc), Andria, Firenze, Padova e Trento (29 µg/mc) sono le città con i livelli più alti.

“Ancora una volta l’obiettivo di avere un’aria pulita nei centri urbani italiani rimane un miraggio, come dimostra la fotografia scattata dal nostro rapporto Mal’Aria di città”, dichiara Giorgio Zampetti, direttore generale di Legambiente. “Le fonti sono note così come sono disponibili e conosciute le azioni e le misure di riduzione delle emissioni, ma continuiamo a registrare ancora forti e ingiustificati ritardi nel promuovere soluzioni trasversali. Serve quindi un cambiamento radicale, attuando misure strutturali ed integrate, capaci di impattare efficacemente sulle diverse fonti di smog, dal riscaldamento degli edifici, dall’industria all’agricoltura e la zootecnia fino alla mobilità, dove le misure di riduzione del traffico e dell’inquinamento possono ben conciliarsi con una maggiore sicurezza per pedoni e ciclisti, come dimostra l’importante intervento della città a 30km/h di Bologna voluto dal sindaco Matteo Lepore e dall’amministrazione comunale. Un intervento già realizzato in diverse città europee che chiediamo sia sempre più diffuso anche in quelle italiane”.

“I dati del 2023 ci dicono che il processo di riduzione delle concentrazioni è inesistente o comunque troppo lento” – spiega Andrea Minutolo, responsabile scientifico di Legambiente. “Ad oggi, infatti, ben 35 città dovranno intensificare gli sforzi per ridurre le loro concentrazioni di PM10 entro il 2030, con una percentuale di riduzione compresa tra il 20% e il 37%, mentre per il PM2.5 il numero di città coinvolte sale a 51, con una riduzione necessaria tra il 20% e il 57%. Non migliore la situazione per quanto riguarda l’NO2, dove 24 città dovranno ridurre le emissioni tra il 20% e il 48%. Alla luce degli standard dell’OMS, che suggeriscono valori limite molto più stringenti dei valori di legge attuali e che rappresentano il vero obiettivo per salvaguardare la salute delle persone, la situazione diventa ancora più critica. Bisogna determinare una svolta a livello nazionale e territoriale per ridurre l’impatto sanitario sulla popolazione italiana, il costo ad esso associato, e il danno agli ambienti naturali”.

Le sorti della salute dei cittadini europei saranno determinate nel trilogo, l’ultima fase del processo di revisione della Direttiva europea sulla qualità dell’aria, prevista entro febbraio 2024. Considerando che in Italia ci sono 47.000 decessi prematuri all’anno a causa del PM2.5, è cruciale – avverte Legambiente – che il Governo italiano non ostacoli ulteriormente questo percorso, evitando deroghe e clausole che possano giustificare ritardi nel raggiungimento degli obiettivi.

Le proposte di Legambiente

Per uscire dalla morsa dell’inquinamento – secondo il Cigno Verde – bisogna tenere conto delle diverse realtà territoriali e agire sulle diverse fonti di emissioni di inquinanti atmosferici in maniera sinergica. Solo così si potrà nel medio periodo tornare a respirare aria pulita nelle nostre città. Ecco, le direzioni da seguire:

Muoversi in libertà e sicurezza per le città

Servono investimenti massicci nel TPL, incentivi all’uso del trasporto pubblico, mobilità elettrica condivisa anche nelle periferie, implementare ZTL, LEZ (Low emission zone) e ZEZ (Zero emission Zone), elettrificazione anche dei veicoli merci digitalizzare i servizi pubblici, promuovere l’home working, ampliare reti ciclo-pedonali e ridisegnare lo spazio urbano, a misura di persona con limiti di velocità a “città 30”, rendendo al contempo la mobilità non solo più pulita, ma più sicura e realmente inclusiva.
Riscaldarsi bene e meglio. Bisogna vietare progressivamente le caldaie e generatori di calore a biomassa nei territori più inquinati; negli altri invece supportare l’installazione di tecnologie a emissioni “quasi zero”, con sistemi di filtrazione integrati o esterni, o soluzioni ibride.

Occuparsi anche delle campagne
In aree rurali con agricoltura e allevamento intensivo, le emissioni agricole possono superare quelle industriali o urbane. Occorre dunque vigliare sul rispetto dei regolamenti per lo spandimento e rapido interramento dei liquami, e promuovere investimenti agricoli verso pratiche che riducano le emissioni ammoniacali, come la copertura delle vasche di liquami e la creazione di sistemi di trattamento, soprattutto per la produzione di biometano.

Monitorare per la tutela della salute

È inoltre necessario cambiare anche la strategia di monitoraggio sinora impiegata, aumentando il numero di centraline di monitoraggio in modo da garantire una copertura di tutte le principali aree urbane del Paese. Con la prossima adozione di nuovi limiti più allineati con quelli dell’OMS, infatti, molte delle aree che ora sono in regola non lo saranno più e la verifica costante e puntuale della situazione sarà ancora una volta quanto mai necessaria. Oggi sono disponibili sensori a basso costo che si possono affiancare alle centraline tradizionali, rendendo il monitoraggio distribuito, capillare e scientificamente fondato secondo il paradigma delle smart cities.

Quest’anno, Legambiente lancia la campagna itinerante “Città2030: le città e la sfida del cambiamento” che si svolgerà dall’8 febbraio al 6 marzo. L’iniziativa, realizzata nell’ambito della Clean Cities Campaign, una coalizione europea di ONG e organizzazioni della società civile, di cui anche il cigno verde fa parte, farà tappa in 18 città italiane per promuovere una mobilità sostenibile e a zero emissioni e per chiedere città più vivibili e sicure.

L’iniziativa giungerà a Avellino (13/02), Reggio Calabria (14/02), Messina (14/02), Napoli (15/02), Lodi (19/02), Trieste (20/02), Pescara(21-22/02), Bologna (23/02), Padova(24/02), Perugia(24/02), Roma (26/02), Milano (27/02), Latina(28/02), Firenze (29/02-1/03), Torino(1-2/03), Catania (1-2/03), Lecce (3-5/03) e Genova (04-05/03).

Durante le tappe, saranno organizzati incontri con rappresentanti delle amministrazioni locali, esperti e cittadini per discutere delle sfide legate alla mobilità sostenibile nei vari contesti urbani, sia iniziative di piazza come flash mob, presidi, attività di bike to school.

Zero Emission, sharing mobility, TPL elettrico e Città30 saranno alcuni dei principali temi affrontati.

Nelle tappe di Avellino, Trieste e Genova, inoltre, i tre giovani vincitori del bando nazionale MOB (categoria “Proposte per il presente”), organizzato da Fondazione Unipolis, avranno modo di raccontare a cittadini e amministratori le loro idee progettuali per rendere la mobilità delle loro città più sostenibile e accessibile.

Grazie al progetto LIFE MODErn (NEC), Clean Cities sarà anche l’occasione per i volontari di Legambiente di accendere i riflettori sull’impatto che l’inquinamento atmosferico ha sugli ecosistemi e sulla biodiversità, oltre che sulla salute umana, con flash mob sia a Roma che a Milano.

Il racconto della campagna e la petizione
È possibile seguire tutte le tappe di Città30 sulle pagine Facebook, Instagram Legambiente Lab e Twitter GreenMobility. Legambiente lancia anche per quest’anno la petizione on line “Ci siamo rotti i polmoni. No allo smog!” con la quale chiede al Governo risposte urgenti nella lotta allo smog, a partire dagli interventi sulla mobilità e l’uso dello spazio pubblico e della strada.

*Note metodologiche: l’unità di misura con la quale vengono espresse le concentrazioni di NO2, PM2.5 e PM10 è microgrammi per metro cubo di aria (µg/mc). Per quanto riguarda il biossido d’azoto (NO2), le città capoluogo di provincia di cui è stata ricavata la media annuale sono 91; per il PM2,5 sono 87; per il PM10 (sia per le medie annuali che per gli sforamenti giornalieri) sono 98. La media annuale è stata calcolata come media delle medie annuali delle singole centraline di monitoraggio ufficiale delle Arpa classificate come urbane (fondo o traffico).

Comunicato stampa

Le sanzioni per il mancato pagamento della Tari 2023

A decidere le date per il pagamento della Tassa rifiuti è il Comune. La Tassa sui rifiuti può essere pagata in un’unica soluzione oppure con diverse rate, generalmente due acconti e un saldo, in base al regolamento del proprio Comune. Nel caso si verificasse, dunque, la mancata consegna dell’avviso di pagamento con i bollettini e le scadenze potrebbe essere determinata da un ritardo da parte del Comune. Per quanto riguarda le sanzioni e rischi per il cittadino che non paga la Tari, dipendono dal ritardo con cui viene regolarizzata la situazione.

Chi paga in ritardo la tassa sui rifiuti incorre infatti in una sanzione, il cui importo può essere ridotto grazie allo strumento del ravvedimento operoso.
Il ravvedimento operoso consente ai contribuenti di regolarizzare omissioni, errori o illeciti di tipo fiscale, in modo spontaneo, versando:
– il tributo non pagato;
– una sanzione stabilita in misura ridotta;
– gli interessi, calcolati sull’importo non pagato al tasso legale vigente.

L’importo della sanzione dipende dalla data in cui si procede con il pagamento di quanto dovuto per la Tari.
Di solito la sanzione è pari al 30% dell’imposta o della tassa dovuta (art. 13 del d.lgs. n. 471/1997). Con il decreto legislativo 158 del 2015 si è però provveduto a ridurre della metà le sanzioni nel caso in cui la regolarizzazione avvenga entro 90 giorni.

Le sanzioni sono così determinate:
– ritardi fino a 14 gg: sanzione del 15% ridotta a 1/15 per giorno;
– ritardi tra 15 e 90 gg: sanzione del 15% dell’imposta;
– ritardi superiori a 90 gg: sanzione ordinaria del 30%.

Alle sanzioni così determinate si applicano ulteriori sconti nel caso di ravvedimento operoso. Il ravvedimento operoso si ha quando il contribuente in maniera spontanea, quindi senza aver ricevuto solleciti, effettua il pagamento del dovuto. In questo caso la sanzione è:
– dello 0,1% dell’imposta per ogni giorno di ritardo più gli interessi giornalieri se il pagamento avviene entro 14 giorni dalla scadenza;
– 1,5% a cui si aggiungono interessi se il pagamento avviene tra il 15° giorno e il 30° giorno dalla scadenza;
– 1,67% a cui si aggiungono gli interessi se il pagamento avviene tra il 90° giorno e un anno;
– la sanzione deve essere pagata per intero nel caso in cui il pagamento avvenga oltre un anno.
Il tasso di interesse legale per il 2023 è stato fissato al 5%.

Nel caso in cui, invece, la Tari non venga pagata, le conseguenze sono più gravi rispetto alla semplice sanzione amministrativa.
Se l’importo complessivo di Tari non pagata supera i 30.000 euro si sfocia nel reato di evasione fiscale, per il quale si rischia la detenzione. Sotto i 30.000 euro invece rimane illecito tributario, punito comunque con sanzioni molto severe. Il Comune può infatti richiedere l’esecuzione forzata del debito, pertanto il Tribunale può disporre il pignoramento dei beni del debitore.

Vi è però anche il caso in cui il contribuente non paga la Tari perché non gli è arrivato il bollettino per effettuare il versamento. In questo caso il contribuente deve contattare il proprio Comune e chiedere informazioni circa il ritardo, in quanto chi non riceve il bollettino non può comunque considerarsi esente dal pagamento. Deve infatti pagare comunque quanto dovuto mediante modello F24 in banca o presso un ufficio postale.

La Tari è soggetta a prescrizione: se il Comune non invita il cittadino a pagare la tassa sull’immondizia entro cinque anni, non potrà più pretendere il pagamento degli importi evasi. La Corte di Cassazione con l’ordinanza 17234 del 15 giugno 2023 ha infatti ribadito che per il mancato pagamento della Tari si applica la prescrizione breve in 5 anni e non il termine ordinario di 10 anni previsto dall’art. 2946 del Codice civile.

Muffa nella casa in affitto

La muffa in casa è un fenomeno piuttosto comune e che dipende da numerosi fattori. Oltre al disagio e ai rischi per la salute, la muffa comporta inevitabilmente delle spese da sostenere per la sua rimozione e per l’adeguamento dell’immobile. Non si può stabilire a priori chi, tra inquilino e proprietario, debba pagare queste spese, in quanto dipende da una serie di circostanze. Inoltre, possono anche verificarsi delle conseguenze sul contratto d’affitto, nel caso in cui le parti non adempiano ai loro doveri.

Il Codice civile regolamenta i contratti d’affitto e i doveri delle parti. Non viene ovviamente trattato nel particolare il caso specifico della muffa, ma genericamente affronta il tema dei vizi dell’appartamento. In particolare, il proprietario di casa è tenuto a rimuovere i problemi di natura strutturale dell’edificio e quelli derivanti dalla mancanza di manutenzione straordinaria.

L’inquilino, in caso di inadempienza del locatore, può mettere in atto diverse soluzioni. Ma è comunque tenuto a custodire l’immobile in buono stato (in linea di massima il medesimo in cui lo ha ricevuto) e provvedere alla manutenzione straordinaria, avendo cura di comunicare al padrone di casa eventuali problemi in maniera tempestiva. Di conseguenza, anche il padrone di casa può tutelarsi se il conduttore non conserva adeguatamente l’immobile.

Questi principi sono fondamentali per capire chi paga per la muffa nella casa in affitto, che infatti dipende dalla sua origine, nonché dalla causa degli eventuali danni che ne sono scaturiti. Bisogna sottolineare che si fa riferimento sia ai vizi dell’immobile presenti alla conclusione del contratto, sia a quelli sopravvenuti.

A quanto si evince dal Codice civile, il proprietario è tenuto a pagare per la rimozione della muffa nella casa in affitto quando è dovuta a problemi strutturali dell’immobile (ad esempio dovuti alla cattiva manutenzione degli impianti) e deve anche risolvere le problematiche di origine.

Se il proprietario si attiva per risolvere i problemi non appena avvisato dall’inquilino non deve riconoscergli alcun risarcimento, così come non deve risarcire i danni causati dalla comunicazione tardiva dell’inquilino. Resta la facoltà del locatore di agire contro il condominio se i problemi derivano dalle parti comuni dell’edificio. L’inquilino ha diritto al risarcimento danni soltanto quando il proprietario non si adopera rapidamente per risolvere il problema, ad esempio per il danno alla salute.

Quando il proprietario di casa non si adopera per risolvere il problema della muffa pur essendone responsabile oppure vuole farlo ma non ottiene la delibera dell’assemblea condominiale (quando necessaria) l’inquilino può scegliere tra:
– La risoluzione del contratto d’affitto, lasciando quindi l’appartamento;
– la riduzione del canone d’affitto.

Se il locatore non acconsente a questi rimedi, diventa necessario agire in giudizio per vederne l’attuazione. È però fondamentale che l’affittuario non decida autonomamente di ridursi il canone: il mancato pagamento, infatti, potrebbe dar luogo allo sfratto.

Se, però, l’inquilino accetta un appartamento in affitto nella consapevolezza che questo sia affetto da un vizio, non può poi chiedere queste particolari tutele, salvo l’adeguamento del padrone di casa agli obblighi sulla manutenzione straordinaria. L’unica eccezione si ha quando il vizio è pericoloso per la salute, eccezione che spesso ben si addice al problema della muffa.

Vi è poi il caso in cui la muffa sia causata dalla cattiva conduzione dell’appartamento da parte del conduttore. Quest’ultimo è infatti tenuto alla manutenzione ordinaria dell’alloggio, ad esempio per quanto riguarda rivestimenti e infissi delle finestre, tinteggiatura delle pareti e impianto di riscaldamento e condizionamento.

Se è l’inquilino ad aver causato, seppur involontariamente, la muffa, deve risolvere il problema a sue spese. E deve anche risarcire il proprietario di casa se ha procurato danni permanenti all’immobile e al suo valore, circostanza non troppo comune per la muffa ma che può presentarsi nei casi più gravi e a lungo trascurati.

Canone Tv più leggero nel 2024

televisione anziani

La Legge di Bilancio 2024 ha ridotto da 90 a 70 euro l’anno l’importo del canone Rai, che anche quest’anno sarà addebitato nella bolletta della luce.

Con la risoluzione n. 1/E, pubblicata lo scorso 4 gennaio 2024, l’Agenzia delle Entrate ha comunicato gli importi dovuti per l’anno 2024 per chi sceglie il pagamento annuale, semestrale o trimestrale, ma anche per le altre casistiche che possono presentarsi.

Nulla è cambiato sotto il profilo pratico per i cittadini. L’addebito del canone continua infatti ad avvenire direttamente nella bolletta dell’energia elettrica, in dieci rate pari a 7 euro ciascuna. Tranne che per i pensionati che hanno scelto di addebitare il canone sulla pensione, che si vedranno semplicemente trattenere un importo inferiore dall’impresa elettrica o dall’ente previdenziale. Gli altri contribuenti già titolari di abbonamento Tv per i quali invece non è stato possibile l’inserimento nella fattura di fornitura elettrica, devono effettuare entro il 31 gennaio 2024 il versamento del canone dovuto per l’intera annualità, pari a 70 euro, tramite modello. Tra questi, ad esempio, anche i nuclei familiari in cui nessun componente è titolare di contratto di fornitura di energia elettrica sul quale sia possibile addebitare il canone Tv.

Per maggiori informazioni è disponibile l’area tematica del sito internet dell’Agenzia delle Entrate Aree tematiche – Canone TV – Agenzia delle Entrate (agenziaentrate.gov.it). per ricevere assistenza disponibile anche il numero verde 800.93.83.62.

La fine del mercato tutelato dell’energia

Il 10 gennaio 2024 ha sancito definitivamente la fine del mercato tutelato per quanto riguarda il gas, mentre si attende la data del 1 luglio 2024 per la cessazione definitiva del mercato tutelato dell’energia elettrica.

Si tratta dunque di un momento che si avvicina e che richiede una certa prontezza da parte dei consumatori, soprattutto per quanto riguarda le informazioni più importanti.

Fine del mercato tutelato

Dunque, il mercato a maggior tutela dell’energia chiuderà gradualmente i battenti a partire dal 10 aprile 2024. Questo vuol dire che le famiglie saranno obbligate a passare ad un operatore che agisce all’interno del mercato libero, dunque svincolato dai prezzi imposti dall’Arera, l’Autorità di regolazione per energia reti e ambiente.

Il processo di transizione è noto come “Servizio a Tutele Graduali”. Ovviamente conviene attivarsi sin da subito, in modo da passare al mercato libero prima della deadline indicata. In questo modo si potranno reperire il più rapidamente possibile le offerte luce e gas più convenienti per la propria situazione, sfruttando i comparatori di tariffe presenti sul mercato.

Ma cosa succede se l’utente decide di non eseguire volontariamente questo passaggio, restando dunque con il vecchio fornitore del mercato tutelato?

L’utente non sarà soggetto né a sanzioni né a problematiche come l’interruzione delle forniture. Il passaggio al mercato libero non prevede infatti il rischio di restare senza fornitori dall’oggi al domani. Gli utenti che non eseguiranno il passaggio verranno infatti automaticamente assegnati ad un fornitore del mercato libero.

Nello specifico, se si parla del mercato tutelato per le utenze gas, coloro che decideranno di non fare il passaggio autonomamente rimarranno con lo stesso fornitore, a cui però verrà assegnata un’offerta del mercato libero.

Per quanto riguarda invece gli utenti del mercato tutelato dell’energia elettrica che non faranno il passaggio entro il 1° aprile 2024, verranno assegnati ad un fornitore del mercato libero tramite un bando nazionale.

In entrambi i casi, le persone non decideranno l’offerta che verrà sottoscritta a loro nome. Per questo motivo è sempre consigliato scegliere autonomamente prima delle scadenze indicate.

I clienti vulnerabili

I Clienti Vulnerabili nell’ambito dell’energia elettrica e del gas sono individui o famiglie che, a causa di specifiche condizioni economiche, sociali o sanitarie, si trovano in una situazione di maggiore fragilità e hanno bisogno di protezione speciale per garantire loro l’accesso ai servizi energetici essenziali.

Per clienti di gas naturale e dell’energia elettrica, considerati vulnerabili e che sono attualmente serviti attraverso il Servizio di Maggior Tutela, il passaggio obbligatorio al mercato libero non inciderà sulla loro situazione. Rimarranno nel mercato tutelato.

Il passaggio dal mercato tutelato a quello libero

Nella fattispecie, bisogna semplicemente trovare un nuovo fornitore che operi all’interno del mercato libero, dove i prezzi vengono definiti secondo la logica della concorrenza, e dove non sussistono imposizioni da parte di Arera.

Selectra propone un comparatore online gratuito che offre la possibilità di mettere a confronto le proposte dei principali fornitori energetici presenti sul mercato. Una volta trovata l’opzione più adatta, l’utente dovrà semplicemente sottoscrivere il nuovo contratto.

Bisogna inoltre specificare che gli utenti non dovranno occuparsi di alcuna noia burocratica. Sarà infatti il nuovo fornitore a contattare il precedente, comunicandogli il passaggio. Naturalmente l’utente dovrà fornire alcune informazioni, come il codice POD o PDR, nome e cognome, codice fiscale e altri dati. Infine, il passaggio da un fornitore all’altro non prevede costi per gli utenti, ma è del tutto gratuito.

Fonte: Selectra.net

In una casa su 4 forno e frigo hanno più di 10 anni

In una casa su quattro il forno elettrico o il frigorifero hanno più di 10 anni “di servizio”. È uno spaccato che emerge dall’Osservatorio Green Home Smart Home, indagine annuale condotta dall’ Istituto di ricerca sociale e di marketing Eumetra su un campione di 2000 famiglie. È più recente il parco delle lavatrici: la metà è stata installata negli ultimi 5 anni, come il 58% delle lavastoviglie. Gli elettrodomestici più “giovani” sono le asciugatrici (75% con meno di 5 anni), e i piani cottura a induzione che hanno meno di 5 anni nell’80% dei casi (ma sono presenti solo nel 16% delle case degli italiani), e infine i televisori (più di un terzo acquistati negli ultimi 2 anni).

Riscaldamenti, infissi e condizionatori “vecchi”

Gli impianti di efficienza energetica nelle abitazioni italiane rimangono nel complesso piuttosto datati: secondo Eumetra, quasi il 30% degli impianti di riscaldamento autonomo e degli infissi isolanti ha più di 10 anni. Sono relativamente più giovani i condizionatori: il 32% ha tra i 3 e 5 anni e “solo” il 18% oltre 10 anni. Invece, gran parte delle opere di isolamento termico è stata realizzata negli ultimi 5 anni, così come gli impianti fotovoltaici o l’installazione di pompe di calore, avvenute in tre quarti dei casi dopo il 2018.

“Gli ambienti domestici – commenta Matteo Lucchi, Amministratore Delegato di Eumetra – stanno rapidamente cambiando: sono sempre più tecnologici e connessi (27% oggi, nel 2017 erano il 4%), soprattutto per la gestione dell’intrattenimento (TV e casse audio), dell’illuminazione e della gestione del riscaldamento attraverso i termostati smart”.

Con la “casa smart” si cerca soprattutto la sicurezza

Le famiglie italiane, anche quelle non ancora connesse, puntano soprattutto alla sicurezza: il 32% considera interessante come funzione smart home l’installazione di sensori per la perdita di gas o acqua, il 28% di videocamere di sicurezza e il 27% di sensori di movimento nell’area della propria abitazione; a seguire anche gli impianti antintrusione (21%). Il risparmio energetico è il secondo elemento chiave: il 28% ha dichiarato di puntare soprattutto su nuovi termostati smart e una quota simile su strumenti “intelligenti” di monitoraggio dei consumi.

Solo un terzo delle case è efficiente

Le case “efficienti”, anche solo parzialmente (dotate di infissi isolanti, lampade led, o elettrodomestici efficienti), non superano il 34% delle abitazioni, fra le quali quelle veramente efficienti sono il 12%. La fine delle agevolazioni sta scoraggiando e scoraggerà alcune famiglie dall’acquistare impianti o strumenti che rendono più efficiente la casa dal punto di vista energetico, anche se più della metà dei “non propensi” non avrebbe comunque fatto acquisti in quest’ambito nei prossimi mesi a prescindere dal superbonus.

“Secondo la nostra analisi – ha aggiunto Matteo Lucchi – le intenzioni d’acquisto per l’efficienza energetica sono frenate oggi soprattutto dal prezzo di accesso, dal timore che le nuove dotazioni non permettano un effettivo risparmio, da una diffidenza nel rapportarsi con nuove tecnologie, dall’impegno che alcuni progetti richiedono e naturalmente dalla fine della cessione del credito che impatta appunto sulla barriera economica inziale, come accade soprattutto per le opere di isolamento termico perimetrale (cappotto)”.

Comunicato Stampa

Emergenza casa: dal Governo nessun intervento

Il tema della casa è scomparso dall’agenda del Governo.
Nessun intervento previsto in Legge di Bilancio, nessun finanziamento per le politiche dell’abitare.
Eppure i dati che dimostrano che ci troviamo di fronte ad una vera e propria emergenza sono evidenti: 600mila famiglie in attesa di una casa popolare, il dibattito aperto in tutte le grandi città per affrontare i costi dell’abitare ormai inaccessibili per i redditi medio bassi e le proteste degli studenti fuori sede che non trovano opportunità abitative accessibili.
A tutto ciò il Governo risponde azzerando il Fondo Sostegno Affitti e con un tavolo convocato dal Ministro Salvini, da cui sono stati esclusi i sindacati degli inquilini, e che ha prodotto il rinvio a un incontro successivo per affrontare il tema di un “piano casa” che continua ad essere evocato senza che circolino idee in merito, insieme alla promessa del Ministero di investire 100 milioni, una cifra ridicola rispetto alle necessità.
Certamente c’è la necessità, dopo molti anni, di realizzare un intervento significativo sulla casa, un “piano casa” che investa risorse significative, prenda atto dei bisogni diversi prodotti dai mutamenti sociali e affronti il tema di come garantire un diritto essenziale a una fascia di popolazione sempre più ampia che non ce la fa.
Ma da subito almeno tre cose possono essere fatte presto.
Innanzitutto va rifinanziato il Fondo Sostegno Affitti, insieme a quello per la morosità incolpevole, per non lasciare solo chi non riesce più a pagare l’affitto e impedire che si allunghi ulteriormente la lista degli sfratti e della sofferenza.
Usare i fondi per finanziare le agenzie comunali per la casa per aiutare chi è in difficoltà e garantire i proprietari è una strada che è necessario percorrere e che aiuta i Comuni, che altrimenti rischiano di restare soli e impotenti a fronteggiare i problemi.
In secondo luogo serve rifinanziare, ricorrendo ai fondi europei, i cosiddetti PINQUA, i progetti per la qualità dell’abitare, che, finanziati dal PNRR, hanno già prodotto 271 interventi di miglioramento edilizio e aumento delle opportunità abitative.
Il grande tema della rigenerazione urbana resta sullo sfondo ma è ineludibile, serve intervenire per creare più opportunità abitative di qualità e sostenibili laddove oggi esistono zone spesso degradate, e questa è una necessità non più rinviabile. I progetti PINQUA vanno in questa direzione e hanno aperto la strada.
Ma il tema su cui è necessario intervenire subito e che può dare subito risultati significativi riguarda il patrimonio pubblico.
I dati del Ministero competente raccontano di 70mila alloggi di Edilizia Residenziale Pubblica lasciati vuoti, altre stime arrivano a 150mila alloggi pubblici inutilizzati (12mila solo a Milano). Si tratta spesso di immobili che hanno bisogno di semplice manutenzione ordinaria per poter essere assegnati ma che restano vuoti per le inefficienze dei gestori e per mancanza di fondi.
Qui c’è, come è evidente, un obiettivo di lavoro che può dare risultati in tempi rapidi e aumentare al tempo stesso il valore del patrimonio pubblico.
Servono finanziamenti e norme che consentano di incentivare questi interventi.
Mentre si fanno i tavoli al Ministero, queste cose possono essere fatte presto, basta ci sia la volontà politica.

Comunicato stampa Senatore Franco Mirabelli

Aumenta lo stipendio di colf e badanti

Ogni anno le retribuzioni di colf e badanti devono essere adeguate al costo della vita. Infatti nel 2023 lo stipendio dei collaboratori domestici ha subito un aumento del 9,2% . Un incremento che si è riversato sulle famiglie, molte delle quali cominciano ad avere difficoltà a farsi carico dei costi dell’assunzione di colf e badanti, vista anche la mancanza di strumenti adeguati a favorirne deduzione e detrazione.

Per quanto abbia registrato una frenata, l’inflazione anche quest’anno è stata molto alta, tanto da comportare un incremento del 5,4% delle pensioni. Una percentuale simile dovrebbe essere applicata anche sui costi di colf e badanti, con un aumento che a seconda dei casi può arrivare fino a 90 euro al mese.

Le retribuzioni di colf e badanti stanno quindi per aumentare ancora. Ovviamente questo rappresenta un vantaggio per il lavoratore. Ma più i costi salgono, più aumenta il rischio di lavoro in nero. Sarebbe quindi necessario pensare a soluzioni che possano rendere maggiormente sostenibile la spesa sostenuta.

L’aumento della retribuzione di colf e badanti
La rivalutazione incide sulle retribuzioni minime indicate dal Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro di colf e badanti. Non è ancora stato reso ufficiale il tasso che verrà applicato, ma non dovrebbe essere troppo distante dal 5,4% utilizzato per le pensioni.

Si va, quindi, da un incremento compreso tra i 40 e i 90 euro circa per le famiglie, con una spesa annua che nel peggiore dei casi può essere più alta di 1.000 euro rispetto a quest’anno. Una cifra che spaventa le famiglie, sulle quali già pesano i costi dell’inflazione.
In attesa di cifre ufficiali, continua la richiesta di nuove forme di supporto destinate alle famiglie che hanno alle proprie dipendenze colf, badanti e altri lavoratori domestici.

Oggi, infatti, i cosiddetti bonus badanti e colf sono limitati a:
– detrazione del 19% delle spese sostenute per il versamento dei contributi previdenziali e assistenziali, calcolata su un massimo di spesa di 2.100 euro. Questa agevolazione vale solamente per le spese sostenute per l’assistenza delle persone disabili gravi o non autosufficienti;
– deduzione fino a 1.549,37 euro l’anno per i contributi versati in favore di colf e badanti.
Aiuti che tuttavia non sono sufficienti.

Assindatcolf da tempo sta facendo pressione sul Governo affinché venga modificata quest’ultima agevolazione, consentendo alle famiglie italiane di portare in deduzione tutte le spese sostenute per l’assunzione di colf e badanti, quindi lo stipendio oltre ai contributi. Un’agevolazione dalla quale scaturirebbe un risparmio compreso tra i 2 mila e i 5 mila euro l’anno, rendendo così maggiormente sostenibile l’assunzione in regola di un lavoratore domestico.