La direttiva Case Green – EPBD IV stabilisce obiettivi ambiziosi per la decarbonizzazione del settore edilizio, mirando a un risparmio energetico del 16% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2020.
Ma raggiungere questo traguardo richiede ingenti investimenti. Secondo uno studio condotto da Agici, realizzato con il supporto di CVA e presentato a Milano nel corso dell’11° Convegno annuale dell’Osservatorio sull’efficienza energetica, l’Italia dovrà destinare 13 miliardi di euro all’anno agli edifici residenziali, 2,5 miliardi per il patrimonio pubblico e 700 milioni per le imprese, per un totale di 16,2 miliardi di euro annui da qui alla fine del decennio.
Una sfida colossale che, senza un sistema di incentivi più efficace, rischia di rallentare il percorso verso una transizione energetica reale e sostenibile.
Edifici unifamiliari: la combinazione più efficace per abbattere le emissioni
Lo studio ha analizzato il potenziale di riduzione delle emissioni combinando interventi di efficienza energetica e sistemi alimentati da fonti rinnovabili.
I dati indicano che una abitazione unifamiliare di 100 mq consuma in media 21,5 MWh all’anno, producendo 4,2 tonnellate di CO2.
Diverse tecnologie sono state messe a confronto, tra cui pompe di calore, impianti fotovoltaici, caldaie a biomassa e sistemi di accumulo elettrico.
La soluzione più efficace per abbattere le emissioni, riducendole fino al 94 per cento, è risultata quella che combina l’isolamento dell’involucro con un impianto fotovoltaico e una pompa di calore con accumulo.
Tuttavia, se si analizza il costo della riduzione della CO2, l’opzione più conveniente si rivela quella che unisce efficienza energetica e caldaia a biomassa, con un costo livellato di abbattimento delle emissioni fissato a 343 euro per tonnellata di CO2.
Gli incentivi attuali permettono di coprire tra il 34 per cento e il 35 per cento dei costi complessivi, mentre il risparmio in bolletta generato dagli interventi oscilla tra il 22 per cento e il 36 per cento.
La sfida dei condomini: la via più efficace è il teleriscaldamento
Se per gli edifici unifamiliari il fotovoltaico e l’accumulo risultano la soluzione più efficace, nei condomini la strategia più vantaggiosa sembra essere il teleriscaldamento.
Lo studio ha analizzato edifici di diverse dimensioni, con una superficie media di 9.735 mq e un consumo energetico di 1,38 GWh annui, con emissioni pari a 279 tonnellate di CO2.
Tra le diverse tecnologie prese in esame – tra cui caldaie ad alta efficienza, fotovoltaico e impianti a biomassa – la combinazione più efficace si è rivelata quella che integra l’isolamento dell’involucro con il teleriscaldamento, capace di ridurre l’ 89% delle emissioni.
Anche dal punto di vista economico, questa soluzione si conferma vantaggiosa, con un costo per tonnellata di CO2 abbattuta di 1.038 euro.
Gli incentivi previsti, tra detrazioni fiscali e Conto Termico, possono coprire tra il 34 per cento e il 36 per cento dei costi complessivi.
Industria: fotovoltaico e accumulo per ridurre le emissioni
Lo studio ha anche analizzato le soluzioni per il settore industriale, prendendo in considerazione una impresa energivora esposta alla competizione internazionale e inclusa nel sistema ETS.
I consumi stimati sono particolarmente elevati: 343.888 MWh di metano utilizzati per produrre 159.444 MWh di energia utile, con emissioni annue pari a 63.031 tonnellate di CO2.
Tra le diverse strategie esaminate, la più efficace per la riduzione delle emissioni è risultata la combinazione tra fotovoltaico, accumulo e interventi di efficienza energetica, che garantisce un abbattimento del 54,1 per cento della CO2.
Tuttavia, la soluzione più vantaggiosa dal punto di vista economico è quella che integra fotovoltaico ed efficienza energetica, con un costo di 95 euro per tonnellata di CO2 ridotta.
Lo studio ha anche valutato l’opzione di integrare l’idrogeno, ma ha concluso che la realizzazione di impianti autonomi presenta costi elevati e benefici minimi.
La strategia più efficiente, quindi, sarebbe investire nella creazione di una rete di produzione e distribuzione, piuttosto che in soluzioni isolate.
Gli incentivi attuali, tra cui Transizione 5.0 e Titoli di Efficienza Energetica (TEE), migliorano gli indicatori finanziari e potrebbero mobilitare investimenti di maggiore entità, riducendo il tempo di ritorno degli investimenti.
Gli incentivi attuali non bastano: serve un cambio di strategia
La ricerca evidenzia una criticità fondamentale: le attuali detrazioni fiscali non riescono a stimolare sufficientemente gli investimenti privati, soprattutto se combinate con finanziamenti bancari.
Una possibile soluzione potrebbe essere la combinazione dei Titoli di Efficienza Energetica (TEE) con il modello Energy Performance Contract (EPC), che prevede di ripagare gli interventi con i risparmi ottenuti grazie all’efficientamento.
Questa formula si è dimostrata particolarmente efficace per progetti che garantiscono una riduzione delle emissioni tra il 20 per cento e il 50 per cento, ma non può essere applicata a tutti i settori con la stessa efficienza.
Se il Governo vuole accelerare la transizione energetica e raggiungere gli obiettivi della direttiva Case Green, sarà fondamentale ripensare il sistema degli incentivi, integrando soluzioni innovative e ampliando le opportunità per mobilitare capitali privati su larga scala.
Un’occasione da non perdere
L’implementazione della direttiva EPBD potrebbe trasformarsi in una grande opportunità per il Paese, riducendo le emissioni e rilanciando l’industria dell’efficienza energetica. Ma senza una strategia finanziaria adeguata, il rischio è quello di rallentare il processo e perdere competitività rispetto agli altri Paesi europei.
La chiave per il successo sarà una revisione degli incentivi, una maggiore integrazione tra tecnologie e un piano di investimenti strutturato, capace di coniugare sostenibilità ambientale ed economica.
L’Italia ha ancora il tempo per trasformare questa sfida in un’opportunità di crescita, ma la finestra di intervento si sta rapidamente chiudendo.
Se un incidente colpisce il condominio, la gestione dei dati personali diventa una questione delicata.
Tra fotografie, verbali e documenti assicurativi, l’amministratore deve garantire il rispetto delle norme sulla privacy, evitando violazioni e proteggendo i diritti dei condòmini.
Gestire un sinistro: tra burocrazia e privacy
Un’infiltrazione d’acqua, un danno da incendio, un atto vandalico o, nei casi più gravi, un crollo strutturale. Ogni sinistro condominiale porta con sé la necessità di documentare l’accaduto, raccogliere prove e trasmettere informazioni ad assicurazioni, tecnici e legali.
Ma attenzione: ogni foto, verbale o relazione tecnica che riguarda ambienti privati, targhe di veicoli, persone o oggetti personali costituisce un trattamento di dati personali ai sensi del Regolamento UE 2016/679 (GDPR).
Per questo motivo, l’amministratore di condominio, in qualità di responsabile del trattamento, ha l’obbligo di operare nel rispetto delle normative sulla privacy, tutelando i diritti degli interessati e limitando la raccolta dei dati solo a ciò che è realmente necessario.
Raccolta e gestione della documentazione: cosa si può fotografare
La documentazione di un sinistro è fondamentale per ottenere un risarcimento o avviare interventi di ripristino, ma deve essere raccolta seguendo criteri chiari e rispettosi della privacy.
• Fotografie e video devono essere pertinenti: la ripresa di una perdita d’acqua, ad esempio, deve concentrarsi sulla zona interessata, evitando di includere persone, oggetti personali o dettagli inutili. Riprendere ambienti privati in maniera eccessiva può violare il principio di minimizzazione dei dati e portare a responsabilità ai sensi dell’ articolo 83 del GDPR.
• Verbali e relazioni devono rispettare la proporzionalità: raccogliere dati personali senza un valido motivo costituisce una violazione della privacy. La documentazione deve essere limitata allo stretto necessario, evitando di divulgare informazioni non pertinenti.
Informativa e diritto di accesso: i condòmini devono essere informati
Quando il sinistro coinvolge persone identificabili – come i proprietari delle unità danneggiate – devono essere informati sul trattamento dei loro dati. Il GDPR impone che l’amministratore fornisca un’ informativa chiara e trasparente (art. 13), in cui vengano spiegati:
• La finalità della raccolta dati.
• I tempi di conservazione delle informazioni.
• I destinatari dei dati, come compagnie assicurative e tecnici incaricati.
La documentazione raccolta deve essere protetta da misure di sicurezza adeguate, evitando accessi non autorizzati. È consigliabile adottare strumenti come credenziali di accesso e cifratura dei file (art. 32 GDPR). Inoltre, i dati devono essere conservati solo per il tempo strettamente necessario alla gestione del sinistro e alle eventuali controversie, dopodiché devono essere cancellati o anonimizzati.
Il ruolo dei periti e la trasmissione dei dati
Se l’amministratore incarica un perito esterno o una compagnia assicurativa per la valutazione del danno, è indispensabile formalizzare la nomina a responsabile esterno del trattamento ai sensi dell’ articolo 28 del GDPR.
Ogni trasferimento di dati a terzi (compagnie assicurative, avvocati, tecnici) deve avvenire con modalità sicure e tracciabili. Il Garante Privacy, nel provvedimento 244 dell’8 giugno 2023, ha ribadito che la trasmissione di informazioni deve essere protetta da misure di sicurezza adeguate, per evitare accessi non autorizzati o dispersioni di dati.
Se il sinistro provoca lesioni: obblighi aggiuntivi
In caso di incidenti che causano lesioni a persone all’interno del condominio, l’amministratore ha un ulteriore obbligo: aggiornare il Registro delle attività di trattamento (articolo 30 GDPR), necessario per garantire la tracciabilità dei dati sensibili trattati.
Il registro deve contenere:
• Categorie di interessati e dati raccolti.
• Finalità del trattamento e destinatari dei dati.
• Tempi di conservazione.
Se il sinistro è stato discusso in assemblea, è consigliabile inserire un riferimento al verbale, mantenendo il documento conservato e aggiornato in formato sicuro.
Il diritto di accesso alla documentazione: attenzione alla riservatezza
Un condòmino coinvolto nel sinistro può richiedere di visionare la documentazione, ma questo diritto non deve violare la privacy degli altri residenti.
Prima di concedere l’accesso, occorre anonimizzare o oscurare dati riferiti a terzi, bilanciando il diritto di informazione con la tutela della riservatezza.
Se gestito in modo errato, questo aspetto può portare a contenziosi e problematiche giuridiche.
Conclusione: la privacy prima di tutto
La gestione dei sinistri in condominio richiede grande attenzione alla privacy. Documentare correttamente gli eventi è fondamentale, ma deve essere fatto rispettando le norme del GDPR, adottando misure di sicurezza adeguate e garantendo la proporzionalità e la minimizzazione dei dati trattati.
Una gestione scrupolosa protegge non solo i dati personali, ma anche la sicurezza giuridica dell’amministratore e la reputazione del condominio. In un mondo sempre più orientato alla trasparenza digitale, la conformità alle norme sulla privacy può diventare un valore aggiunto per chi amministra condomini, evitando rischi e rafforzando la fiducia dei residenti.
L’Italia si trova di fronte a una sfida cruciale: decarbonizzare il patrimonio edilizio, riducendo le emissioni e migliorando l’efficienza energetica degli edifici.
La direttiva Case Green – EPBD IV – rappresenta un passo fondamentale in questa direzione, ma la sua applicazione richiede politiche mirate, incentivi efficaci e una visione di lungo periodo.
Nel corso di KEY – The Energy Transition Expo, Francesca Andreolli, ricercatrice senior del think tank Ecco, ha presentato un’analisi sulle opportunità che questa direttiva può offrire al settore edilizio italiano, mettendo in luce le sfide che il Paese deve affrontare e le misure necessarie per non perdere un’occasione storica.
Edifici italiani: vecchi, energivori e poco efficienti
L’Italia deve fare i conti con un patrimonio immobiliare obsoleto e altamente energivoro. Il 64 per cento delle abitazioni risale a prima del 1980, con una forte concentrazione di edifici costruiti negli anni’60 e’70, soprattutto nelle regioni del Nord. Inoltre, il 60 per cento delle case è collocato in contesti condominiali, e il 10 per cento si trova nei centri storici, dove le possibilità di intervento sono spesso limitate.
L’inefficienza energetica è evidente nei numeri: il settore edilizio copre oltre il 50% dei consumi energetici nazionali, alimentati prevalentemente da fonti fossili. Il 70 per cento di questa energia è destinata al riscaldamento domestico, che nella maggior parte dei casi avviene tramite caldaie a gas e radiatori, senza l’impiego di tecnologie più avanzate e sostenibili.
Secondo i dati presentati da Ecco, solo il 18% delle abitazioni italiane ha richiesto un Attestato di Prestazione Energetica (APE) e l’80 per cento degli edifici è classificato in una classe energetica inferiore alla D. Il dato più allarmante riguarda il 30 per cento degli immobili, che rientra nella classe G, la peggiore in termini di efficienza.
Il fallimento degli incentivi e il nodo sociale della riqualificazione
Gli interventi per migliorare l’efficienza energetica degli edifici non hanno prodotto i risultati sperati. Nonostante i numerosi bonus edilizi, le emissioni del settore sono rimaste pressoché stabili, evidenziando la necessità di un approccio più strutturato.
A pesare su questa situazione sono fattori sociali ed economici spesso ignorati. La riqualificazione energetica richiede investimenti da parte delle famiglie, ma la capacità di spesa degli italiani è limitata. Il 70 per cento dei contribuenti ha un reddito inferiore a 26mila euro, e la capacità di risparmio medio è sotto i 3mila euro, con significative differenze tra Nord e Sud.
Gli under 35, spesso sensibili alle tematiche ambientali e teoricamente più inclini a investire nella riqualificazione, vivono in affitto e hanno minori capacità di investimento rispetto ai proprietari di case.
Questo quadro impone una riflessione più profonda sul tema degli incentivi, che finora hanno avvantaggiato principalmente le fasce di reddito più alte -cioè coloro che avrebbero potuto investire comunque.
Superbonus: luci e ombre di una misura inefficace
Il Superbonus ha avuto un impatto significativo sul settore delle costruzioni nel periodo post-pandemico, con un incremento del 68 per cento degli investimenti nel triennio 2021-2023. Ma l’analisi del suo rapporto costo/efficacia solleva più di una perplessità.
Il costo per ogni kilowattora risparmiato è stato quasi doppio rispetto all’Ecobonus (5,2 €/kWh contro 2,8 €/kWh). Inoltre, la riduzione delle emissioni del settore edilizio è stata appena dell’1%, un risultato decisamente inferiore alle aspettative.
Uno dei problemi principali del Superbonus è stato la mancanza di un vero spostamento dal gas all’elettrico, che avrebbe garantito una decisa riduzione delle emissioni. A questo si aggiunge il fatto che lo sconto in fattura e la cessione del credito, strumenti che avevano permesso anche alle fasce più basse di accedere agli incentivi, sono stati eliminati ancor prima della riduzione dell’aliquota del Superbonus.
Come rendere la Direttiva un’occasione per l’Italia
Secondo Ecco, la direttiva Case Green deve essere recepita con politiche che risolvano i limiti strutturali degli incentivi esistenti. Servono misure capaci di rispondere realmente ai bisogni delle famiglie e delle imprese, con una programmazione di medio-lungo periodo che garantisca stabilità e sostenibilità finanziaria.
Oltre all’aspetto sociale, il Governo deve integrare la EPBD con le altre direttive europee, includendo le misure su ETS e rinnovabili, per creare una strategia coerente nell’ambito del Green Deal europeo.
Per valutare concretamente il ritorno degli investimenti, Ecco ha utilizzato la metodologia Social Return of Investment (SROI), che attribuisce un valore monetario agli impatti non quantificabili delle politiche di riqualificazione.
Analizzando diversi scenari al 2030, 2035 e 2040, il think tank ha evidenziato i benefici industriali, ambientali e occupazionali legati alla decarbonizzazione del settore edilizio.
Le raccomandazioni per una transizione efficace
Per garantire un’efficace applicazione della direttiva EPBD, Ecco ha individuato sei raccomandazioni chiave:
• Mantenere le detrazioni fiscali almeno fino al 2030, per garantire stabilità agli investimenti.
• Adeguare le agevolazioni alla reale riduzione delle emissioni e agli standard ambientali più elevati.
• Potenziamento dei controlli per verificare l’efficacia degli strumenti di incentivazione.
• Copertura totale dei costi per le fasce più deboli, per contrastare la povertà energetica.
• Riduzione progressiva dell’IMU sulle seconde case in affitto, se riqualificate energeticamente.
• Correggere il divario tra bolletta del gas ed elettrica, per incentivare il passaggio alle tecnologie più efficienti.
La transizione ecologica dell’edilizia non deve essere vista come un costo, ma come un investimento strategico per il Paese.
Se l’Italia saprà cogliere questa opportunità, potrà non solo ridurre le emissioni, ma anche migliorare la qualità della vita dei cittadini, creando posti di lavoro e rilanciando il settore edilizio in una chiave realmente sostenibile.
Il tema della ripartizione delle spese di riscaldamento è sempre molto delicato per chi vive in condominio. Di questi tempi, poi, con i costi in salita e tante famiglie che per risparmiare tengono la temperatura al minimo, quando non addirittura l’impianto spento, sono in molti a chiedersi perché devono pagare se non hanno consumato.
Quali sono, dunque, in presenza di contabilizzazioni di calore, i criteri per la ripartizione delle spese?
In linea generale, le spese devono essere ripartite in base ai consumi effettivi, tenendo però conto della quota di manutenzione.
Cosa sono i sistemi di contabilizzazione del calore
Innanzitutto, è necessario comprendere cosa siano i sistemi di contabilizzazione del calore e perché la loro installazione è necessaria all’interno dei contesti condominiali.
La Direttiva Europea 2012/27/UE, in un’ottica di efficientamento energetico, ha imposto l’adozione di sistemi di termoregolazione e contabilizzazione del calore condominiale.
Questa necessità è stata recepita in Italia con il D.Lgs. 102/2014 – e le successive integrazioni, come ad esempio il D. Lgs. 73/2020 – che ha determinato l’obbligatorietà di installare contabilizzatori nei contesti condominiali dotati di riscaldamento centralizzato, in presenza di fattibilità tecnica ed economica, per una ripartizione delle spese basata sul consumo effettivo.
Il contabilizzatore è un apparecchio elettronico che viene installato sul termosifone, in grado di calcolare il consumo effettivo dell’unità immobiliare per le sue necessità di riscaldamento.
I dati vengono poi raccolti a livello condominiale, per stabilire come debbano essere suddivise le relative spese.
Chi deve pagare i contabilizzatori di calore
L’installazione di sistemi di contabilizzazione del calore è un obbligo previsto dalla legge per tutti i condomini dotati di riscaldamento centralizzato, ad eccezione che ne venga dimostrata la non convenienza economica o l’impossibilità tecnica di installazione, tramite un’analisi di fattibilità qualificata.
Chi deve provvedere alle spese per l’installazione dei contabilizzatori? In linea generale, i costi iniziali di installazione del sistema sono a carico dei proprietari delle singole unità immobiliari, in base ai loro millesimi di proprietà.
Poiché si tratta di una spesa di manutenzione straordinaria, i condòmini che si sono distaccati dall’impianto di riscaldamento centralizzato devono provvedere alle spese di installazione, mentre sono esonerati dai costi relativi ai consumi, così come anche previsto dall’articolo 1118 del Codice Civile.
Per tutte le spese di gestione successive alla prima installazione, come nel caso di sostituzione dei contabilizzatori per guasti o malfunzionamenti, è il singolo condòmino a dovervi provvedere.
L’articolo 1117 del Codice Civile spiega infatti che gli impianti unitari del condominio, come appunto quello di riscaldamento, sono comuni fino al punto di utenza: il singolo contabilizzazione guasto, di conseguenza, è un apparecchio che viene impiegato oltre alla porzione comune dell’impianto.
Quanto costa installare un contabilizzatore di calore
La spesa per l’installazione di un contabilizzatore di calore varia in base al modello prescelto e alle sue funzionalità aggiuntive, quali la possibilità di monitoraggio da remoto dei consumi o l’accesso tramite app per smartphone.
In linea generale, il singolo dispositivo può costare tra i 50 ai 150 euro, a seconda se le tariffe d’installazione sono incluse o meno. Tuttavia, si tratta di una forbice puramente indicativa, poiché la spesa potrebbe anche variare a seconda dei prezzi medi della località in cui si risiede.
è possibile usufruire di detrazioni fiscali per i contabilizzatori di calore, in particolare nel caso in cui l’installazione sia concomitante con la sostituzione degli impianti di climatizzazione invernale.
La ripartizione delle spese di riscaldamento
Come si ripartiscono le spese di esercizio di un impianto termico centralizzato in un condominio?
In linea generale, le spese di esercizio di un impianto di riscaldamento centralizzato sono suddivise tra:
• i costi di funzionamento dell’impianto, come ad esempio il combustibile e l’energia elettrica;
• i costi di manutenzione ordinaria, come la gestione tecnica dello stesso impianto;
• i costi di manutenzione straordinaria, quando necessari.
La ripartizione delle relative spese può avvenire secondo diverse modalità, purché vengano rispettate le disposizioni previste dal D.Lgs. 102/2014 e dalle successive integrazioni.
Innanzitutto, se il condominio non è dotato di contabilizzatori – ad esempio, poiché la loro installazione non sarebbe stata economicamente vantaggiosa – la ripartizione delle spese di riscaldamento avviene normalmente in base ai millesimi di proprietà. È quanto ha anche ribadito la Corte di Cassazione con la sentenza 10085/2020, data anche l’impossibilità di registrare i singoli consumi.
In presenza di un sistema di contabilizzazione, invece:
• i costi di gestione e manutenzione sono divisi fra tutti i condomini in base ai millesimi di proprietà;
• i costi relativi ai consumi, invece, in base a quanto consumato dal singolo condòmino.
La legge – come nel caso della norma UNI 10200 aggiornata al 2023 – prevede una specifica suddivisione percentuale fra queste due tipologie di spese principali.
La suddivisione 30/70 per la quota fissa e la quota variabile
Per l’effettiva ripartizione delle spese relative al riscaldamento centralizzato, il riferimento è la norma UNI 10200 con l’aggiornamento del 2023, allo scopo di ottenere una suddivisione più equa di questi costi.
In generale, si definisce una quota fissa e una variabile per le spese di riscaldamento, così suddivisa:
• il 30 per cento composto da spese fisse, quali i costi di manutenzione, i controlli periodici, i costi fissi dell’energia necessaria per il sunzionamento dell’impianto;
• il 70 per cento composto da spese di consumo, ovvero basate sui consumi effettivi realizzati dai singoli condòmini, in base ai dati raccolti dai contabilizzatori di calore presenti all’interno di ogni unità immobiliare.
Per fare un esempio di ripartizione delle spese di riscaldamento con il sistema 30 e 70, si ipotizzi che un condominio spenda 10.000 euro all’anno per le sue necessità di riscaldamento. Di questa somma:
• 3mila euro rappresenta la quota di spese fisse, che saranno suddivise tra i millesimi di proprietà;
• 7mila euro, invece, sono relativi ai consumi del condominio, che saranno suddivisi fra i condomini in base a quanto effettivamente registrato – e quindi, consumato – dai contabilizzatori.
Ripartizione delle spese e sentenze della Cassazione
Alla luce della grandissima litigiosità, in ambito condominiale, sui criteri per la ripartizione delle spese per il riscaldamento, la giurisprudenza è stata più volte chiamata ad intervenire sul tema.
Si riportano quindi alcune delle sentenze più significative, pur precisando che la Suprema Corte ha espresso il proprio giudizio sulla base di casi specifici che, di conseguenza, potrebbero trattare situazioni e condizioni non generalizzabili a tutti i condomini.
Il primo riferimento è quello alla sentenza 10085/2020, che sottolinea la suddivisione dei consumi in millesimi solo nei casi in cui i contabilizzatori di calore, o altri sistemi di misurazione effettiva dei consumi, non siano presenti.
La sentenza 18045/2024 è invece relativa al caso di alcuni inquilini che, disponendo di un impianto di riscaldamento autonomo, non ritenevano di dover partecipare alla suddivisione delle spese deliberata dal condominio in sede di assemblea.
In questo caso la Corte di Cassazione ha confermato che, nonostante il condòmino distaccato dall’impianto di riscaldamento centrale sia soggetto ad alcune spese fisse di conservazione e manutenzione ordinaria dell’impianto stesso, le spese per l’uso del riscaldamento non possono essere ripartite in millesimi, bensì solo sui consumi effettivi, in presenza di strumenti di contabilizzazione.
Di conseguenza, e in relazione alla già citata proporzione 30/70, il calcolo in millesimi è applicabile solo alla quota fissa.
Ho consegnato la delega a un condomino per partecipare all’ultima assemblea. L’amministratore non ha inviato il verbale che, per legge, dice di non essere obbligato a spedire. Gli ho richiesto una copia ma rifiuta di consegnarla. Vorrei sapere: 1) se un condomino presente con delega ha modo di sapere con certezza cosa è stato deliberato (tranne quel poco riferito dal delegato); 2) quali documenti si possono richiedere all’amministratore senza sentirsi rispondere che, sempre per legge, lui non è tenuto a farlo?
È vero che non esiste un obbligo preciso, ma tutti coloro che erano presenti (senza differenza tra favorevoli, contrari ed astenuti) possono chiedere copia del verbale (articolo 1129, secondo comma, del Codice civile), mentre hanno un preciso diritto a riceverne copia solamente se è prescritto dal regolamento di condominio.
Tuttavia sarebbe assurdo non inviarlo, dato che solo dal momento della sua ricezione decorrono i 30 giorni per impugnare la delibera: prolungare indefinitamente il termine è controproducente per l’amministratore e per questo potrebbe andare incontro anche ad un’azione di revoca per gravi irregolarità nella gestione.
Ai condòmini assenti (cioè non presenti neppure per delega) il verbale va invece inviato, in genere per pec o raccomandata (sempre per avere la certezza della decorrenza dei 30 giorni).
Per la richiesta di copie dei documenti, la legge prevede un vero e proprio diritto generale di averne accesso, quindi il rifiuto può dare legittimità a un ricorso d’urgenza (articolo 700 del Codice di procedura civile) per ottenerli.
La legge consente al singolo condòmino di scollegarsi dall’impianto di riscaldamento centralizzato, a patto che lo stesso non subisca squilibri e non determini aggravi di spesa.
Nello stesso edificio, quanti condomini effettivamente si possono scollegare dal riscaldamento centralizzato?
La legge non stabilisce una quota massima di residenti che possono decidere di passare al riscaldamento autonomo, ma rimangono valide le prescrizioni già citate:
• non vi devono essere squilibri nel funzionamento dell’impianto centralizzato;
• non vi devono essere danni o aumenti di spesa gravi per gli altri inquilini.
Ovviamente, se molti condòmini si staccano dall’impianto centrale, la probabilità di squilibri o di aumenti di spesa è decisamente elevata per i residenti che decidono di rimanere collegati.
In questo caso, l’assemblea condominiale potrebbe decidere di:
• rivedere lo stesso impianto centralizzato, per valutare interventi di efficientamento energetico, così da ridurre gli aggravi per chi rimane collegato;
• rinunciare al sistema di riscaldamento centralizzato, imponendo il passaggio all’autonomo per tutti i condomini.
Nei fatti, quando un condomino sceglie il riscaldamento autonomo, si rendono necessari:
• interventi sull’impianto centralizzato per chiudere il collegamento al rinunciatario;
• la valutazione del nuovo assetto del riscaldamento centrale, per verificare tutto funzioni secondo quanto atteso;
• la valutazione delle eventuali nuove spese comuni di riscaldamento.
Di norma, se a distaccarsi è un singolo condòmino, non si notano particolari aggravi della spesa altrui: l’impianto dovrebbe rimanere efficiente e non subire specifici contraccolpi.
Se il distacco coinvolge più unità immobiliari, gli squilibri per gli altri condomini potrebbero essere molto evidenti. Ci si ritroverebbe, infatti, con un impianto centralizzato evidentemente sovrastimato rispetto alle effettive necessità di riscaldamento.
In questo caso, quindi, è decisamente consigliato non solo che l’assemblea valuti la possibilità di non consentirne il distacco, ma anche eventuali lavori di efficientamento o, ancora, l’impianto autonomo per tutti.
Dopo tante incertezze e frenate, il mercato dei mutui torna a respirare. Il primo semestre del 2025 ha segnato una svolta decisa per il credito immobiliare in Italia, con una crescita della domanda del +20 per cento rispetto allo stesso periodo del 2024.
A trainare il rilancio, il calo dei tassi d’interesse e una politica monetaria espansiva, che hanno riacceso la fiducia delle famiglie. Ma il vero protagonista è la surroga: ben otto richieste su dieci riguardano il trasferimento del mutuo a condizioni più vantaggiose.
Tassi in discesa, mutui più accessibili
La Banca Centrale Europea ha ridotto i tassi di riferimento di 200 punti base in un anno, portando il tasso sui depositi al 2 per cento. Questo ha avuto un impatto diretto sul costo del denaro, rendendo i mutui più convenienti. Il tasso medio sui nuovi mutui si attesta oggi al 3,12 per cento, in netto calo rispetto al 4,42 per cento di fine 2023. Le offerte più competitive sul mercato propongono tassi fissi anche al 2 per cento, come nel caso del Prontomutuo di Banca Popolare Pugliese.
Surroghe: corsa al tasso fisso
Il Barometro CRIF evidenzia un aumento del 63,2 per cento delle surroghe nel primo trimestre 2025. Le famiglie italiane stanno approfittando del contesto favorevole per passare da mutui a tasso variabile a formule a tasso fisso, più stabili e prevedibili. Secondo Simone Capecchi, Executive Director di CRIF, questa tendenza è un segnale di resilienza: “La diffusione dei mutui a tasso fisso, un indebitamento familiare contenuto e la presenza di riserve di liquidità saranno fattori chiave per contenere eventuali tensioni”.
Chi chiede il mutuo e di quanto
Nel 2025, il profilo di chi richiede un mutuo per l’acquisto di una casa in Italia appare ben delineato. La maggior parte delle domande riguarda importi compresi tra i 100mila e i 300mila euro, a conferma di una fascia di investimento medio che riflette il valore degli immobili nelle principali aree urbane e suburbane.
Sul fronte della durata, il 41,6 per cento dei mutui viene stipulato con piani di rimborso tra i 25 e i 30 anni, mentre oltre il 90 per cento delle richieste prevede comunque una dilazione superiore ai 15 anni. Questo orientamento verso soluzioni a lungo termine evidenzia la volontà delle famiglie di distribuire il peso dell’impegno economico nel tempo, cercando una maggiore sostenibilità mensile.
Dal punto di vista anagrafico, il mercato è dominato dalle fasce più giovani e attive. I richiedenti tra i 25 e i 44 anni rappresentano il 62,9 per cento del totale, seguiti dai 45-54enni con il 22 per cento e dagli over 55, che si fermano al 9,7 per cento. In particolare, gli under 36 mostrano una crescente propensione a richiedere mutui con un loan-to-value superiore all’80 per cento, cioè con una copertura finanziaria molto elevata rispetto al valore dell’immobile. Questo dato suggerisce una difficoltà diffusa nell’accumulare capitale iniziale, ma anche una maggiore fiducia nella possibilità di accedere al credito in condizioni favorevoli.
Nel complesso, il mutuatario tipo del 2025 è giovane, orientato a soluzioni di lungo periodo e spesso alla ricerca di un sostegno finanziario che copra gran parte del valore dell’abitazione. Un profilo che riflette le dinamiche economiche e sociali del momento, tra tassi in calo, stabilità occupazionale e desiderio di investire nel mattone come forma di sicurezza e progettualità.
Le differenze regionali e il ruolo delle banche
Nel panorama del credito immobiliare italiano del 2025, le differenze regionali e il ruolo delle banche si rivelano elementi chiave per comprendere l’evoluzione del mercato e le opportunità per le famiglie.
Partendo dalla geografia del credito, emerge con chiarezza una forte polarizzazione: le grandi città come Milano e Roma dominano il mercato, concentrando da sole oltre il 23 per cento dei mutui attivi a livello nazionale, pari a circa 87 miliardi di euro. Seguono Napoli, Torino, Bologna e Firenze, che insieme rappresentano un ulteriore 12 per cento del totale. Questa concentrazione urbana riflette non solo la densità demografica, ma anche la maggiore dinamicità economica e la stabilità occupazionale di queste aree, che rendono più sostenibile l’impegno di un mutuo.
Al contrario, nelle regioni più periferiche o con economie meno vivaci, il ricorso al credito per l’acquisto casa è più contenuto. Liguria, Molise e Valle d’Aosta, ad esempio, registrano cali significativi nelle erogazioni, mentre regioni come Sardegna, Puglia ed Emilia-Romagna mostrano una crescita percentuale tra le più alte. In Toscana, l’erogato è aumentato del 99,7 per cento nel primo semestre, segno di una forte ripresa del mercato locale. Tuttavia, anche in queste aree più dinamiche, il mutuo non è sempre la prima scelta: in contesti dove il lavoro è più precario o i redditi più bassi, molte famiglie preferiscono rimandare l’acquisto o affidarsi a risorse proprie o familiari.
In sintesi, il mercato dei mutui nel 2025 è in ripresa, ma procede a velocità diverse a seconda del territorio e della capacità delle banche di adattarsi alle nuove esigenze. Le città e le regioni più dinamiche trainano la crescita, mentre le aree più fragili restano indietro. Le banche, pur avendo ampliato l’offerta, devono ancora fare i conti con una trasmissione incompleta dei vantaggi della politica monetaria. Il mutuo torna a essere una leva importante per l’investimento familiare, ma solo se accompagnato da condizioni realmente favorevoli e da una strategia inclusiva che tenga conto delle diversità territoriali e sociali.
Politica monetaria e prospettive future
Dopo otto tagli consecutivi, la BCE ha deciso a luglio di mantenere i tassi invariati, in attesa di valutare l’impatto delle tensioni commerciali con gli Stati Uniti. Tuttavia, gli analisti prevedono un possibile nuovo taglio a settembre, che potrebbe portare il tasso sui depositi fino all’1,5%. Questo scenario alimenta l’ottimismo tra gli operatori del settore, che vedono nel secondo semestre un’opportunità per consolidare la ripresa.
Fisso o variabile? La scelta strategica
Il tasso fisso resta la scelta preferita dagli italiani, con quasi il 90% delle richieste orientate verso questa formula. Tuttavia, il variabile sta riguadagnando terreno grazie a un TAN medio del 2,63%, contro il 3,14% del fisso. Per chi è disposto a tollerare un po’ di rischio, il variabile può garantire risparmi significativi: fino a 23.000 euro su un mutuo ventennale da 180.000 euro.
Un mercato in trasformazione
Il 2025 si conferma come l’anno della rinascita per il mercato dei mutui. La combinazione tra tassi in calo, politiche monetarie favorevoli e una domanda in crescita ha riattivato il circuito del credito immobiliare. Le famiglie tornano a investire nella casa, con maggiore consapevolezza e strumenti più flessibili. E mentre le banche affinano le offerte, il mutuo torna a essere non solo un impegno, ma un alleato per costruire il futuro.