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ARCHIVIO DEL CONDOMINIO

Amministrare condominio: quanto si guadagna svolgendo questa professione?

Il lavoro dell’amministratore condominiale comprende grandi responsabilità e lo svolgimento di numerose mansioni, tutte collegate alla gestione di uno o più condomini. Ma quanto guadagna, in Italia, un amministratore di condominio?
La categoria sostiene di essere pagata poco. Anzi, pochissimo. I condòmini, però, ritengono che le spese per l’amministratore siano eccessive. Chi ha ragione?

Premessa
I guadagni di un amministratore di condominio sono variabili in base al numero degli edifici e delle unità immobiliari gestite. Non esistono tariffari nazionali ma, come previsto dall’articolo 1129 del Codice Civile, l’amministratore è obbligatorio in presenza di più di otto proprietari.
Data la crescente complessità di gestione dei contesti condominiali, sono in costante aumento i condomini che decidono di avvalersi di questa figura professionale, anche nei casi non espressamente obbligatori per legge.
In apparenza, infatti, la vita di condominio può sembrare tranquilla. Ma la stretta vicinanza di diversi nuclei familiari può generare malumori e problematiche comuni tra i condòmini. La figura dell’amministratore di condominio interviene proprio per gestire questi problemi, oltre che per amministrare le finanze condominiali.

Il calcolo base
L’amministratore riceve una quota per ogni unità immobiliare presente nel condominio che amministra. In media, si tratta di circa 50-80 euro l’anno per unità, con tariffe che possono aumentare a seconda della posizione geografica dell’edificio, della sua complessità di gestione, del pregio e di molto altro. In linea generale, per uno stabile condominiale di media grandezza in una grande città, si può arrivare a 80-120 euro l’anno per appartamento, cifra che può superare anche i 300 euro per condomini più lussuosi.
Questo significa che, al mese, un amministratore di condominio percepirà una media tra i 4 e i 10 euro per unità condominiale, con picchi anche di 25 euro per contesti maggiormente pregiati.

Il confronto con gli altri Paesi europei
Sembra che in Italia gli stipendi di un amministratore di condominio siano tra i più bassi di tutta Europa. Ecco alcuni dati forniti dall’Associazione Nazionale Amministratori Condominiali e Immobiliari in merito al guadagno medio di un amministratore italiano rispetto ai suoi colleghi europei, per unità immobiliare al mese:
• Italia 8 euro;
• Francia 15 euro;
• Lussemburgo 16 euro;
• Belgio 17 euro;
• Paesi Bassi 23 euro;
• Germania 25 euro.
Stando alla media nazionale di 8 euro per unità immobiliare e considerando un condominio da 20 unità immobiliari, il compenso mensile di un amministratore sarà quindi di 160 euro per condominio, tasse e oneri vari esclusi.

Il compenso di un amministratore
Per comprendere quanto sia l’effettivo guadagno mensile, bisogna però prendere in considerazione i diversi elementi che determinano il compenso dell’amministratore:
• il numero di condomini gestiti;
• il numero totale di unità immobiliari amministrate;
• l’ubicazione degli stabili condominiali;
• i servizi effettivamente offerti;
• i compensi concordati con l’assemblea condominiale.
In linea generale, i prezzi vengono concordati a partire dal tariffario da amministratore di condominio ANACI, ovvero l’Associazione Nazionale Amministratori Condominiali e Immobiliari. Questo fornisce le linee guida sui compensi medi per questa tipologia di professione. Tuttavia il singolo amministratore può accordarsi per cifre più elevate.
Ipotizzando che il professionista riceva 80 euro l’anno per ogni unità, il costo dell’amministratore di condominio per 6 unità immobiliari sarà di circa 480 euro l’anno, pari a 40 euro mensili.
Poiché difficilmente il singolo professionista gestisce uno stabile solo, si può ipotizzare che un professionista di media esperienza, che si occupa di una ventina di condomini dalle unità immobiliari e dai compensi variabili, possa attestarsi su un guadagno di 3mila euro lordi mensili, che si traducono in uno stipendio netto per l’amministratore di condominio di circa 1.500-1.800 euro mensili.
Si tratta di riferimenti soltantoindicativi perché, come già precisato, molto dipende dalle tariffe concordate, dalla complessità del condominio e dalla zona in cui è situato.
Per questa ragione, la forbice di fatturato può essere molto ampia: dai 20mila agli oltre 60mila euro l’anno.
L’importo può variare in base alle proprie capacità e all’esperienza maturata e, di conseguenza, al numero di condòmini che si riescono a gestire contemporaneamente. La cifra che si può raggiungere dipende infatti dal numero di condòmini che si amministrano, dal numero di appartamenti e dalla complessità della gestione.
Naturalmente, un amministratore di condominio fresco di corso o nei suoi primi 2-3 anni di esperienza lavorativa avrà meno immobili da gestire (potenzialmente solo uno, nel primo anno di attività) e riceverà di conseguenza un compenso inferiore. Nel corso degli anni, però, le cifre possono alzarsi sensibilmente: un amministratore di condominio con oltre 20 anni di esperienza e con più condomini grandi in gestione può guadagnare cifre di molto superiori alla media sopra riportata.

La determinazione dello stipendio dell’amministratore
L’amministratore è tenuto a concordare preventivamente il suo compenso.
Infatti, l’articolo 1129 del Codice Civile impone l’obbligo di presentare un preventivo dettagliato, includendo sia le attività ordinarie sia quelle straordinarie.
Di norma, viene prevista una quota fissa per unità immobiliare e una variabile in base agli incarichi aggiuntivi.
È l’assemblea condominiale che, al momento del rinnovo annuale del contratto con l’amministratore o in caso di nuova nomina, deve analizzare e approvare il preventivo presentato, secondo le maggioranze previste dall’articolo 1136 del Codice Civile.
Il compenso concordato può essere modificato in itinere, ad esempio quando emergono nuove esigenze del condominio o nel caso si rendesse necessario assegnare ulteriori incarichi.
L’onorario di un amministratore di condominio deve coprire le spese sostenute da questo professionista per svolgere le sue mansioni. La normativa di riferimento si trova in diversi articoli del Codice Civile. Ad esempio nell’Art. 1129 “Nomina, revoca ed obblighi dell’amministratore”, nell’Art. 1130 “Attribuzioni dell’amministratore”, nell’Art. 1131 “Rappresentanza” e infine nell’Art. 1133 “Provvedimenti presi dall’amministratore”.

La corresponsione del compenso
L’amministratore ha diritto di prelevare il proprio compenso dal conto corrente condominiale, rilasciando fattura.
Naturalmente, il corrispettivo prelevato deve essere quello approvato dall’assemblea in sede di nomina o rinnovo.
Il compenso dell’amministratore è suddiviso tra i condòmini in base ai millesimi e il suo corrispettivo deve essere corrisposto:
• da tutti i condomini,
• dal locatore (proprietario dell’immobile) e non dal conduttore.
Il pagamento dell’amministratore avviene annualmente, al termine del mandato. Nel caso di revoca, durante il mandato, egli matura il diritto al compenso per l’attività sino ad allora svolta. Nell’ipotesi di revoca senza giusta causa, ha diritto ad ottenere integralmente il compenso.

Le possibilità di carriera degli amministratori
In genere, la carriera di un amministratore di condominio inizia con la gestione di un singolo stabile, per poi passare nel corso degli anni all’acquisizione e alla gestione di più immobili.
Di solito l’acquisizione avviene tramite canali commerciali tradizionali (come brochure, biglietti da visita e volantini), canali commerciali online (come un sito web o l’iscrizione a liste online) o tramite il classico passaparola. Ecco perché in questa professione le abilità personali, che in genere consentono di crearsi una buona reputazione, sono molto importanti.

Da liberi professionisti a imprenditori
A condomini più grandi e articolati corrispondono in genere maggiori responsabilità: un amministratore di condominio alle prese con la gestione di un immobile molto popoloso, magari composto da più palazzine con impianti distinti, dovrà infatti trascorrere molto tempo amministrando le finanze condominiali e contattando i fornitori per risolvere le problematiche emerse con gli impianti e le parti comuni.
Per questo motivo, spesso gli amministratori di condominio non lavorano da soli, ma assumono uno o più collaboratori; questi possono svolgere mansioni di segretariato o mansioni più tecniche, come piccole manutenzioni o consulenze sui grossi lavori da effettuare nei vari stabili.
Se l’attività si ingrandisce ulteriormente, sarà possibile diventare veri e propri imprenditori nel settore immobiliare: esistono infatti studi associati che riuniscono più amministratori di condominio, oppure studi creati da un singolo amministratore che si avvale di una folta schiera di collaboratori. In questo caso, il guadagno dipenderà non solo dal numero di immobili gestiti dallo studio, ma anche dalle abilità imprenditoriali del suo fondatore.

I compiti di un amministratore
I compiti di un amministratore di condominio comprendono le seguenti attività:
• Rappresentanza legale e processuale del condominio;
• Gestione ordinaria del condominio;
• Convocazione delle assemblee periodiche;
• Adempimento degli obblighi fiscali;
• Gestione dei registri condominiali;
• Garanzia dell’osservanza del regolamento condominiale;
• Sollecito dei pagamenti dei condòmini morosi;
• Gestione straordinaria.

Gestione ordinaria e gestione straordinaria
L’importo preventivato dall’amministratore per la gestione ordinaria annuale deve basarsi sul tempo dedicato a svolgere le funzioni sopra elencate, nonché su tutti i costi sostenuti (come i costi degli stipendi di eventuali collaboratori, il costo dell’affitto dello studio e delle relative utenze o i costi di software e altri strumenti tecnologici).
Per coprire almeno in parte le spese vive, alcuni amministratori chiedono al condominio un rimborso per le spese di cancelleria o altre spese amministrative.
L’importo annuale richiesto dall’amministratore di condominio per la gestione ordinaria deve essere accettato dai condòmini durante l’assemblea ordinaria annuale e deve essere specificato nel bilancio preventivo del condominio, unitamente alla stima di eventuali rimborsi spese. Non tutte le spese sostenute dall’amministratore nel suo lavoro quotidiano sono addebitabili al condominio, che può sempre vigilare sulle spese esposte dall’amministratore ed eventualmente contestarle.
Un discorso a parte va fatto per i lavori straordinari che, come dice il nome stesso, esulano dalle spese fisse annuali e comportano un aumento del carico di lavoro per l’amministratore di condominio. In questo caso, durante l’assemblea straordinaria per l’approvazione della spesa aggiuntiva, l’amministratore può chiedere al condominio un onorario extra (in genere calcolato come una piccola percentuale che si aggira di solito intorno al 2-3% dell’importo complessivo dei lavori straordinari).

Quante ore lavora un amministratore di condominio
Questa professione non è regolata da orari rigidi, di conseguenza il tempo dedicato alla gestione dei condomini dipenderà dalla complessità degli stessi, dagli incarichi concordati con l’assemblea condominiale e molto altro ancora.
A scopo esemplificativo, si può ipotizzare che il tempo necessario per le attività tipiche dell’amministratore all’incirca sia:
• di 10-15 ore settimanali per condomini piccoli, fino a 10 unità immobiliari;
• di 20-30 ore settimanali per condomini medi, fino a 30 unità immobiliari;
• oltre 40 ore per condomini grandi, dal numero di unità immobiliari particolarmente grande.
A queste tempistiche, dovranno essere aggiunte anche le eventuali ore aggiuntive per imprevisti, emergenze e altre questioni che richiedono l’improvvisa presenza dell’amministratore.
In ogni caso, le fasce temporali indicate hanno valore solamente generico poiché, come più volte ribadito, quella dell’amministratore è una professione versatile e flessibile, che non può essere riassunta all’interno di orari lavorativi standard.

Come diventare amministratore di condominio
Per svolgere questo lavoro non occorre conseguire alcuna laurea, ma è necessario essere in possesso di alcuni requisiti, quali:
• l’ottenimento del diploma di scuola superiore secondaria;
• l’essere in possesso di tutti i diritti civili;
• non aver commesso reati contro la pubblica amministrazione, l’amministrazione della giustizia, la fede pubblica o il patrimonio;
• non aver subito pene detentive tra 2 e 5 anni per reati non colposi;
• non essere interdetti, inabilitati o protestati.
Inoltre, è fondamentale superare un apposito corso di formazione.
L’accesso alla professione è infatti regolamentato dalle disposizioni presenti nell’articolo 71 del Regio Decreto 318/48, poi aggiornato dalla Legge 220/2012, nota anche come Riforma del Condominio.
Questi corsi in genere sono erogati da enti privati e sono a pagamento. Al termine del corso si ottiene un attestato che permette di inserire il proprio nome nelle liste degli amministratori di condominio disponibili e iniziare a candidarsi per la gestione di una o più palazzine.
A supporto della propria attività ci si potrà iscrivere anche a un’associazione di categoria. Queste chiedono in genere una quota associativa di poche centinaia di euro all’anno, a fronte di aggiornamenti costanti sulle normative e sulle buone prassi del settore. La frequenza di corsi di aggiornamento professionale costituisce infatti un obbligo ai sensi del Codice Civile.
Una volta in possesso dei requisiti previsti, il professionista può avviare la sua professione, ad esempio in regime di Partita IVA, con codice ATECO 68.32.00.
Infine, per gestire le finanze di un condominio occorre dotarsi di un apposito software gestionale. Ne esistono di diversi, ma i software più sofisticati e completi costano alcune centinaia di euro.
Si precisa che il titolo di studio non è necessario per coloro che risiedono nello stesso stabile condominiale e hanno condotto per almeno un anno, nei tre precedenti all’entrata in vigore della Riforma del Condominio, l’attività in carica da amministratori.

Iva sulle fatture condominiali e detrazione delle spese

In un condominio di 15 unità, alcune abitative e altre commerciali, è stato affermato che l’IVA pagata sulle fatture addebitate non è detraibile per il condominio e quindi viene ri-addebitata ai singoli condòmini. Si tratta non solo delle classiche spese (compenso amministratore, pulizie condominiali e fornitura di energia elettrica), ma anche dei lavori di ristrutturazione dei muri perimetrali, le cui spese non possono usufruire dei bonus edilizi.

I lavori relativi alle parti comuni dell’edificio devono essere fatturati al condominio, in quanto quest’ultimo è il consumatore finale dei servizi fatturati. Per essere più chiari, l’imposta di cui alle fatture in possesso dell’amministratore addebitata dai vari fornitori al condominio non costituisce, per un condòmino soggetto passivo d’imposta, titolo idoneo alla relativa detrazione.
Quanto alle spese di ristrutturazione che riguardano le parti comuni di edifici condominiali, come osservato dal Fisco, spettano le seguenti detrazioni:
• 50 per cento delle spese sostenute (bonifici effettuati dall’amministratore) fino al 31 dicembre 2024 con un limite massimo di spesa di 96mila euro per ciascuna unità immobiliare;
• 36 per cento con il limite massimo di spesa di 48mila euro per unità immobiliare, delle somme pagate dal 1° gennaio 2025.

‘Piano Casa Italia’, le reazioni

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Contro il disagio abitativo arriva il ‘Piano Casa Italia’

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Per 10 milioni di famiglie la casa di proprietà resta un sogno irraggiungibile

cedolare secca casa

L’appuntamento annuale con Osservatorio congiunturale dell’Associazione nazionale costruttori edili ha scattato una fotografia del comparto con un focus sulla casa, che molte famiglie non solo non riescono a comprare, ma neppure ad affittare.

L’accesso alla casa
Il sogno della casa di proprietà sta diventando sempre più irraggiungibile per 10 milioni di famiglie italiane, specialmente nelle grandi città. Un sogno proibito, dunque. Inaccessibile come lo è il lusso più sfrenato, per chi in tasca non dispone di fortune.
Ma non è solo l’acquisto di un immobile ad essere diventato un miraggio. Anche sostenere i costi per l’affitto è un problema per tantissime famiglie.
Il vero nodo critico emerge dall’analisi dell’indice di accessibilità elaborato dal Centro Studi dell’ANCE, che misura quanto pesano le rate del mutuo sul reddito familiare. I risultati non sono dei più rosei: per le famiglie meno abbienti, l’acquisto di una casa richiede in media il 38,8% del reddito disponibile, ben oltre la soglia di sostenibilità del 30%. La situazione diventa drammatica nelle grandi città: a Milano l’indice raggiunge l’82,9%, mentre a Roma e Firenze si attesta intorno al 61%.
L’alternativa dell’affitto non offre prospettive migliori. Le famiglie meno abbienti devono destinare in media il 36,1% del proprio reddito al canone di locazione nei capoluoghi, con picchi del 70% a Milano e del 60% a Roma e Firenze. La situazione è ulteriormente aggravata dall’esplosione degli affitti brevi, che ha reso proibitive le locazioni tradizionali nelle grandi città: a Milano si arriva a dover destinare il 46% del reddito all’affitto, mentre a Roma e Firenze le percentuali oscillano intorno al 40%.
Questo scenario si inserisce in un contesto demografico in evoluzione: mentre i grandi centri urbani mantengono o aumentano leggermente la popolazione (58.971.230 residenti totali a fine 2023), si assiste a un progressivo spopolamento dei comuni più piccoli, specialmente nelle aree interne. Il 57,8% dei comuni italiani ha perso popolazione nel 2023, con un impatto particolare sui centri fino a 5mila abitanti.
Secondo i numeri raccolti dall’Ance, dunque, non è solo un problema per i nuclei più fragili, ma anche per quelli il cui reddito è troppo alto per rientrare nei requisiti delle case popolari ma è troppo basso per soddisfare i prezzi del mercato libero.

Le proposte di Ance e Confindustria
La presidenza dell’Ance ha illustrato il documento di proposte redatto con Confindustria per individuare soluzioni abitative per i lavoratori e le famiglie italiane. Come evidenziato dalla presidente di Ance, Francesca Brancaccio: “Se vogliamo un Paese socialmente coeso, sano, inclusivo, dobbiamo affrontare e risolvere il problema dell’accesso alla casa”.
Le proposte si basano su tre pilastri: misure fiscali, semplificazioni urbanistiche e amministrative e lo sviluppo di strumenti fiscali che possano rendere possibile la partecipazione all’investimento dei privati.
Il vicepresidente Ance, Pietro Petrucco: “Molti Paesi stanno adottando piani nazionali mirati per affrontare la crisi abitativa e garantire soluzioni adeguate alle esigenze della popolazione. Siamo consapevoli, in un contesto di vincoli di bilancio, che le risorse pubbliche non saranno sufficienti a soddisfare tutti i fabbisogni. Per questo non abbiamo altra strada se non quella di coinvolgere i privati. Purtroppo, le modifiche recentemente introdotte alla disciplina del PPP nel Correttivo al Codice dei contratti non vanno nella direzione di favorire l’iniziativa privata”.

Un nodo europeo
Se l’Italia piange, l’Europa non ride, dice Ance che da sempre mantiene un occhio rivolto alle dinamiche in atto nel Vecchio Continente.
E se da un lato i Paesi dell’Unione presentano mercati immobiliari molto diversi l’uno dall’altro la crisi morde un po’ tutti e la questione dell’emergenza abitativa inizia a scalpitare anche sulla scena politica europea.
Non a caso, dicono in Ance, è arrivata la nomina a Commissario per l’energia e l’edilizia abitativa di Dan Jørgensen che secondo i costruttori rappresenta un’assunzione di responsabilità chiara della Commissione europea.
A chiudere il cerchio c’è poi l’incarico alla Bei di offrire gli strumenti finanziari per piani di offerta abitativa a canoni accessibili.
Le grandi manovre sulla casa nella Ue sono iniziate con un messaggio chiaro: senza un tetto, soprattutto sulla testa dei giovani, niente sviluppo.

Locazioni brevi: la scelta tra cedolare secca e regime ordinario

Sono proprietario di tre appartamenti che vorrei utilizzare per la locazione breve, mediante il loro inserimento su un sito dedicato. L’intermediario mi ha comunicato che all’atto del pagamento applicherà una ritenuta del 21 per cento. Posso avere precisazioni in merito?

I redditi che derivano dalla stipula di contratti di locazione breve possono essere assoggettati a due diverse modalità di tassazione: la tassazione ordinaria e la cedolare secca.

La scelta tra regime ordinario e cedolare secca va fatta tenendo conto di diversi fattori, tra cui la presenza di altri redditi che fanno aumentare il reddito complessivo. Di conseguenza, l’applicazione di un’aliquota d’imposta più elevata e la presenza di oneri detraibili e deducibili che, per loro natura, possono essere portati in deduzione dell’Irpef e non dalle imposte sostitutive (quindi, nemmeno dalla cedolare secca).

Ad esempio, il contribuente che non ha altri redditi oltre quelli derivanti dalle locazioni brevi e che magari ha effettuato degli interventi che danno diritto ad una detrazione, ha convenienza ad applicare il regime ordinario perché, altrimenti, perderebbe le detrazioni spettanti.

Quindi, nel caso descritto, se il contribuente optasse per il regime di cedolare secca, su un immobile (a scelta del contribuente stesso) applicherebbe l’aliquota del 21% mentre sul secondo e sul terzo applicherebbe quella del 26%.

I contratti di locazione breve possono essere conclusi direttamente oppure tramite intermediari, che possono essere anche soggetti che gestiscono portali telematici.

In quest’ultimo caso, se gli intermediari intervengono all’atto del pagamento, devono operare una ritenuta sul corrispettivo incassato. La ritenuta è applicata in misura pari al 21% sull’importo del corrispettivo lordo indicato nel contratto di locazione breve, mentre non devono essere assoggettati a ritenuta eventuali penali o caparre o depositi cauzionali, in quanto si tratta di somme di denaro diverse ed ulteriori rispetto al corrispettivo.

La ritenuta è applicata a titolo di acconto. Questo significa che il contribuente deve poi indicare i dati nel modello di dichiarazione dei redditi e versare l’eventuale differenza di imposta.

La ritenuta, quindi, è applicata indipendentemente dal regime scelto e rappresenta sempre un importo già versato a titolo di imposte.

Pertanto, laddove il contribuente dovesse applicare il regime ordinario, l’importo della ritenuta subita sarebbe riconosciuto in riduzione dell’Irpef da versare sui canoni di locazione.

Il massimale per la ristrutturazione della propria abitazione e dei balconi condominiali

Sto ristrutturando il mio appartamento. Contemporaneamente il condominio ha avviato il rifacimento dei balconi delle varie unità immobiliari: queste spese rientrano negli stessi massimali di detrazione o devono essere inserite in un capitolo a parte?

Le detrazioni sui lavori che il condominio ha deciso di effettuare sui balconi devono essere considerate separatamente rispetto a quelle applicate alla ristrutturazione della singola unità immobiliare.
Quindi, il limite di spesa si applica a ogni singolo intervento e non alla totalità delle spese sostenute per i lavori condominiali e per quelli sull’appartamento.
A precisarlo è la Circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 7/2017: “Le spese relative ai lavori sulle parti comuni dell’edificio, essendo oggetto di un’autonoma previsione agevolativa, devono essere considerate in modo autonomo ai fini della individuazione del limite di spesa detraibile. Pertanto, nel caso in cui vengano effettuati, dal medesimo contribuente, anche nello stesso edificio, sia lavori condominiali che lavori sul proprio appartamento la detrazione spetta nei limiti di spesa applicabili disgiuntamente per ciascun intervento”.
Nel caso descritto, è possibile detrarre il 50 per cento fino a un massimo di 96mila euro di spesa sostenuta per la ristrutturazione sull’unità immobiliare.
Analoga percentuale, sempre su un tetto di spesa di 96mila euro riferito alla quota attribuita dal condominio, si può detrarre ai lavori sui balconi decisi dall’assemblea.

Condominio e Superbonus con sconto in fattura: ancora possibile, ma solo a determinate condizioni

Il condominio può continuare a esercitare l’opzione per lo sconto in fattura ai sensi dell’articolo 121 del decreto Rilancio per ulteriori interventi che danno diritto al Superbonus, se alla data del 30 marzo 2024, ha pagato almeno in parte i lavori edili effettuati. La locuzione “lavori già effettuati” si riferisce esclusivamente a interventi edilizi, escludendo spese professionali, oneri di urbanizzazione e altre spese preparatorie.

È la conclusione raggiunta dall’Agenzia delle entrate nella risposta n. 26 del 12 febbraio 2025, con la quale ha fornito un chiarimento sull’applicazione delle deroga al generale divieto all’esercizio delle opzioni per la fruizione con modalità alternative alla detrazione (sconto in fattura o cessione del credito corrispondente alle detrazioni) operato dal Dl n. 11/2023 (“decreto Cessioni”) come rivisto dal più recente Dl n. 39/2024 emanato lo scorso anno.

Nel caso specifico, il condominio ha deciso, tramite un’assemblea straordinaria tenutasi nel 2022, di effettuare lavori per i quali intende usufruire delle detrazioni del Superbonus, affidando gli interventi a un general contractor interessato ad applicare lo sconto in fattura. Dopo aver presentato la Cilas il 25 novembre 2022, il condominio ha dovuto cambiare il general contractor e ha fissato l’inizio dei lavori per il 6 novembre 2023. Inoltre, il condominio intende utilizzare il Superbonus con una detrazione del 70% per le spese del 2024, rientrando nelle deroghe previste dal decreto Cessioni.

Il condominio chiede se può continuare a utilizzare lo sconto in fattura anche dopo l’entrata in vigore del decreto-legge n. 39/2024, nonostante non ci siano fatture dirette tra il general contractor e il condominio al 30 marzo 2024.

Il Dl n. 39/2024, osserva l’Agenzia, ha introdotto significative modifiche riguardanti l’esercizio delle opzioni per lo sconto in fattura e la cessione del credito d’imposta, regolate dall’articolo 121 del Dl n. 34/2020 (il decreto Rilancio). Queste modifiche si inseriscono in un contesto normativo già complesso, che ha visto l’introduzione di divieti e deroghe nel corso degli ultimi anni.

Il decreto Cessioni ha stabilito, a partire dal 17 febbraio 2023, un divieto all’esercizio delle opzioni alternative alla detrazione, come lo sconto in fattura o la cessione del credito. Tuttavia, i commi successivi hanno previsto specifiche deroghe a tale divieto, applicabili solo al verificarsi di determinate condizioni. Nel dettaglio, al comma 2, ha previsto che il divieto non si applica per le spese sostenute per interventi che beneficiano del Superbonus e per altre detrazioni specifiche. Inoltre, ha stabilito che il divieto non opera se, prima del 17 febbraio 2023, è stata adottata una delibera assembleare da parte dei condomini e presentata la comunicazione di inizio lavori asseverata (Cila).

L’articolo 1 del decreto-legge n. 39/2024 ha ulteriormente rimodulato l’ambito di applicazione delle deroghe previste dal decreto Cessioni. In particolare, al comma 5 stabilisce che le disposizioni di cui all’articolo 2, commi 2 e 3, non si applicano agli interventi per i quali, alla data di entrata in vigore del decreto, non è stata sostenuta alcuna spesa documentata da fattura per lavori già effettuati.

Tale modifica ha l’obiettivo di garantire che solo coloro i quali hanno effettivamente sostenuto spese documentate per lavori già effettuati possano continuare a esercitare le opzioni di sconto in fattura o cessione del credito.
Le deroghe al divieto di esercizio delle opzioni continuano a operare solo se, entro il 30 marzo 2024, sono stati effettuati lavori e sono state sostenute le relative spese.

Inoltre, l’Agenzia ricorda che, nell’ipotesi di pagamento tramite bonifico, secondo la risposta n. 137/2024, la spesa si considera sostenuta nel momento in cui viene dato l’ordine di pagamento alla banca. Pertanto, non è rilevante il momento in cui avviene l’effettivo addebito sul conto corrente del committente.

Per quanto riguarda i lavori già effettuati e le tempistiche, invece, precisa che per esercitare l’opzione di sconto in fattura, è necessario che il pagamento avvenga entro il 30 marzo 2024 e si riferisca a “lavori già effettuati”. Questa condizione soddisfa il requisito per le spese sostenute successivamente a tale data riguardanti gli interventi indicati nella Cilas, o nel titolo abilitativo richiesto.

La condizione di “lavori già effettuati” è soddisfatta se il pagamento, documentato da fattura, è effettuato entro il 30 marzo 2024 e si riferisce alla realizzazione, anche parziale, dei lavori. Inoltre, è possibile che la spesa sia sostenuta da un soggetto diverso dal committente finale, purché documentata adeguatamente. Ne consegue che l’opzione per lo sconto in fattura o per la cessione del credito può essere esercitata anche dal committente che si avvale di un appaltatore (ad esempio, di un contraente generale) il quale, nonostante abbia pagato alla data del 30 marzo 2024 ai subappaltatori una parte dei lavori effettuati, non abbia entro tale data emesso fattura nei confronti del committente in relazione ai medesimi lavori. Anche in tale ipotesi, precisa l’Agenzia, i pagamenti devono riferirsi a “lavori già effettuati”.

Quando più interventi sono compresi nello stesso titolo abilitativo, la condizione è soddisfatta se le spese pagate si riferiscono anche a solo uno degli interventi. Resta fondamentale che il legame tra il pagamento e il committente, beneficiario finale dell’agevolazione, sia debitamente documentato.

Amministratore di condominio e gestione dell’acqua

L’amministratore di condominio dello stabile in cui sono proprietario di un appartamento minaccia di chiudere l’acqua per un difetto di costruzione dell’impianto (le acque scure confluiscono nelle acque chiare). L’impianto è attivo da decenni. Rientra tra le sue facoltà poter togliere l’acqua ai condomini?

Il decreto legislativo 18/2023 afferma che il gestore della distribuzione idrica interna è l’amministratore di condominio, responsabile del sistema idro-potabile collocato fra il punto di consegna e il punto d’uso dell’acqua (del tratto precedente è responsabile il fornitore).
Perciò l’amministratore deve effettuare una valutazione e gestione del rischio dei sistemi di distribuzione idrica interni e deve adottare le necessarie misure preventive e correttive, proporzionate al rischio, per ripristinare la qualità delle acque (pena la sanzione da 5mila a 30mila euro).
Quindi, se il rischio è certificato dalle analisi, deve chiudere l’impianto per il tempo necessario all’intervento di ripristino.

Dal 2025 stop agli incentivi per le caldaie a gas

A partire dal 2025 non sarà più possibile beneficiare di incentivi per l’acquisto e l’installazione di caldaie a gas, che dal 2040 saranno definitivamente messe al bando.
È una delle principali novità introdotte dalla Direttiva Ue “Case Green”, che in proposito ha tracciato una precisa roadmap: dal 2025 stop agli incentivi, dal 2040 stop alla produzione e alla vendita delle caldaie alimentate a combustibile fossile.
Nel corso dell’iter di approvazione della Legge di Bilancio è stato ratificato l’emendamento che stralcia le caldaie a combustibili fossili dall’elenco delle spese detraibili nell’ambito dei lavori edilizi e di riqualificazione energetica.
L’acquisto e l’installazione di “impianti di climatizzazione invernale con caldaie uniche alimentate a combustibili fossili”, pertanto, non potranno essere agevolati né con il Bonus Ristrutturazione né con l’Ecobonus a partire dal 1° gennaio 2025.
Una delle più severe indicazioni della Direttiva Ue Case Green è stata dunque recepita e inserita dalla Legge di Bilancio 2025, evitando così il rischio di incorrere in una probabile procedura di infrazione.
Nel testo della Direttiva si legge che due terzi dell’energia consumata per riscaldare e raffrescare gli edifici provengono ancora da combustibili fossili. Una delle leve sui cui gli Stati dovranno agire per raggiungere i traguardi ambiziosi della decarbonizzazione del riscaldamento e del raffrescamento degli edifici è l’elettrificazione dei consumi grazie all’energia da fonti rinnovabili, attraverso l’installazione di pompe di calore, impianti solari, batterie e infrastrutture di ricarica al posto delle caldaie alimentate a combustibili fossili.
Con una comunicazione dello scorso 18 ottobre 2024 la Commissione Europea ha fornito importanti chiarimenti per la corretta interpretazione dell’articolo 17 sul bando delle caldaie a gas, lasciando spazio a significative deroghe su impianti ibridi e spese non legate all’installazione.

Le linee guida della Commissione Europea
Con la comunicazione dello scorso 18 ottobre 2024 (C/2024/6206), la Commissione Europea ha fornito chiarimenti per la corretta interpretazione dell’articolo 17 della Direttiva Ue Case Green in relazione all’eliminazione graduale degli incentivi finanziari alle caldaie uniche alimentate a combustibili fossili, a norma della direttiva sulla prestazione energetica nell’edilizia.
Dal 1° gennaio 2025 gli Stati membri non offrono più incentivi finanziari per l’installazione di caldaie uniche alimentate a combustibili fossili, ad eccezione di quelle selezionate per gli investimenti prima del 2025.
Innanzitutto, si precisa che l’articolo 17, paragrafo 15, si applica all’installazione di caldaie uniche alimentate a combustibili fossili, ovverosia all’acquisto, all’assemblaggio e alla messa in funzione di una caldaia:
• che brucia combustibili fossili, ossia fonti energetiche non rinnovabili a base di carbonio, quali combustibili solidi, gas naturale e petrolio;
• unica, ossia non combinata con un altro generatore di calore che utilizza energia da fonti rinnovabili e che produce una quota considerevole dell’energia totale in uscita dal sistema combinato. Il fatto che l’installazione di una caldaia unica alimentata a combustibili fossili avvenga ad esempio nel quadro di una ristrutturazione profonda o integrata è irrilevante in questo contesto.
Sulla base di queste premesse:
• una caldaia a gas può essere considerata “alimentata a combustibili fossili” in funzione del mix di combustibili nella rete del gas al momento dell’installazione. Di norma, quando la rete locale del gas trasporta prevalentemente gas naturale, l’installazione di caldaie a gas non dovrebbe ricevere incentivi finanziari; può invece beneficiare di incentivi a norma dell’articolo 17, paragrafo 15, se la rete locale del gas trasporta prevalentemente combustibili rinnovabili. Spetta alle autorità competenti degli Stati membri garantire l’esistenza di uno strumento di verifica in grado di controllare questo aspetto al momento dell’installazione;
• affinché una caldaia non collegata alla rete non sia considerata “alimentata a combustibili fossili”, le autorità competenti dello Stato membro devono esigere e verificare in modo solido e credibile che l’unità funzionerà effettivamente utilizzando combustibili rinnovabili sia al momento dell’installazione che per il resto della sua vita utile, dato che il beneficiario mantiene il controllo del combustibile utilizzato durante l’intera vita utile di una caldaia non collegata alla rete. Questa verifica può essere effettuata nel quadro delle ispezioni periodiche in loco degli impianti di riscaldamento o di ispezioni di altro tipo riguardanti gli impianti di riscaldamento negli Stati membri;
• gli incentivi finanziari sono ammessi solo per gli impianti di riscaldamento ibridi con una quota considerevole di energie rinnovabili, e soltanto in misura proporzionale all’uso di energie rinnovabili in tali impianti; di conseguenza l’installazione di un impianto di riscaldamento basato al 100 per cento su energie rinnovabili dovrebbe essere incentivata maggiormente rispetto all’installazione di un impianto di riscaldamento ibrido.
Spetta agli Stati dare una definizione di “impianti di riscaldamento ibridi con una quota considerevole di energie rinnovabili” e di “quota di energie rinnovabili considerevole negli impianti di riscaldamento ibridi”, garantendo che la parte dell’impianto ibrido che utilizza energie rinnovabili, ad esempio un impianto solare termico o una pompa di calore, fornisca una quota considerevole dell’energia prodotta (ossia il fabbisogno di riscaldamento dell’edificio).
Tale valutazione dovrà essere effettuata dall’autorità competente e dipenderà dalle circostanze. L’ibridazione potrebbe essere aggiunta in loco in un secondo momento, nel qual caso il finanziamento servirà soltanto per gli elementi relativi al generatore di calore aggiuntivo ad energia rinnovabile e/o per i comandi specifici utilizzati per gestire il funzionamento congiunto delle diverse tecnologie. Diverso è il caso degli impianti di riscaldamento concepiti e immessi sul mercato come ibridi: l’incentivo finanziario può coprire l’intero prodotto, ma dovrebbe essere proporzionato alla quota di energie rinnovabili utilizzata dall’impianto ibrido.

Gli incentivi ammessi per i sistemi di riscaldamento
La Commissione Europea ha fornito gli esempi di incentivi finanziari che non rientrano nell’ambito di applicazione dell’articolo 17 e che sono ancora ammessi.
• Impianti di riscaldamento ibridi con una quota considerevole di energie rinnovabili. Potrebbero essere ancora agevolati, ad esempio, la combinazione di una caldaia con un impianto solare termico o con una pompa di calore); come detto sopra questi incentivi finanziari di questo tipo dovrebbero essere proporzionati all’uso di energie rinnovabili nell’impianto di riscaldamento ibrido.
• Eventuali costi aggiuntivi connessi alla transizione verso l’uso di gas rinnovabili in una caldaia. Tali costi possono essere connessi all’ammodernamento dell’impianto di distribuzione all’interno dell’abitazione, al punto di connessione, all’ibridazione in loco o a investimenti aggiuntivi in adeguamenti tecnici per permettere l’uso di energia rinnovabile nella caldaia, ad esempio investimenti aggiuntivi nelle parti dell’impianto di riscaldamento che consentono l’uso di energia rinnovabile al 100 per cento.
• Incentivi non correlati all’installazione. Eventuali incentivi relativi ad attività diverse dall’installazione – come la manutenzione, la riparazione o lo smantellamento di caldaie a combustibile fossile, ad esempio attraverso premi di rottamazione – non sono soggetti alla disposizione concernente l’eliminazione graduale dei finanziamenti. Incentivi simili possono essere utili a prevenire sostituzioni di emergenza a seguito di un guasto e a incoraggiare la riparazione o la sostituzione di un determinato elemento. Possono contemplare ad esempio la locazione temporanea di caldaie ai consumatori di energia nelle zone che sono o saranno servite da teleriscaldamento e teleraffrescamento.
• Incentivi finanziari a favore dell’installazione, negli edifici, di sistemi di automazione e controllo degli impianti di riscaldamento alimentati da caldaie uniche a combustibile fossile
• Misure volte ad affrontare la questione dell’accessibilità economica dell’energia
Anziché incentivare economicamente la sostituzione delle caldaie a combustibili fossili con nuove caldaie dello stesso tipo, gli Stati membri dovrebbero sostenere la riparazione di quelle esistenti e/o prevedere soluzioni temporanee di riscaldamento (ad esempio la locazione finanziaria delle caldaie) associate a livelli più elevati di sostegno alle famiglie vulnerabili per impianti di riscaldamento diversi dalle caldaie uniche alimentate a combustibili fossili (quali gli impianti di riscaldamento basati su energie rinnovabili o gli impianti ibridi con una quota considerevole di energie rinnovabili).
• Incentivi non correlati alle caldaie
Gli apparecchi che non rispondono alla definizione di caldaie, quali stufe o apparecchi di microcogenerazione, non sono interessati dall’eliminazione graduale degli incentivi finanziari a favore delle caldaie uniche alimentate a combustibili fossili.
• Erogazione di incentivi concessi e comunicati al beneficiario prima del 10 gennaio 2025. Qualora un ente pubblico abbia preso la decisione di fornire un incentivo finanziario e l’abbia comunicata al beneficiario prima del 1o gennaio 2025, sono state create legittime aspettative prima di tale data e l’erogazione effettiva dell’incentivo finanziario può aver luogo dopo tale data.

Il regolamento sull’etichettatura energetica
In tale contesto, è importante sottolineare che, sebbene l’articolo 17, paragrafo 15, non vieti gli incentivi finanziari per l’installazione di caldaie uniche alimentate a combustibili rinnovabili, questi potrebbero essere preclusi dall’articolo 7, paragrafo 2, del regolamento sull’etichettatura energetica (Regolamento (UE) 2017/1369).
Tale disposizione impone che gli eventuali incentivi previsti dagli Stati membri puntino alle due classi di efficienza energetica più elevate tra quelle in cui si situa una percentuale significativa dei prodotti o alle classi più elevate indicate negli atti delegati dell’UE sull’etichettatura energetica dei prodotti in questione.
Nel caso degli apparecchi per il riscaldamento d’ambiente aventi capacità fino a 70 kW soggetti all’etichettatura energetica, ciò significa che gli Stati membri possono incentivare solo quelli che rientrano nelle due classi di efficienza energetica più elevate tra quelle in cui si situa una percentuale significativa dei prodotti.
Stando ai dati attualmente disponibili, le caldaie uniche non rientrano in queste due classi e non possono dunque essere incentivate, indipendentemente dal fatto che siano alimentate a combustibili fossili o rinnovabili.
Possono invece essere incentivate le caldaie ibride e le pompe di calore, più efficienti, che rientrano quindi nelle due classi di efficienza energetica più elevate tra quelle in cui si situa una percentuale significativa dei prodotti in questione.

Eccezioni
L’articolo 17 della direttiva EPBD presenta delle eccezioni al divieto di incentivi finanziari per l’installazione di caldaie uniche alimentate a combustibili fossili dopo il 1° gennaio 2025 qualora sussistano contemporaneamente due condizioni:
– 1 – sono finanziati a titolo:
• del dispositivo per la ripresa e la resilienza;
• del Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR) e del Fondo di coesione, unicamente nei casi in cui si applica l’articolo 7, paragrafo 1, lettera h), punto i), terzo trattino, del regolamento (UE) 2021/1058(26). Tale disposizione consente di investire in caldaie e impianti di riscaldamento alimentati a gas naturale che sostituiscono impianti a carbone, torba, lignite o scisto bituminoso in alloggi ed edifici;
– 2 – sono stati selezionati per gli investimenti prima del 2025, se rientrano all’interno dei programmi nazionali o regionali adottati prima del nuovo anno.

Caldaie a gas: stop all’installazione dal 2040
A differenza delle previsioni iniziali della Direttiva, che fissavano al 2035 la fine della produzione e vendita delle caldaie alimentate a combustibile fossile, l’obbligo è ora fissato al 2040.
È importante precisare che questa restrizione non colpirà chi già possiede una caldaia a gas, ma riguarderà coloro che intendono acquistare un nuovo sistema di riscaldamento per le nuove costruzioni o per gli immobili in ristrutturazione.
Quindi, detenere una caldaia a gas rimarrà legale, ma la produzione e la commercializzazione di nuovi modelli saranno vietate a partire dal 2040.
Esistono diverse possibilità previste – proposte dalla Direttiva Ue Case Green – per coprire il fabbisogno energetico di un edificio a zero emissioni: energia da rinnovabili generata in loco o nelle vicinanze con impianti solari termici, geotermici o fotovoltaici, pompe di calore, energia idroelettrica e biomassa, rinnovabili fornite dalle comunità dell’energia rinnovabile.
Particolare enfasi è dedicata a sistemi di teleriscaldamento e teleraffrescamento efficienti ed energia da altre fonti prive di carbonio, basati sulla distribuzione di energia termica in forma di vapore, acqua calda o liquidi refrigerati da una fonte centrale o decentralizzata di produzione verso una pluralità di edifici o siti tramite una rete.

Direttiva case green e Regolamento Ecodesign
La bozza di revisione del Regolamento Ecodesign 813/2013/UE non risulta coerente con la Direttiva case green perché introduce per le caldaie a gas un indice di rendimento stagionale (seasonal space efficiency) pari al 115%.
La bozza di revisione non prevede, pertanto, un divieto diretto ma nuovi requisiti minimi irraggiungibili per le caldaie a gas in commercio, che sarebbero sostanzialmente fuori dal mercato a partire dal 1° settembre 2029.
È importante precisare che l’istruttoria e le trattative sulla revisione del Regolamento Ecodesign sono ancora in corso e i parametri indicati nella bozza potrebbero essere soggetti a modifica.
In ogni caso, anche in caso di approvazione del regolamento nella versione attuale, il divieto riguarderebbe solo le nuove caldaie e non quelle già installate.

Il passaggio alle pompe di calore costa troppo, servono soluzioni integrate
Un’analisi condotta da Bip Consulting per Assogasliquidi, Assogas, Assotermica, Proxigas e Utilitalia, presentata presso la Camera dei Deputati, propone le possibili soluzioni per la decarbonizzazione dei consumi residenziali prevista dalla Direttiva Ue Case Green, che impone all’Italia già dal 2025 lo stop degli incentivi alle caldaie a gas e il divieto di installazione e commercializzazione dal 2040.
Lo studio parte dalla premessa che:
• il riscaldamento rappresenta l’84 per cento dei consumi termici residenziali e il 68 per cento delle abitazioni utilizza sistemi alimentati a metano;
• gli obiettivi di riduzione stabiliti dall’EPBD possono essere realizzati attraverso l’utilizzo di diverse tecnologie, ciascuna delle quali presenta vantaggi e punti di attenzione.
Per valutare la convenienza economica delle differenti tecnologie di efficientamento, è stata sviluppata un’analisi volta a valutarne i costi di installazione e di gestione.
• Tecnologie a combustibile – La caldaia alimentata a gas (metano o GPL) è la soluzione più economica per l’utenza in tutti i casi analizzati.
• Tecnologie elettriche – Nonostante un’elevata efficienza, le pompe di calore risultano poco competitive considerando l’orizzonte temporale dello studio, non solo a causa degli elevati CapEx ma anche a fronte dell’attuale costo dell’energia elettrica stessa.
• Gas rinnovabili – Percentuali crescenti di gas rinnovabili potranno offrire soluzioni efficaci per raggiungere i target di efficienza a costi competitivi, supportando anche la decarbonizzazione.
Gli scenari analizzati portano ad una riduzione del consumo di energia per riscaldamento, ma con un limitato (o nullo) ritorno economico atteso per le famiglie.
Si ipotizza di raggiungere il target minimo della Direttiva EPBD (-6,3 Mtep) in quattro scenari; la sostituzione delle caldaie a gas tradizionali con quelle a condensazione potrebbe permettere di raggiungere il 60 per cento del target EPBD, con tempi di realizzazione più rapidi e interventi meno invasivi rispetto all’installazione delle pompe di calore. Le sole tecnologie impiantistiche non raggiungono il target, è necessario introdurre soluzioni miste con i sistemi di coibentazione.
Attualmente, le pompe di calore – la principale tra le soluzioni individuate dalla Direttiva e Case Green per la conversione – risultano meno competitive rispetto alle moderne caldaie a condensazione, sia per i costi d’installazione sia per i costi operativi, soprattutto a causa del prezzo dell’energia elettrica in Italia.
Lo studio considera solo 5,9 milioni di abitazioni italiane tecnicamente convertibili alle pompe di calore, tenendo conto di fattori come dimensione, dislocazione geografica e destinazione d’uso.
I target di risparmi di energia primaria possono essere garantiti tramite differenti scenari e un approccio technology neutral, volto a rendere più agevole l’accesso a soluzioni impiantistiche più efficienti ad un numero più elevato di cittadini. Questo approccio, inoltre, può facilitare la transizione green valorizzando la graduale integrazione di gas rinnovabili e vettori molecolari verdi (es. biometano/bioGPL).